Prologo
Fu una foglia secca a svegliarlo. Gli si posò ruvida sul naso e vi tremolò al ritmo del suo respiro, facendogli il solletico. Lui non la spostò; a malapena la registrò mentre le sue tempie pulsavano rapide e i suoi muscoli irrigiditi scricchiolavano come rottami sopraffatti dalla ruggine.
"Che...?" Fu il suo primo, sbilenco pensiero nello schiudere gli occhi e ritrovarsi all'aperto, sotto un cielo di un acceso celeste ammantato da fronde ombrate e rigogliose. "Dove... Cosa...? Cazzo, la testa...!" si lamentò, affondando le dita tra i ricci castani. Incrociò una seconda foglia, che vi si era appena incastrata. "... Perché mi fa male tutto? E perché sono... a pezzi? Cos'è... cos'è succe—"
Una terza foglia piroettò verso il basso e, stavolta, atterrò dritta nella sua bocca spalancata in uno sbadiglio. Il suo corpo rinvenne prima della mente e l'istinto che ne emerse fu di artigliarla, finendo per sbriciolarla inavvertitamente in mille pezzettini che rischiò di ingoiare.
Un «Puh!» disgustato e un conato a stento soppresso gli risalirono la gola, assestandogli la svegliata che gli serviva per capire che girarsi sugli avambracci e sputare – piuttosto che annaspare inerme sulla schiena – era la soluzione più intelligente a quel problema.
"Porca troia, che schifo!" sbottò, graffiandosi frenetico la lingua. "Non c'erano degli insetti sopra, vero?! Vero?!"
L'ennesima foglia dispettosa gli carezzò la nuca e lui, di rimando, rabbrividì. Se la strappò di dosso mugugnando parolacce, stritolandola con cattiveria, e fletté il collo verso l'albero responsabile per dare un bersaglio specifico alle sue imprecazioni.
Ma fu qualcos'altro a catturare la sua attenzione.
A una manciata di metri dal suolo, affacciata da uno sperone sporgente nella parete scoscesa di terra e roccia che si stagliava davanti a lui, c'era una sorta di volpe con una zampetta ben piantata su un arbusto spelacchiato e tremolante.
Una volpe dal pelo dorato, gli occhi viola e le ali.
Prese a fissarla stralunato, per metà convinto di starsela sognando e per metà di starsela immaginando per via di un trauma cranico. Lei lo fissava a sua volta; non con curiosità o circospezione, ma meticolosamente, insistentemente, con un'intensità – più umana che animalesca – tale da metterlo a disagio. Quello sguardo sembrava essere in grado di attraversarlo, di scavargli dentro fino a scoperchiare i crepacci più profondi e nascosti della sua mente per banchettare con i suoi segreti.
«Sei... vera?» le domandò, quasi aspettandosi che gli rispondesse sul serio.
La volpe alzò le lunghe orecchie a triangolo e schiuse il musetto affusolato come fosse sul punto di parlare... soltanto per gannire un verso stridulo e incomprensibile e sbattere la coda con forza contro l'arbusto.
Tutte le foglie che avevano resistito con determinazione agli scossoni precedenti caddero all'unisono, seppellendo quel povero ragazzo al di sotto fino alle spalle.
«Ma che cazzo!» esclamò lui, e si tirò seduto per scrollarsele di dosso.
Un colpo di tosse lo colse per la polvere e il terriccio fluttuanti che aveva inalato. E poi un altro, più rauco e spossante. E un altro e un altro ancora, finché non si ritrovò accartocciato su sé stesso, con un braccio intorno allo stomaco e uno intorno alla bocca.
"Quello... quello è sangue?" si chiese, ottenuta un po' di tregua dai suoi polmoni, nell'adocchiare la manica del giaccone militare.
Lo era senza ombra di dubbio; di un rosso vivo e, malgrado fosse mischiato alla saliva, persino lucido nei punti in cui non era stato assorbito. Ma non era neanche la parte più preoccupante: per poco non trasalì nel notare di sfuggita la mano con cui se l'era pulito dal mento.
