Capitolo 5 - La voce del sangue (Parte Prima)
Correre. Correre e non fermarsi mai, per nessuna ragione: era quello il suo unico impulso.
Da quella che ormai sembrava un'eternità, Revi sfrecciava così veloce da non toccare quasi terra; così veloce da superare il vento e confondersi nella notte.
Il fiato gli sfuggiva, le gambe cedevano e i piedi scalzi sanguinavano per i tagli; eppure, Revi non concepiva neppure l'idea di rallentare.
Non era un'opzione.
Non quando la foresta stessa attorno a lui stava tentando di intrappolarlo.
I fili d'erba sotto i suoi passi fremevano come serpi, gli si avvinghiavano alle caviglie, gliele stritolavano, azzannavano. Le radici giganti si annodavano le une alle altre in maglie invalicabili e tumultuose, pronte a catturarlo se si fosse avvicinato troppo. Gli alberi allungavano le fronde, si contorcevano ad angoli folli e impossibili, spaccandosi cortecce e tronchi, pur di agguantarlo. Persino il cielo, nero e senza stelle, stava calando inesorabile su di lui; ormai, era tanto basso da spezzare cime e rami.
Da minacciare di schiacciarlo.
Ma Revi non osò frenare, né gettarsi a terra, né tentare di reggerlo.
Corse ancora. Corse finché il cielo non cadde davvero dietro di lui in uno schianto assordante e infuocato, e l'onda d'urto non spazzò via l'intera foresta.
Dalle sue ceneri, si erse un campo di battaglia. Revi si ritrovò a schivare macerie in perpetuo crollo, bombe sospese a mezz'aria e cadaveri straziati costretti a spararsi fino a non avere carne sulle ossa.
Schiere di proiettili fendevano l'aria da ogni direzione, a volte sfiorando, a volte attraversando Revi come il suo corpo non avesse sostanza. Anziché fischiare, risuonavano di mille voci; alcune familiari, altre del tutto sconosciute, altre ancora in lingue che Revi neanche comprendeva.
Ma tutte decise a non essere dimenticate.
Se i proiettili svanivano nel nulla, le voci gli si aggrappavano addosso disperate, scavando nella sua pelle con unghia spezzate e falangi esposte. Più Revi tentava di scrollarsele di dosso, più loro affondavano dentro di lui.
Bisbigliavano. Gemevano. Pregavano. Urlavano.
Si intrecciavano in una cacofonia caotica e ferale, che gravava sulle sue spalle come una presenza fisica, opprimente; e pesante al punto da fargli schioccare vertebre e ginocchia.
Revi non correva più, adesso. Si trascinava, con le mani sulle orecchie e i denti crepati dallo sforzo, diretto al pendio che si innalzava al termine del campo di battaglia.
C'era una luce, in cima. Un bagliore tra il rosa e l'arancione, simile a un tramonto caldo e pacifico.
C'era la salvezza.
Ma per quando Revi iniziò la scalata, le voci lo avevano già ricoperto. E quelle che non avevano trovato spazio su di lui, gli sciamavano intorno agitate in vortici fitti e burrascosi, via via più asfissianti.
Revi supplicò loro di andarsene, di lasciarlo in pace, ma la sua, di voce, si rifiutava di uscire. O forse era uscita eccome e si era aggiunta alle altre, contro di lui.
Crollò in ginocchio, nel fango. E benché le ultime forze lo stessero abbandonando, si ostinò a proseguire. Strisciò in avanti, sul terreno sempre più ripido e scivoloso, verso la luce.
Mancava poco: Revi poteva quasi sentirne il calore, l'abbraccio.
E la convinzione che corrispondesse alla salvezza si mostrò reale nel momento in cui, con gran parte della salita alle sue spalle, le voci si dispersero e arretrarono, incapaci di seguirlo oltre.
Libero dal loro peso e con la speranza a fornirgliene l'energia, Revi sgomitò fino in cima, dove il pendio convergeva in uno sperone acuminato conficcato nel cielo.
E da dove si irradiava la luce.
Tutto ciò che gli restava da fare per salvarsi era afferrarla e farsi afferrare.
Tra loro due si stagliava un abisso indefinito, dall'eco sciabordante e tempestoso. Ma Revi non ne ebbe alcuna paura: era certo che la luce lo avrebbe raccolto, se fosse caduto; anzi, che gli avrebbe impedito di cadere in primo luogo.
Per cui, si allungò sul vuoto più che poteva. Protese le braccia e distese le dita e finì per sporgersi con tutto il busto.
E quando finalmente toccò la luce, lei... lo rigettò.
Si accartocciò. Si corruppe. Si tinse di un rosso scuro, agonizzante.
Revi assistette affranto mentre la luce moriva in silenzio, sbriciolandosi sotto i suoi polpastrelli in pezzetti troppo piccoli per essere riuniti; troppo leggeri per non essere subito dispersi dal vento. E con essi, spariva anche qualunque possibilità di salvezza.
Per qualche secondo, la dipartita della luce non sembrò cambiare nulla.
Poi cambiò tutto.
I colori si spensero. L'aria si immobilizzò. La gravità stessa si invertì.
La terra su cui Revi poggiava franò come sabbia in una clessidra capovolta, strascinandolo verso quello che un tempo era stato il cielo e che, adesso, si andava solidificando in un nuovo abisso.
E da quello che un tempo era stato l'abisso, e che adesso si andava condensando in un nuovo cielo, si riversò una pioggia viscida, densa e dal rivoltante odore metallico.
Revi lo riconobbe prima ancora che la prima goccia si schiantasse sul suo viso.
Sangue.
Frammenti di un intero oceano di sangue che stava per piombare su di lui.