"Perché sono... magrissimo?"
La sua pelle gli strangolava le ossa come il più stretto dei cappi; era addirittura spaccata e sanguinante sulle nocche e sui polsi, dove non aveva resistito alla tensione. E i suoi gomiti e le sue ginocchia spuntavano spigolosi, con bozzi che pareva stessero per esplodere e squarciargli la carne, dai vestiti in cui avrebbe potuto accamparsi.
"Cosa, cosa mi è successo?!"
Inorridì nel rendersi conto che non ne aveva la più pallida idea. E che quella non era che l'ultima di una lunga serie di domande a cui non aveva risposta.
"Dove sono? Perché sono qui? Che posto è qui?"
La foresta gli era aliena in qualunque senso. Non riconosceva i cespugli in fiore variopinti, dal fogliame rosa e lilla e bluastro, sparsi a vista d'occhio nel sottobosco; o il muschio bitorzoluto e riccioluto di un verde smorto, su cui aveva dormito, che si gonfiava alla pressione; o gli alberi alti chilometri, dai tronchi venati di viola e le chiome bicolore, che mostravano un viso al cielo e uno alla terra.
"Mi sono perso? Sono ferito. Stavo, ah, scappando...? Stavo combattendo? Ho un uniforme dell'Unitariato addosso, sono un soldato? Un... brigadiere? Sono... Io... Chi sono io?"
L'aria si fece all'improvviso più sfuggente. Scivolava via con troppa facilità, gli toglieva le forze, vorticava dentro e fuori dalla sua testa; non avrebbe saputo dire se fosse per consolarsi o per avere un punto di ancoraggio e non iniziare a vorticare insieme al mondo, ma si abbracciò. Schiacciò le braccia contro il petto, una sopra l'altra, e si sforzò di respirare a fondo.
"Senti il calcio. Tocca il grilletto. Guarda la canna" si ripeté d'istinto, in una cantilena famigliare, scandita tuttavia da una voce sconosciuta. "Senti il calcio. Tocca il grilletto. Guarda la canna."
Se avesse avuto davvero un fucile tra le mani – e se avesse avuto qualcosa di più di uno spettro dimenticato ad accompagnarlo – di sicuro quel mantra sarebbe stato più efficace; nonostante ciò, non ci volle comunque troppo perché il suo cuore si calmasse, la vista gli si schiarisse e, soprattutto, quella striscia d'inchiostro ricominciasse a fare capolino dall'orlo del giaccone.
"Il tatuaggio!" realizzò, scoprendosi il polso sinistro. "I brigadieri hanno tutti il tatuaggio identificativo! Se ce l'ho..."
Il suo sguardo scorse rapido oltre il simbolo stilizzato dell'Unitariato – un pallino nero attorniato da due triangoli orizzontali – e sotto la matricola "12021020" per focalizzarsi sul nome che si era conquistato in battaglia: REskil.
"Mi chiamo così...?"
«REskil» pronunciò ad alta voce, ma quel suono non ebbe il sapore né la nostalgia sperati; anzi, gli lasciò un retrogusto acido e metallico più di quanto non avesse fatto la tosse.
"No. C'è qualcosa... che non va, questo non è il nome, è solo la mia... Non importa!" Decretò, rispedendo quelle sensazioni da dove erano venute. "Almeno è qualcosa. Visto? Non c'è bisogno di farsi prendere dal panico. La tua testa non è rotta... Beh, non dentro" specificò, perché i capelli incrostati di sangue e le fitte occasionali al cranio testimoniavano che fuori lo fosse eccome. "Significa che la tua memoria è ancora lì e la puoi recuperare. Prima però devi pensare alle cose veramente importanti: trovare un po' d'acqua e del cibo e... segni di civiltà, se i Tre te la mandano buona. Ma niente panico, va bene? Niente—"
Uno sprazzo dorato s'intrufolò negli spazietti tra le sue dita.