Revi non fece in tempo a rialzarsi che ne fu travolto. Fu sbattuto sul pavimento e sulle pareti di roccia, ancora e ancora, sotto l'incessante imperversare dei flutti. Fu rapito dalla corrente, sballottato in ogni direzione finché, vorticando e roteando, non riuscì più a capire quale fosse il sopra e quale il sotto; o quanto a fondo fosse stato portato.
Ma se anche ciò non fosse accaduto, non avrebbe fatto alcuna differenza: Revi non avrebbe comunque avuto speranze di riaffiorare.
Perché in quell'oceano un sopra e un sotto non esistevano. Perché quell'oceano non aveva fine. Perché da quell'oceano Revi non poteva correre via.
Poteva solamente affondarvi.
E annegare.
«Ah!»
Revi stava ancora annaspando, agitando braccia e gambe in un goffo tentativo di nuotare, quando finalmente si svegliò. In un primo momento, non vide che rosso, non assaporò che sangue e non sentì che la nauseante pressione accumulata su ogni centimetro del suo corpo.
Poi, anche la sua mente abbandonò l'incubo e lui comprese dove si trovasse in realtà: vivo e al sicuro su di un letto. Revi era steso di pancia nel mezzo, immerso nel sudore e nei cuscini; e l'unico, vero pericolo da scongiurare erano le lenzuola in cui si era rigirato fino a impedirsi la circolazione negli arti.
"... Stai bene. Va tutto bene" si rassicurò, riprendendo fiato. "Era solo uno stupido sogno, non stai morendo. Non stai, ah!"
Revi fece per rannicchiarsi e trasalì per una carezza scivolosa alle gambe. Scalciando per riflesso, non colpì altro che le strambe lenzuola in cui era infagottato e si issò su un gomito per studiarle meglio. Erano lisce – troppo lisce – e profumate a dispetto delle guerra che aveva dichiarato loro nel sonno; e sofficissime nonostante, dal modo in cui riflettevano la luce, parevano rivestite di metallo. Ma la parte più strana era che non se ne vedeva la fine; Revi dovette ripercorrerle per quelli che gli sembrarono minuti interi prima di raggiungere il bordo del materasso.
Perché quello su cui era disteso non era un semplice letto.
Era un baldacchino che avrebbe potuto ospitare comodamente cinque o sei persone, dalla struttura in legno intarsiata a imitare fiori e viticci, e tende leggere e trasparenti a isolarlo.
"Ma... che...?"
Revi spinse lo sguardo appannato nel resto della stanza e si rese presto conto di non essere più nella sua cella. Era in una camera da letto degna di un magnate d'industria. In quanto a dimensioni, stracciava tutte quelle che aveva avuto in vita sua messe assieme; due volte. E questo, senza neanche includere il bagno privato che si intravedeva dallo stretto arco sulla parete di fronte.
Aveva una zona studio, alla destra del baldacchino, con una scrivania ricurva sovrastata da mensole incassate. E una zona salotto al centro delineata da divanetti dall'aria morbida, strabordanti di cuscini ricamati e intramezzati da un tavolino. E persino una zona lettura in uno degli angoli, ricoperto per ambo i lati da una libreria alta fino al soffitto ricolma di libri.
"Dove... come...?"
Un brivido gli serpeggiò lungo la spina dorsale, ora che le lenzuola non lo avvolgevano più e il sudore gli si stava asciugando addosso; e Revi convenne di riflettere meglio sull'assurda piega presa dalla situazione in seguito. Allora, avrebbe fatto meglio a spogliarsi del pigiama bagnato, lavarsi e cambiarsi prima di causarsi un malanno.
Ma ci fu subito un problema lampante nella sua lista di priorità: Revi non lo indossava, un pigiama. Ad eccezione di un paio di boxer era nudo. Anzi, per quando lo riguardava, era nudo pur considerando i boxer, dato che erano così striminziti e succinti da non lasciare nulla all'immaginazione.
"Perché sono..." Un altro brivido lo attraversò, uno che non aveva nulla a che fare col freddo. "Loro non mi hanno... vero?"
Revi si strappò le lenzuola di dosso con tale impeto da farle scricchiolare. Scandagliò il materasso in cerca di macchie e, quando non ne trovò, si contorse per perlustrarsi la pelle.
"Specchio. Mi serve uno specchio" ragionò, e saltò giù dal baldacchino per precipitarsi in bagno.
La sua caviglia rotta protestò, e il paio di gradini che innalzavano la zona letto rispetto al resto della stanza glielo resero più difficile, ma Revi si obbligò a procedere anche a costo di rompersi l'altra. Artigliò il ripiano del lavandino per reggersi in piedi e si esaminò il collo, i fianchi e la schiena da qualunque angolazione, più e più volte, finché fu sicuro che non vi fossero segni o lividi. A sbirciarsi nei boxer non fu altrettanto rapido. Li controllò di sfuggita, con la coda dell'occhio, rifiutandosi di guardarli direttamente per paura di scoprirli sporchi di sangue. E riprese a respirare solo dopo che non fu così.
"Visto? Non ti hanno fatto niente. Calmati" si impose, benché non con grande successo: complice la malsana magrezza, Revi sarebbe stato in grado di contare fino all'ultima sua vena che pulsava all'impazzata. "Stai bene, chiaro? Te ne accorgevi, ti faceva almeno male qualcosa, altrimenti, perciò non ti ci fissare e—"
Revi sussultò nel prestare infine, e veramente, attenzione al suo riflesso. Indietreggiò di scatto, scontrandosi con le pareti scorrevoli della vasca dietro di sé. E restò teso e schiacciato contro di esse a lungo, a fissare quegli occhi viola, spalancati e terrorizzati e inquietantemente luminosi, senza riuscire a riconoscerli come suoi.
Li aveva già scorti, in verità. Non sul viso di Kelon e del fratello a cui nemmeno assomigliava, sul proprio, specchiato in uno scudo di metallo riverso a terra. Ma era stato dopo che Revi era sopravvissuto a una caduta mortale, che aveva resistito alla volontà inflessibile di un dio come Kelon e che aveva sbaragliato uno squadrone di Custodi con nient'altro che un grido. In quello che, al risveglio, aveva liquidato come un altro dei folli, spaventosi e violenti sogni con cui il suo cervello si divertiva a tormentarlo.
E che ora, di fronte a quegli occhi, appariva invece molto reale.
"... No... No. Non è successo davvero! Non è possibile" insistette Revi. "Se era successo, allora...!"
Revi si adocchiò la caviglia "rotta", quella su cui aveva zoppicato nel tragitto fino al bagno e su cui, chissà quando, senza rendersene conto, aveva iniziato a poggiare con tranquillità il proprio peso.
"Ah! Volevi la prova? Eccola! Te lo sei sognato! Se te l'eri rotta sul serio, non ti guariva in una notte! E di certo non ti guariva prima delle altre... cose...?"
Ma le ferite – il buco nell'addome e lo squarcio nella spalla – che Revi stava freneticamente cercando, e a cui stava affidando la sua sanità mentale, non c'erano più. Erano scomparse senza lasciarsi dietro neanche una cicatrice, una crosta o un misero arrossamento.
Come non fossero mai esistite.
Revi si infilò le mani nei capelli e marciò avanti e indietro, ansimando fino a sfocarsi la vista. "Mi, mi sono sognato tutto?! Mi sono sognato Keras e Yaro e... Derval e la squadra?! Mi sono sognato Kelon?! E Ric?! E Tryn?! Mi sto svegliando adesso per la prima volta?!" snocciolò; piccoli gemiti di panico si erano uniti al rumore rapido dei suoi passi. "Forse non ho sognato nulla e ho solo dormito fino a guarire! Insomma, quanto ci voleva? Due... tre... mesi, cazzo! Non posso aver dormito per mesi! Ma non posso nemmeno avere strani... poteri di distruzione di massa e gli occhi viola!"
Revi osservò lo specchio in silenzio e immobile per un attimo, poi vi si fiondò. Vi schiacciò contro il naso, sporgendosi sul ripiano del lavandino fin quasi a salirvi, per analizzare quei maledetti occhi dal più vicino possibile.
"Magari è la luce! Magari è come con quei quadri che sembrano di un colore da soli, ma se li illumini o li metti vicino ad altri quadri alla fine sono di un altro!"
Ma il viola delle sue iridi, pur schiarendosi e scurendosi sotto la lucina dello specchio, la luce naturale della finestra e il confronto con una saponetta verdastra, non assomigliava mai ad altro che al viola. E ciò non fece che aizzare ulteriormente le sua irrequietudine.
Il ripiano del lavandino, stretto nei suoi pugni, era ormai l'ultimo appiglio alla calma che aveva. E si allentava ogni secondo di più.
"... Non vedo più bene i colori!" stabilì. L'arcobaleno di saponi nella vasca dietro di lui si permetteva di dissentire, ma Revi lo ignorò. "È l'unica spiegazione sensata! All'improvviso, sono... ho... come si chiama? Quella cosa che non te li fa—"
Revi diede una testata allo specchio. Non fu di proposito. Le mani gli scivolarono via dal ripiano, privandolo del sostegno, e la gravità fece il resto. Grazie al cielo il vetro non si frantumò, ma gli restituì il colpo con gli interessi.
«Porca... di quella... troia!» mugugnò sottovoce, nel toccarsi la fronte che già palpitava.
Ciò che Revi si aspettava di ritrovarsi sulle mani era del semplice sudore, lo stesso che incolpava del suo bernoccolo.
Ciò che si ritrovò effettivamente sulle mani fu marmo; che Revi aveva inspiegabilmente staccato dal ripiano e quindi sciolto al mero tocco come le scaglie di cioccolato dei biscotti di Yaro.
«Cazzo!» squittì e scrollò le braccia per liberarsene; e il marmo, piuttosto che cadere a terra, schizzò dappertutto e si spiaccicò su pareti e mobili. «Cazzo! Cazzo!»
Revi si strappò il grosso dai palmi, si pulì quello che rimase con un asciugamano e uscì di corsa dal bagno. Si chiuse la porta scorrevole dietro, come a nascondere il casino che aveva combinato.
"Ma che mi sta succedendo?!" strepitò. "È colpa di Kelon?! È stato il suo sangue?! Mi ha... infettato? Tryn aveva detto che non succedeva niente!"
Ma Revi fuse anche la maniglia dell'armadio. E l'anta. E i vestiti stessi. E per tirarne fuori di integri e indossarli dovette strisciarvi dentro e usare i gomiti e denti.
"Questo non è niente!" protestò, retrocedendo prima che l'armadio intero colasse su di lui. "Questo è un—"
Persino le assi di legno sotto le piante dei suoi piedi iniziarono a sformarsi e Revi fu sul punto di singhiozzare per una crisi di nervi. Tra le lacrime, puntò la porta-finestra – dall'altro lato del baldacchino rispetto alla scrivania.
Doveva andarsene. Sapeva solo che doveva andarsene.
Augurandosi che il pavimento non lo inghiottisse all'impatto, si gettò sugli scalini della zona letto e si arrampicò a unghiate finché non poté affacciarsi all'esterno.