«Ah!»
Sia REskil sia la volpe tremarono al suo grido. Lui tastò il retro della cintura per afferrare il suo pugnale – che ricordò di avere soltanto nel momento del bisogno; lei, che si era avvicinata di soppiatto, scalpicciò all'indietro e si abbassò sulle zampette anteriori, piegando le ali a mo' di scudo.
"Sta per attaccare?! Mi vuole mangiare?!"
Ragazzo e animale si fissarono di nuovo a vicenda, a distanza di sicurezza, stavolta in uno scambio che non aveva nulla di mistico e tutto di pragmatico.
Dietro gli occhietti viola della volpe si nascondeva ancora una scintilla d'intelligenza quasi spaventosa, ma ad animarla era rimasta soltanto della... perplessità. Lo annusò a lungo, come ad accertarsi di qualcosa, con quel suo nasino nero e umido che, nell'aggrinzirsi, scopriva denti aguzzi progettati per azzannare e strappare e rivoli di bava viscosa.
REskil inghiottì a secco e circondò con lentezza il manico del pugnale, pronto a reagire in caso la situazione fosse degenerata.
Ma non accadde.
La volpe parve apprezzare il suo odore – per quanto nauseabondo fosse tra sudore, sporco e sangue – perché rilassò le ali e si mise seduta; e immobile rimase se non per le orecchie impegnate a frustare via gli insetti.
«Mi... mi mordi se mi muovo?»
La volpe inclinò la testolina come non avesse sentito.
«Ho detto mi...»
"Ma che stai facendo?" si richiamò. "Sarà pure sveglia, ma non abbastanza da capire che dici."
«Ora mi alzo, d'accordo?» la avvisò lo stesso, augurandosi che, se non le sue parole, almeno sarebbe stato il suo tono a chiarirle che non costituiva una minaccia. «Non saltarmi addosso, per favore.»
La volpe ribatté con un versetto acuto, simile a una risata; o magari rise sul serio – perché REskil fu piuttosto goffo nel rimettersi in piedi – ma non accennò alcun movimento.
«Io... io me ne vado a cercare qualcosa da mangiare» continuò, alternando lo sguardo tra lei e i dintorni. «Grazie per non avermi sbranato. Ciao.»
REskil attese un attimo, quindi si avviò zoppicante e incerto in direzione del cespuglio più vicino: un batuffolo lilla costellato di bacche indaco. A metà strada si guardò indietro per controllare la volpe che, malgrado soppesasse ogni suo passo, sostava dove l'aveva lasciata.
"Sono nel suo territorio? Per questo mi tiene d'occhio?"
REskil riportò i propri sul cespuglio. Decine e decine di nozioni di sopravvivenza affiorarono dai meandri della sua mente come bolle d'aria dal fondo di un lago. Eppure, nessuna lo preparava per quello: un groviglio di rametti spinati e foglie taglienti e bulbose come mazze chiodate – nonché pelose come le ortiche – di un impensabile color lilla.
Tutto in quella pianta gridava "letale", ma bastò che un filo del suo profumo gli salisse fino alle narici perché lo stomaco gli ribollisse e si contorcesse con tale violenza da farlo crollare di nuovo in ginocchio.
«Cazzo...!» imprecò a denti stretti e ricacciò un mugolio.
Il dolore però scemò in fretta, e così fecero le preoccupazioni e i pensieri, adesso che le bacche indaco erano proprio davanti al suo viso e lui era immerso nel loro profumo. Era caldo, dolce, appetitoso come nulla che avesse mai sperimentato prima.
REskil non resistette all'impulso di coglierne qualcuna. Se le rigirò tra le dita con un sorriso storto, con una risatina deliziata che gli riverberava alla base della gola. Le spremette con delicatezza, ammirando famelico le gocce di succo che fuoriuscivano dalle crepe e immaginandole scorrere sulla sua lingua.