Il giardino oltre il vetro, purché immenso, era recintato da alte mura e brulicava di attività. Il che, da un lato, complicò il suo piano di fuga; dall'altro, perlomeno fece scattare il suo addestramento e contribuì finalmente a calmarlo. Il primo pensiero che Revi ebbe a quella scoperta fu il più lucido da quando si era svegliato.
"Sei persone minimo. Non sono armati né in armatura. Fumo. Giardinieri che bruciano le foglie?"
Una di loro si voltò verso la porta-finestra e Revi si ritrasse contro la parete per non essere avvistato, moderando il suo respiro come temesse di farsi sentire.
"Non importa chi sono. Sei contro uno è una scommessa persa in partenza. Passare dal giardino è fuori questione."
Revi alzò lo sguardo alla porta della camera. Era grande e solida, ma qualche spallata nel punto giusto l'avrebbe di sicuro scardinata. Stavolta, né il parquet sotto i suoi piedi né gli stipiti sotto le sue dita si deformarono quando Revi vi entrò in contatto.
"È perché sono più concentrato, adesso?" si chiese. "Questo, uhm, potere parte quando mi agito? Quando... Ah, te ne preoccuperai dopo!"
Revi tese le orecchie per accertarsi che non ci fossero guardie armate immediatamente fuori dalla porta, quindi la testò con un paio di colpetti. Dal rumore che gli ritornò comprese di averla sopravvalutata; non era spessa: sarebbe andata giù con più facilità del previsto.
Forse, la fortuna stava finalmente volgendo in suo favore.
O almeno fu quello che Revi credette prima di lanciarsi contro la porta con tutto il proprio peso, scoprire che non era nemmeno chiusa e schiantarsi di faccia contro quella dall'altra parte del corridoio. Che chiusa lo era per davvero.
«Ma li mortacci mia,» proruppe, in un grido che soffocò nell'incavo del gomito, «che nun ce penso alle cose prima de falle!»
"Ma perché era aperta...?!"
Stordito dalla botta, per qualche metro Revi camminò storto e sbatté da una parete all'altra del corridoio. Irruppe involontariamente in una delle tante stanze che lo costeggiavano e si avvicinò ondeggiante alle finestre sperando che da quel lato della casa dessero in strada. Cosa che facevano eccome, dopo un altro pezzetto di giardino. Purtroppo, la strada in questione era principale e affollata tanto di negozi quanto di gente e guardie armate.
Revi si cucciò prima che una di loro lo notasse e tirò le tende per sgattaiolare indietro indisturbato. "Pattugliano fuori dalla proprietà e non dentro, quindi? Buono a sapersi."
Dal corridoio, sbucò in un gigantesco atrio squadrato. File di librerie bianche occupavano i muri e file di libri, piantine, piccoli dipinti e sculture occupavano le librerie. Una fontana d'acqua limpidissima, conquistata da un manto di fiori bianchi, svettava al centro dell'ambiente. Immersa nei raggi che filtravano dal lucernaio a cupola sul soffitto, sembrava brillare di luce propria come fosse uscita direttamente da una fiaba e fosse pronta a esaudire desideri.
Era sormontata da un ponticello biforcuto di pietra bianca, di certo panoramico, che connetteva le due ali della villa al primo piano; le piante rampicanti, che crescevano sulle balaustre, le cascavano attorno come tende da teatro.
"Ma quanto è ricco il tizio che vive qua?!" Nel girare su sé stesso per ammirare l'atrio, a Revi sfuggì una risata che era un misto di meraviglia e incredulità; risata che scemò in fretta quando fu un'altra domanda, inevitabile conseguenza della precedente, a ripresentarsi per l'ennesima volta pretendendo attenzione. "E che ci faccio io, qua?"
Revi non tentò più di calcolare il costo della villa, per non essere costretto ad aggiungere il proprio. Perché l'unica risposta che sapeva darsi – l'unica motivazione sensata al perché fosse lì – era che adesso anche lui fosse l'ennesima cianfrusaglia da esporre su una libreria.
Un raro esemplare di umano la cui sola utilità era essere sfoggiato. O peggio, soddisfare qualunque pulsione avesse pervaso il suo nuovo proprietario.
"È stato Kelon a vendermi? Perché non gli servo più a niente?" si chiese. "O è una punizione per essere scappato e aver—"
Revi serrò la mascella, scacciando i pensieri superflui per far spazio a quelli da soldato. Aveva ben altre priorità, al momento.
L'atrio aveva quattro uscite: il corridoio da cui era arrivato, una porta-finestra doppia da cui si accedeva al giardino sul retro, il portone d'ingresso rivolto alla strada e un secondo corridoio – speculare al primo – che conduceva nell'altra ala della villa.
Revi imboccò quest'ultimo senza guardarsi indietro. "Se il figlio di puttana che mi ha comprato pensa che accetterò la cosa e gli obbedirò come un bravo schiavetto, non ha capito un cazzo. Me la sono guadagnata, la libertà. E ammazzerò lui e tutti gli altri bastardi in questo posto di merda prima di farmela togliere ancora" ringhiò. "Non sarò mai più proprietà di qualcuno. Mai più."
Fu con quella determinazione che Revi cominciò la meticolosa e lunga ricerca di una via di fuga tra le classi, le biblioteche, gli studi e le altre strambe stanze della zona giorno della casa. E prima della stanchezza sempre più pressante, fu un odore a interromperla. Un profumino di fritto proveniente dalla fine del corridoio che prese in fretta possesso dei suoi sensi; e che Revi inseguì d'istinto.
"C'è la cucina, di là" constatò, malgrado il tono fosse supplichevole come quello di una preghiera. "Ma è carne, questa che sento...?"
Il suo stomaco brontolò più disperato di quanto non avesse mai fatto. E non fu finché il rumore dell'olio sfrigolante e degli utensili tintinnanti non furono abbastanza vicini da sovrastare la sua trance, che Revi rinsavì e si arrestò.
Senza accorgersene, aveva superato le ultime stanze del corridoio; aveva persino sconfinato nella sala da pranzo antecedente alla cucina.
Revi avrebbe dovuto ritornare sui suoi passi e controllare anche quelle; ma se ne scoprì incapace. Esattamente come si scoprì incapace di resistere alla fame per un istante di più.
"Non cambia niente se torno indietro dopo aver rubato qualcosa da mangiare" si giustificò, nell'avanzare in punta di piedi. "Anzi, mangiare mi rimetterà in forze e sarò più..."
Con la pancia a guidarlo verso l'arco della cucina, Revi si accorse della sedia riversa davanti a sé all'ultimo secondo buono per non inciamparvi. Nell'aggirarla con cautela, l'occhio gli cadde sul tavolo lì accanto.
Vantava più di venti posti ed era invaso da stoviglie sufficienti per un esercito.
"Ma quanta gente c'è in questa casa?!"
Revi quasi desistette e fuggì in corridoio, a quella vista; poi diede una seconda, più attenta, occhiata al tavolo e notò un dettaglio fondamentale: benché stracolmo, era davvero apparecchiato per sette persone.
E a giudicare dal canticchio stonato e sommesso proveniente dalla cucina, di cui nessuno si era ancora lamentato, solo una di loro era ai fornelli.
Revi oltrepassò l'arco: uno contro uno era una scommessa di gran lunga più facile di vincere, se la situazione fosse degenerata in uno scontro; ma non lo avrebbe permesso. Sarebbe uscito dalla cucina silenzioso come vi era entrato. E per quando il cuoco si fosse accorto del furto, Revi sarebbe già stato lontano e, soprattutto, sazio.
"Oddio, sono bistecche, quelle?! Di carne vera?!"
Esposte su quel tavolinetto in fondo a sinistra tra l'altro arco d'ingresso della cucina e la porta-finestra per il giardino, oltre a sembrarlo, avevano tutta la grazia e la maestosità di un'offerta per gli dei.
Revi si morse le labbra per non sbavare. Se quel suo potere avesse cominciato a squagliare l'intera cucina, non se ne sarebbe sorpreso. Le sue stesse ginocchia erano molli dall'eccitazione.
"Va bene, sangue freddo. Ci sei quasi: solo qualche altro metro. E se fai piano, anzi pianissimo, magari riesci a prenderne due. O tre. O tutto il piatto." Patteggiò. "Tanto quel tizio è distratto, perciò—"
Revi sbirciò il cuoco per sicurezza e sussultò così forte contro i banconi che stava fiancheggiando da rischiare di passarci attraverso.
Era Kelon il cuoco. E non soltanto non stava badando più al soffritto, ma si era voltato per seguirlo con lo sguardo. Nell'incrociare finalmente quello di Revi, incurvò inquisitore e severo un sopracciglio.
«... Ti sei vestito pescando a caso dall'armadio o la moda umana ha preso una deriva orribile negli ultimi trecento anni?»
Revi sussultò ancora, in automatico, e non fu in grado di fare altro che rimanere impalato dov'era, con la schiena appiattita contro il bordo del bancone e la mente che si affannava a raccogliere i cocci del vecchio piano per improvvisarne uno nuovo.
«Perché sei così scioccato? Credevi sul serio che non ti avrei sentito arrivare?» lo incalzò. «Sì, ho promesso alla mamma che non avrei più curiosato tra i tuoi pensieri o le tue emozioni senza il tuo permesso, ma questo non significa che non le percepisca da un Kraji-Dhal di distanza. O che—»
Revi inquadrò il piatto di bistecche e scattò verso di esso, pronto ad afferrarne una e correre via come il vento, ma una piccola mano lo fermò. Apparteneva a una donna minuta dagli occhi a mandorla e le iridi viola, che aveva appena varcato la porta-finestra. La smorfia sibilante che le inaspriva il viso non aveva nulla da invidiare a quella di un serpente.
«Hai voglia di morire?»
"Merda! Ma quanti ce ne sono di questi tizi?!"
Revi provò a liberarsi a strattoni, ma la forza di quella donna – anzi, dea – era di gran lunga superiore a quanto il suo aspetto faceva intendere, e la stretta ferrea in cui l'aveva intrappolato ne era la conferma.
Non l'avrebbe allentata senza una buona ragione, per cui Revi si affrettò a procurargliene una: si allungò sul bancone ed estrasse un coltello da cucina da un ceppo vicino.
«Lasciami!» le gridò, puntandoglielo contro. «Lasciami o ti apro la gola!»
La donna nemmeno si scompose; in compenso, Kelon incrociò le braccia e sbuffò divertito.
«Non riusciresti a farle male sul serio neppure volendo. L'unico motivo per cui mi ci sono avvicinato io è perché il tuo—»
Laddove le semplici minacce avevano fallito, fu una pugnalata a funzionare. Revi dovette trapassare la mano della donna fino a conficcare il coltello nel suo stesso avambraccio, per costringerla a desistere; ma alla fine fu libero di sfrecciare verso l'arco della cucina dietro di sé.
Che trovò bloccato.
Fyn – l'uomo dei fulmini che aveva fronteggiato alla prigione – vi sostava con un secondo piatto pieno di bistecche ancora fumanti e un'espressione spaesata sul volto ovale.