"Saranno come le more?" si domandò. "No, saranno più buone delle more. Molto più buone delle more..."
REskil se le accostò alle labbra, schiuse e inumidite per accoglierle al meglio, e all'ultimo esitò. Ma fu solo per un istante, per un lampo d'ansia distante e ovattata, rapidamente sopraffatta dall'estasi tanto piacevole quanto implacabile che stava investendo i suoi sensi.
Altrettanto implacabile – e nemmeno lontanamente piacevole – fu la zampata che gliele catapultò via dalla mano.
«... No, no, no!» fece REskil, in una nenia collosa e tardiva, nell'inquadrare la poltiglia informe che si stava spandendo sull'erba poco più in là. «Le stavo per—»
Una seconda zampata gli fu sferrata alla fronte.
«Ahia! Piantala!»
La volpe, ora al suo fianco, arruffò il pelo dorato, sbuffò, ringhiò e spalancò le ali inferocita, camminandogli incontro minacciosa.
"Erano le sue?!"
«Mi dis... Sta' lontana!»
REskil indietreggiò maldestro e tremante su palmi e talloni, cadendo su un fianco appena provava a sfoderare il pugnale e rinunciando appena la volpe si faceva troppo vicina.
«Non ti avvertirò di nuovo!» le gridò. «Sta' lontana!»
La volpe non sentì ragioni e ripiegò le ali e si arrestò soltanto quando lei ritenne opportuno. Non sembrava spaventata né dalle sue minacce né dal pugnale che REskil aveva finalmente avuto l'occasione di estrarre, neppure nel vederselo puntato contro.
Al contrario, gli diede le spalle in un gesto di inspiegabile fiducia e trottò indispettita fino al cespuglio, sotto al quale iniziò a scavare.
REskil si issò usando la radice esposta e mastodontica di uno degli alberi chilometrici nelle vicinanze – il pugnale sempre stretto in pugno – e indugiò per un po' prima di affiancarla. Capì cosa stesse tentando di mostrargli prima ancora di sporgersi sulla fossa: il fetore famigliare di putrefazione si sostituì all'aroma delle bacche e ne contrastò qualunque effetto residuo.
C'erano i resti di una bestiolina dissanguata sul fondo, avidamente stretti dalle radici spinate del cespuglio; il becco osseo, che le proteggeva la vera bocca, era ancora sporco di polpa indaco.
"Stavo... stavo per fare la stessa fine" comprese, ansimante. "Non riuscivo neanche a pensare mentre ero vicino a quel coso. Se non era per lei..."
«Grazie» le mormorò. «Mi hai... Ehi!»
La volpe, che lo stava contemplando a mento alto con un atteggiamento inquietantemente assimilabile a sdegno, gli morse il lembo dei pantaloni per trascinarlo con sé, del tutto imperturbata dal cespuglio assassino e dalle sue vittime.
«Vengo! Vengo!» le assicurò. «Non tirare, che sono già strappati!»
Di nuovo, non lo ascoltò e perseverò finché entrambi non furono davanti a un secondo cespuglio. Era totalmente diverso dal precedente: rosa di manto e rosso di bacche, con foglie sfilacciate e soffici come abiti consumati.
"Mi sta... mi sta dicendo cosa si può mangiare?"
«Sei sicura che non sono velenose anche queste?»
Se non la domanda in sé per sé, la volpe dovette capire la sua diffidenza, perché gli diede qualche colpetto alla gamba con il muso per incoraggiarlo.
REskil si accovacciò e strinse una delle bacche tra pollice e indice, ma non la staccò. Prima ne saggiò la consistenza – morbida, quasi viscida – e fiutò l'aria con attenzione per evitarsi un'altra brutta sorpresa. Addirittura si guardò intorno e studiò più e più volte le altre piante nelle vicinanze, nella vana speranza di riconoscerne qualcuna di commestibile e non doversi affidare alla sorte.