«... questo baccano? Che sta succedendo qui dentro?»
«Revi si è svegliato e sta dando di matto» rispose Kelon con tranquillità, poggiandosi con un fianco ai fornelli appena spenti.
«Ah. Quindi non ricorda ancora nulla?»
«Di certo si ricorda come si usa un coltello» borbottò la donna, che si stava avvolgendo la mano in un panno.
Kelon scrollò le spalle. «No. A quanto pare la mamma è un po' più arrugginita di quanto—»
«Levati!» urlò Revi.
Fyn si degnò di abbassare la testa perché fossero faccia a faccia solo allora. Abbozzò un sorriso e fece per parlare, ma Revi lo troncò con uno spintone. Anzi, con quello che tentò di essere uno spintone. Perché Fyn, alto e ben piazzato, non si smosse. E quando Revi provò ad aggirarlo, fu sufficiente un suo braccio per sbarrargli la strada.
«Levati, cazzo! Vuoi una pugnalata anche tu?!»
Fyn si accigliò e serrò le dita sulla lama del coltello. «Che ne dici invece di calmarti e permetterci di spiegare?»
Revi lo spinse per tagliargliele e si ritrovò a impugnare il manico e una mezza lama deforme. Perché al tocco di Fyn il metallo si era fuso in una poltiglia così incandescente da essere dolorosa da guardare.
"Merda! Merda!"
Un verso strozzato di puro terrore saltò fuori dalla gola di Revi mentre lui indietreggiava tremante e ansimante in un angolo. Era in trappola. Era indifeso, impotente e del tutto impreparato contro divinità capaci di cancellarlo dall'esistenza con non più di uno schiocco di dita.
"Non uscirai vivo da questa stanza. Ti ammazzeranno. Morirai per una cazzo di fetta di carne" snocciolò, facendo saettare gli occhi dagli uni all'altra per capire chi avrebbe attaccato per primo. "Perché sei dovuto venire in cucina?! Perché non sei scappato e basta?! Perché—"
Kelon schioccò la lingua a disagio e tanto bastò perché Revi tremasse al punto da rischiare di sgusciare via dalla propria pelle. «Ammi, non prenderla dal verso sbagliato, ma sono abbastanza sicuro che, ecco, disarmarlo in questo modo—»
«Sia stata la cosa più stupida che tu potessi fare» concluse la donna. «Stiamo cercando di tranquillizzarlo. Non di farlo morire di crepacuore.»
«Quel... coltello era molto affilato, Lera! E non mi sembra si sia fatto problemi a usarlo di sé o su di te!» si difese Fyn, benché fosse arrossito e bofonchiasse. «E se vogliamo dirla tutta, se tu non lo avessi torturato, Kelon, Revi non sarebbe così spaventato da minacciarci con un coltello!»
«Oh, Santo me.» Sospirò frustrato. «Quante altre volte dovrò chiederti scusa per aver fatto ciò che era necessario?»
«Non azzardarti a spacciarlo per chissà che atto nobile. Era un capriccio» soffiò. «E non è a me che devi chiedere scusa!»
«Oh, cielo. Voi due non starete di nuovo bisticciando?»
Una voce femminile – tanto potente quanto cristallina – preannunciò l'arrivo di un'altra donna dalla porta-finestra per il giardino.
Il sole stesso parve accompagnarla.
Abbracciava la sua figura morbida e sinuosa come se la luce non fosse stata creata per altro che farle da abito. Le scivolava sui ricci argentei in selvagge e tumultuose spirali d'oro e di bronzo. Baluginava in quelle sue iridi viola allegre e calorose come dei timidi raggi avrebbero fatto tra le foglie di qualche fronda.
E si irradiava dalla sua pelle dorata con il bagliore caldo di un'alba, flebile ma inconfondibile.
Fu in risposta a quest'ultimo che Revi si rilassò; che stese schiena e ginocchia e abbassò il coltello.
Perché quel calore familiare si addensò nel suo petto cullando una sensazione dimenticata, a cui era incapace di dare un nome, ma che istintivamente riconosceva. Una sensazione di serenità e sicurezza e appartenenza, che profumava di fiori e sapeva di buono e risuonava di risate e schiocchi di baci.
E che aveva quella donna come origine.
"La... conosco?"
«Quel che è fatto, è fatto» continuò, poggiandosi i pugni in vita; la gonna al ginocchio che aveva indosso era spiegazzata e sporca d'erba e di polline, come avesse speso la mattinata a sonnecchiare in un prato. «Parlatene con calma e risolvete una volta per tutte la cosa, che rimuginarci è...»
La donna notò infine Revi, incastrato e mezzo nascosto tra i banconi e la parete, e si ammutolì. Una pletora di emozioni adombrarono il suo bel viso a cuore, susseguendosi tanto in fretta da confondersi l'una nell'altra e perdere ogni identità.
Tutte, tranne l'ultima: una commozione soverchiante, infinita, che la travolse con forza tale da sospingerla in avanti di qualche passo.
«Ciao» esordì; la voce prima maestosa ora ridotta in un mormorio cauto e tremulo.
Revi si riscosse e rinsaldò la presa sul coltello, frapponendolo tra loro. La donna non parve notarlo o, se lo fece, non le importò. Era troppo impegnata ad ammirarlo, a scrutarlo più e più volte come a definire i contorni di un miraggio, per badare all'arma nel suo pugno che non avrebbe tagliato neppure un tozzo di pane.
«In piedi sembri persino più grande...» constatò. Una risata nervosa e gioiosa in parti uguali le danzò sulle labbra. «Cielo, sei già più alto di me. Da un giorno all'altro inizierà a spuntarti la barba! E pensare che—»
«Sta' lontana!»
La donna si arrestò, addirittura indietreggiò ferita dal suo avvertimento, e si guardò intorno mogia solo per ricevere sguardi e cenni altrettanto desolati.
«Lui comunque non...?»
«No» confermò Kelon. «Non ha funzionato.»
«... D'accordo, uhm... allora proverò qualcosa di diverso» farfugliò – forse a lui, forse a sé stessa – e ricominciò a camminare con lentezza verso Revi.
«Ho detto di stare lontana!» ribadì lui all'istante, schiacciandosi contro la parete alle proprie spalle. «Posso ancora usarlo, questo coso! Ce l'ha ancora una punta!»
Più che la minaccia, fu il terrore di cui era imbevuta a fare effetto; e sebbene quello convinse la donna a rallentare, non la fece desistere dall'avvicinarsi.
«Non sarà necessario. Non hai nulla da temere da me. Da nessuno di noi» specificò, muovendo una mano a indicare Kelon, Fyn e Lera. «Tu l'hai dimenticato, ma sei al sicuro, qui. Sei a casa, Re'vi.»
A Revi sembrò di bruciare, nell'udire il suo nome pronunciato in quel modo. E per poco non urlò quando del vero fuoco divampò e gli scorse nelle vene delle braccia nude fino alle iridi riflesse nel coltello, infiammandole di viola.
«Che cazzo mi sta succedendo?! Che... che cazzo mi avete fatto?!» scoppiò, spostando lo sguardo su Kelon. «Lo sapevi?! Lo sapevi che se Tryn mi iniettava il tuo—»
La donna si protese come non desiderasse altro che raggiungerlo, ma al sussulto di Revi si trattenne a malincuore e rimase a distanza. «Re'vi, guardami. Vedere te stesso e il tuo corpo cambiare, senza conoscere il perché, deve essere terrificante, lo comprendo, ma non dipende da altri che da te, ed è un bene che stia accadendo. Perché—»
«Un bene?!» la sovrastò Revi. «I miei occhi sono diventati viola! Viola! E il mio sangue va a fuoco! E—»
Il parquet sotto le piante dei suoi piedi e il manico del coltello nel suo pugno iniziarono ad ammorbidirsi e a sgusciare tra le sue dita, e Revi si stritolò i ricci con un gemito stremato e singhiozzante.
«E appena mi innervosisco, mi capita questo» soffiò, indirizzando poi tutto ciò che stava provando contro quella donna. «Ci ho ucciso della gente, così! Soldati innocenti, che facevano il loro lavoro! E a te sembra un bene?! Sono... un cazzo di mostro!»
«No, non lo sei» lo contraddisse, annientando quella sua convinzione con nient'altro che la fermezza e l'assolutezza del suo tono. «E non hai ucciso nessuno. I Custodi che ti hanno accerchiato sono tutti ancora vivi. Te lo giuro.»
"... Ma loro... No, io li ho visti, ho visto quel ragazzo... Sta mentendo, giusto? Per farmi arrendere!" Niente nella sua voce o nel suo viso, tuttavia, tradiva la ben che minima incertezza o traccia di inganno. "O magari no...? Magari, è sincera e... Dio, non ci sto capendo niente!"
«E sì, Re'vi, è un bene» proseguì, con più dolcezza. «Perché questo è la tua natura sopita che si sta finalmente mostrando. Questo è il tuo sangue che reagisce al richiamo del nostro. Questo sei tu, il vero te. E perché tutto questo ti sia chiaro, non devi fare altro che ascoltare.»
"E questo che cazzo significa, adesso...?!"
«È... è quello che sto facendo!» strepitò. «Sei tu che non stai spiegando...»
Fu allora che Revi si accorse di qualcosa che gli fece girare la testa: quella donna stava conversando con lui nell'ennesima lingua sconosciuta. Soltanto che, stavolta, la lingua in questione sconosciuta non lo era stata nemmeno per un secondo.
Revi l'aveva compresa e parlata fin dal principio, senza alcuna difficoltà, perché era parte di lui; parte di chiunque, in quella stanza.
Le sillabe erano note, le parole sinfonie che echeggiavano nel suo sangue in arrangiamenti – dai significati più disparati – dei battiti di quattro, anzi, sette cuori sincroni. Revi li sentiva pulsare sotto le costole sempre più forte, proprio al fianco del suo, in trepidante attesa di pulsare insieme al suo.
Come fossero uno.
Ma più lui percepiva quella melodia, più la sua mente si divideva tra il bisogno di abbandonarsi a essa e quello di ricacciarla. Fremeva, strattonata in direzioni opposte, dimenandosi e torcendosi come un animale in catene disposto a strapparsi gli arti pur di non sottomettersi.
Revi perse l'equilibrio e la presa sul coltello e impattò contro il tavolo accostato alla parete accanto a sé, ma neanche sentì la botta oltre il puro caos che scompigliava i suoi pensieri.
Collassò sulle ginocchia, con la testa tra le mani e un urlo silenzioso bloccato in gola, rannicchiato su sé stesso fin quasi a toccare il pavimento con la fronte.
«Cosa gli...?»
«Questo è un buon segno o...?»
«Avevi detto... sarebbe stato...»
Qualcuno tra Fyn, Lera e Kelon – o forse tutti e tre – era scattato in suo soccorso, ma la donna non permise loro di oltrepassarla.
«Credo... che la barriera stia finalmente crollando» rispose, e la sua fu l'unica voce che riuscì a fendere il subbuglio e giungergli chiara. «... Non, non dovremmo intervenire. Non sappiamo come o perché si sia evoluta. Rischieremmo di peggiorare soltanto le cose.»