La volpe, intanto, gli picchiettava il braccio con impazienza. Aveva gannito, indicato ripetutamente il cespuglio e persino addentato l'aria per suggergli di servirsi; e ora, evidentemente, si era stancata della sua ritrosia – o magari della mancanza di attenzioni – perché gli tirò una zampata che avrebbe di certo lasciato un livido.
«Smettila di picchiarmi, ho capito!» strillò REskil. «Sto decidendo!»
La volpe allargò le narici e soffiò in un consenso irritato, ma ciò non la fece desistere dal continuare a squadrarlo spazientita.
REskil si concentrò sconfitto sul cespuglio. "Per i Tre, sto davvero pensando di ascoltare i consigli di una strana volpe aliena?"
Il suo stomaco brontolò disperato, strizzandosi e contorcendosi, fornendo la sua, di risposta.
"Non ho razioni addosso" si rammentò, ingoiando per sopprimere un gemito sofferente. "E non so quanto mi resta prima di non avere nemmeno la forza di camminare e difendermi... o di stare sveglio. Qualcosa la devi mangiare. Meglio fidarsi di una volpe che ti ha salvato la vita che scommettere contro il caso e passare le tue ultime ore vomitando e cagando."
Sospirando in egual misura con speranza di non restarci secco e rassegnazione, tirò la manciata di bacche che affollavano il suo pugno... e poi ci provò di nuovo, perché non erano venute via. Quindi ci riprovò, ancora e ancora, strattonando il rametto da cui pendevano finché l'intero cespuglio non ondeggiò e muggì addolorato.
"Ma che cazzo...?"
Una lingua schizzò fuori dalla terra e gli si spiaccicò sulla mano. Lì si spalmò fino a inglobarla del tutto e iniziò a pulsare come se tentasse di masticarla.
"Ma che cazzo?!"
REskil cercò di afferrarla d'istinto, vi scavò con le unghie fino a graffiarla, ma la saliva oleosa continuava a far scivolare via le sue dita.
«Lasciami!» pregò, pur non sapendo chi o cosa. «Lasciami andare!»
Una testa squamata dalla fronte gonfia e cadente, che offriva riparo a due piccolissimi occhi forse ciechi, sbucò subito dopo dall'erba, quasi annoiata dal suo fracasso. Muggì ancora, in un verso irato gutturale e stordente, che riecheggiò per la radura come un tuono e spinse diverse creaturine a nascondersi o a prendere il volo.
REskil scalciò e si trascinò all'indietro con quanta forza aveva, combattendo fino a non avere fiato, mentre alla lingua e alla testa si aggiungeva un corpo massiccio, sorretto da quattro tozze zampe armate di decine di artigli di un metro l'uno.
"Merda, merda!"
Si diede per spacciato. Si figurò tutti i modi in cui quella bestia aliena l'avrebbe squartato e divorato. Pensò a come il suo sangue sarebbe gocciolato da quel muso a uncino, a come le sue interiora si sarebbero sparse sul terreno e vi sarebbero sprofondate, unendosi a chissà quante altre di quanti altri sventurati.
Poi un insetto grassoccio e rumoroso, dall'esoscheletro scintillante, si schiantò con poca grazia sulla pelliccia-cespuglio per ubriacarsi del polline che ne ricopriva le bacche.
E all'improvviso REskil fu non fu più di alcun interesse. La bestia lo liberò e fece strisciare furtiva la sua lingua per cogliere quell'insetto di sorpresa e catturarlo. Allora, concluso il pasto, rimaneggiò la terra che la sua emersione aveva ribaltato e si rinfilò al di sotto con uno sbadiglio, camuffata di nuovo come un semplice cespuglio.
REskil restò immobile per tutto il tempo. Assistette alla scena in silenzio, in un misto di terrore, sgomento e confusione. Non fu finché il battito non gli si ritirò dai timpani e dalla gola per tornare nel petto che lui la sentì: una risata.
La risata della volpe, che faticava a tenersi in piedi. E che crollò a pancia in su, sbellicandosi fino alle lacrime, nell'incrociare la sua espressione.
"Lei... lo sapeva...?"
REskil la osservò stordito, i pensieri ancora rallentati dalla paura.
"Questo... questo era uno scherzo?" ipotizzò, cominciando ad ansimare persino più velocemente. "Io sto morendo di fame. Ogni momento potrebbe essere l'ultimo buono per ricominciare a mangiare e lei... lei li butta per prendermi per il culo?!"
REskil serrò la mascella e stritolò i fili d'erba sotto i suoi pugni, già immaginandosi le urla che le avrebbe riversato addosso. Ma alla fine non permise a nessuna di loro di concretizzarsi. Piuttosto, senza sprecare un secondo di considerazione o un briciolo di energie in più per lei, si rialzò e claudicò verso la parete scoscesa. L'avrebbe costeggiata per trovare un pendio per risalirla e, dalla sua cima, avrebbe scandagliato i dintorni in cerca di tracce di civiltà. Da solo.
La volpe non doveva aspettarsi quella reazione: si dimenò per rialzarsi in fretta e lo inseguì appena realizzò che l'avrebbe abbandonata davvero. Quindi lo fiancheggiò e iniziò a uggiolare e strillare, con un volume e un timbro agitati e spacca timpani, come quelli di scuse sbrigative e consapevolmente vane.
REskil dapprima la ignorò. Quando gli si sedette davanti per sbarragli la strada, le girò attorno. E quando si accucciò sui suoi piedi, allungò la gamba su di lei e le passò sopra.
Messa alle strette, la volpe gli azzannò l'orlo dei pantaloni e piantò le zampe al suolo.
«No! Vaffanculo!» latrò, e li strattonò, strappandoli fino al ginocchio, pur di non cedere. «Vaffanculo a te e a questo stupido pianeta di merda e a questa stupidissima foresta del cazzo!»
La volpe afflosciò le orecchie e alzò le ali per proteggersi, ma REskil non si fece impietosire.
«Io e te abbiamo chiuso, chiaro?! Ora sparisci o la prossima cosa che proverò a mangiare sarà la tua cazzo di coscia!» concluse, additando aggressivo la boscaglia che li circondava.
La volpe osservò il gesto, ma non lo colse. O forse lo colse e non le importò di obbedire, possibilità più che reale che non fece che alimentare la rabbia di REskil.
«Non mi hai sentito?! Vattene! Trovati qualcun altro da torturare!» ribadì con la voce roca, già assottigliata da quelle poche urla che non stavano sortendo alcun effetto. «Vattene, cazzo!»
L'intenzione di REskil era quella di tirarle un calcio per spaventarla e scacciarla definitivamente. Aveva dato per scontato che la volpe, senza pensarci un attimo, sarebbe volata via ben prima di esserne sfiorata e lui avrebbe finito col colpire solo l'aria.
Invece quella, testarda, s'impuntò e non si smosse, e REskil lo realizzò troppo tardi per fermarsi. Il suo stivale impattò contro il fianco della volpe e lei rotolò un paio di metri più in là con un guaito stridente e soffocato.
"Cazzo!"
«No! Mi dispiace! Mi dispiace! Non...»
REskil si affrettò da lei, ma prese a barcollare dopo neanche un paio di passi. D'un tratto c'erano troppi alberi attorno a lui, tanto fitti da sbarrargli qualunque strada; e c'erano due cieli e due prati; e c'erano due volpi: una a terra e una in piedi.
"Cosa...?"
REskil si scontrò di spalla contro uno dei tronchi. Vi si aggrappò come se temesse che una corrente improvvisa l'avrebbe trascinato via da un momento all'altro. E vi strusciò con la schiena per arrivare a sedersi in sicurezza. La sua tempia poggiava su una sporgenza acuminata nel legno. Lui non si spostò; anzi, sperò che il dolore lo facesse riprendere e cercò di usarla per bucarsi la pelle... ma non ne aveva la forza.