Eppure, un attimo esatto fu tutto il tempo che fu in grado di sopportare prima di contraddirsi e inginocchiarsi davanti a lui. E con lei, Fyn, Lera e Kelon.
«Fatelo... smettere» singhiozzò Revi. «Fa male... Per favore... per...»
La donna raccolse il suo viso tra le mani, lo carezzò con i pollici e, per quanto il gesto affievolì un po' la sofferenza, non la rese neanche lontanamente sopportabile.
«Sei tu l'unico che può farlo smettere, ge'alin» sussurrò. «Non opporti. Lascia che la barriera cada. Ha assolto al suo compito, non serve più che ti protegga. Sei con noi, adesso. Sei finalmente con noi.»
Revi scosse la testa più e più volte. Era certo che, se invece di affannarsi a tenerla unita, avesse assecondato una qualunque delle direzioni in cui la sua mente stava venendo strattonata, si sarebbe spezzata. Lui si sarebbe spezzato e sarebbe stata la fine.
Ma si concentrò su quella donna, su quel suo volto gioviale ora solcato da un'espressione distrutta, sulle lacrime che le si affollavano in quegli occhi grandi dalle ciglia ricurve, sul suo tocco amorevole che aveva bramato fin da quando l'aveva vista; su tutti quei suoi dettagli così familiari e lampanti, giusti; e fidarsi di lei fu forse la sola decisione presa in tutta la propria vita su cui Revi non ebbe alcun dubbio o esitazione.
Le obbedì, abbandonandosi al cambiamento.
E invece di spezzarsi, Revi... tornò completo.
Il dolore cessò e una manciata di ricordi, a lungo celati nei meandri della sua memoria, strariparono dal muro ormai crepato che li aveva isolati per fluire tra i suoi pensieri.
Intridersi di essi fu come... riemergere dopo aver speso l'intera esistenza a galleggiare appena sotto il pelo dell'acqua. E in quel momento, per la prima volta in assoluto, Revi vide il mondo non attraverso il filtro limitante e distorto di un paio di occhi mortali, ma con i suoi e per ciò che era realmente.
Rialzò la testa e assistette attonito mentre le due versioni della realtà che conosceva si sovrapponevano. Mentre i ragazzini scalmanati, sempre sul piede di guerra, che erano i suoi fratelli maggiori Kelon e Fyn maturavano in uomini dalle barbe non più chiazzate e i pigli più seriosi che malandrini. Mentre sua sorella maggiore Lera, da giovane ribelle e incontenibile, invecchiava in una donna sicura e severa che, piuttosto di azzuffarsi con la vita, aveva da tempo imparato a domarla.
Mentre l'umana qualunque davanti a lui vestiva di nuovo i panni di una dea dalla pelle dorata e luminosa, non olivastra; dagli occhi viola, non di un comune marrone; dai ricci identici ai suoi, se non persino più disordinati, ma di un vivo argento e non di un profondo castano.
«Re'vi...?» lo chiamò Lida-Cau.
Revi tremò nel riconoscere infine quella voce che cantava per farlo addormentare tutte le sere. Che lo sgridava quando le tirava i capelli troppo forte o provava a masticarli. Che rideva ogni volta che rideva lui nel suono più bello che avesse mai sentito.
«... Mamma?»
Chi, tra i due, si fosse lanciato per primo in quell'abbraccio, Revi non ne aveva proprio idea. E a essere onesti, non gli importava. Le sole cose che contavano davvero erano le braccia di sua madre che lo stritolavano tanto quanto quelle di Revi stritolavano lei. I suoi baci frenetici, alternati ai singhiozzi e ai risolini e ai nomignoli affettuosi e ai bisbigli increduli e sollevati, che gli tempestavano il viso come a volergli ricoprire ogni centimetro di pelle. E le sue lacrime di gioia – o forse le loro lacrime, Revi non era in condizione di capire se e quali gli appartenessero – che gli inzuppavano i vestiti.
Il resto, per Revi, poteva pure scomparire.
◄●►
Foto: Lida-Cau (o almeno l'impersonatrice che è arrivata più vicina all'edizione annuale; come con Elvis).
Come? Non è sabato né domenica, ma è lunedì e sono per l'ennesima volta in ritardo (dopo un rinvio, per giunta)? Ahahah, che fervida immaginazione che avete. Ogni giorno è domenica, se ci credi abbastanza (e hai ferie a disposizione). Deliri a parte, il quinto capitolo è infine approdato su Wattpad. Per caso, è finito? Ahahah, che fervida—
No, sorry, non è finito. Abbiate pietà di me. È quasi finito. Ma essendo che questo mese di luglio è il magico periodo dell'anno in cui la vostra autrice cerca disperatamente di non rimandare gli esami a settembre, per potersi godere un minimo di vacanze senza la spada di Damocle sulla capoccia, siate un po' più comprensivi del solito e concedetele un po' più di manovra sulle tempistiche. L'obiettivo è riuscire a pubblicare la seconda parte entro domenica 21. La scadenza massima che mi auto-impongo è domenica 28. Se non batto un colpo entro una di queste due date, chiamate chi l'ha visto, che potrei essermi essiccata come una mummia alla scrivania e aver urgente bisogno di liquidi e cfu.
Detto ciò, vi è piaciuto questo capitoletto confusionario e toccante con i primi misteri svelati? Spero di sì, perché la seconda parte sarà mille volte migliore (o peggiore, riguardo ai drammi) sotto ogni punto di vista, che questo, a confronto, era un assaggino. Perciò, preparatevi. Non subito, però, che prima devo finire di scriverlo, haha. A presto (si spera)! ^-^
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