REskil era vuoto. E stanco. Come se tutti gli anni della sua vita, anche quelli che ancora non aveva vissuto – e che non avrebbe vissuto mai – fossero calati sul suo corpo come l'acqua di una cascata prima di scivolare via per sempre.
Tentò di parlare.
Non voleva che le sue ultime parole fossero delle scuse abbozzate, pregne di rammarico e vergogna.
Dalla sua gola uscì un misero rantolo.
"È... è finita? È così che... che morirò? Mi addormenterò per non svegliarmi più?" L'ultima parte di lui che premeva perché reagisse, si rialzasse e lottasse si acquietò in fretta. Sbiadì assieme ai colori e alle forme, affogando nella luce che a chiazze invase e, infine, conquistò le sue retine.
Era bianca, come nelle storie che chissà chi, chissà dove e quando gli aveva raccontato. Ma non era calda né accogliente né rassicurante.
Era implacabile e sprezzante e gli straziava gli occhi. REskil si disse che era soltanto colpa sua se delle lacrime gli stavano scorrendo sulle guance.
Non voleva nemmeno che l'ultima cosa che facesse fosse piangere.
Uno schiocco flebile e lontano, forse un rametto spezzato, sostituì quelle ultime volontà con qualcosa di molto meno consolatorio: visioni di tutte le altre morti, di certo più rapide e cruente, che avrebbero potuto coglierlo mentre giaceva indifeso e singhiozzante.
"Era un altro animale?! E se stavolta è un predatore?!" Se fosse stato quello il caso, non avrebbe avuto speranze: non riusciva a muovere un muscolo. "Cazzo, è più vicino!"
REskil sforzò al massimo la vista e fu al contempo euforico e terrorizzato nel distinguere uno sprazzo d'oro che si muoveva con cautela a qualche passo da lui.
Attese: non poteva fare altro.
E nel frattempo dibatté su cosa avrebbe fatto la volpe: se sarebbe scappata dopo aver verificato che REskil non era più capace di braccarla; o se avrebbe approfittato del suo stato per vendicarsi e garantirsi i pasti dei giorni successivi.
Ma, per l'ennesima volta, la volpe si catapultò fuori dagli schemi in cui lui insisteva a piazzarla.
Schiacciò la fronte contro la sua mano riversa a terra e lì rimase per qualche secondo, magari nell'innocente aspettativa che REskil l'accarezzasse. Nel capire che non sarebbe successo, la prese tra le fauci e girò su sé stessa per far sì che il suo braccio la circondasse, dopodiché si accoccolò tra il suo stomaco e il suo petto. E addirittura gli leccò la faccia con quella che era, senza ombra di dubbio, una miscela di premura e preoccupazione.
"... Ma cos'ha che non va questa volpe? Perché è ancora qui dopo quello che—"
REskil non continuò la domanda perché, in fondo, non gli importava della risposta. Non davanti alla prospettiva di avere una strana, affettuosa, in fin dei conti adorabile volpe aliena in grembo nei suoi ultimi istanti.
«Re... resti... men... tre...?» supplicò.
La volpe emise un gagnolio tetro e lento, come l'avesse infine compreso, e si appoggiò con la testolina proprio sopra al suo cuore. Lì iniziò a strusciargli la guancia addosso in movimenti ritmici e gentili, forse quelle che considerava carezze, a cui REskil si abbandonò con tutto il poco sé stesso che rimaneva. Erano l'unico addio che gli sarebbe stato concesso.
"È calda... e morbida... come una coperta" articolò a fatica, con un sorriso debole e stremato, tentando di cristallizzare quella sensazione nella sua memoria. "Sarebbe bello se... se anche la morte fosse così..."
Senza le forze di aggrapparsi a qualunque cosa che non fosse quella speranza, REskil smise di ansare, smise di tremare e smise persino di avere paura. E chiuse gli occhi che ancora sorrideva.
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Foto: ???
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