Capitolo 1 - Il ragazzo nella foresta (Parte Seconda)

REskil drizzò la schiena. «Davvero, amico? Ti fidi abbastanza?»

«Ha!» esclamò lui con più convinzione. «Coha, yumener'ri.»

REskil raccolse la lancia, non prima di essersi strusciato a ripetizione i palmi sulle cosce per non insozzarla. Non riconosceva affatto il metallo lucido e argentato di cui era fatta, il che significava che era alieno o prezioso; con tutta probabilità, in quel caso era entrambe le cose. Doveva valere un occhio della testa, e questo senza neanche considerarne il meccanismo o la fattura: una rete di dettagliatissime radici in bassorilievo ne abbracciava l'asta; non erano lì a mero scopo decorativo, REskil lo capì da come riusciva a impugnarla saldamente a dispetto del sudore freddo che gli si era subito ripresentato sulle mani.

Pur essendo sottile quanto un suo braccio – che al momento era costituito soltanto da pelle e ossa – era molto più pesante di quanto si era immaginato.

Certo, estesa il peso si bilanciava, ma REskil ebbe il sospetto che per maneggiarla con efficacia ci volessero comunque una forza e un'agilità fuori dal comune.

"Grazie ai Tre ha deciso che non sono una minaccia" pensò, occhieggiando il soldato. "Con solo il pugnale dalla mia, facevo una gran brutta fine."

REskil capovolse la lancia per esaminarla da un'angolazione diversa e si aspettò di essere stordito dal rumore di tutte le componenti interne che slittavano; ma fu solo il gancetto della cordicella alla base, che impattò contro di essa nel movimento, a tintinnare.

"Questa cosa è veramente un piccolo miracolo della meccanica..." meditò; un'inattesa euforia si accese dentro di lui nel figurarsi qualcuno chino su una scrivania, ad assemblarla pezzo dopo pezzo, sostituita in fretta dall'amara e pressante sensazione di essersi dimenticato qualcosa di importante. "Forse ne ho già vista una uguale? No... non è questo. È più un—"

«Galar'ri, men!» lo incitò il soldato.

REskil ricambiò il suo ghigno e concordò di aver temporeggiato fin troppo.

"Magari se sbircio dentro mentre la apro, riesco a vedere—"

«Zah!» squittì il soldato, in uno strambo "no" mischiato a un urlo, catapultandosi in avanti.

«Cosa?!» strillò REskil. «Che ho fatto? Te l'ho già rotta?»

Il soldato lo costrinse a orientarla in diagonale e si lanciò in un monologo agitato pronunciato così in fretta da sembrare un'unica grande parola.

«Amico, non sto capendo nulla» ammise REskil. «Amico... amico...»

Il soldato si calmò al terzo "amico" di richiamo e afflosciò le braccia, con cui aveva gesticolato all'impazzata, per ridirigerle in una sequela di azioni ben più chiara. Mimò l'atto di svitare la lancia e poi un'esplosione.

«... Mi stai dicendo che appena la stappi, questa cosa scatta?! Ma chi è il pazzo che l'ha progettata?! E a quanti anni te l'hanno data in mano?!» Gliela tese con determinata e frettolosa cautela. «No, grazie! Te la rido! Non la voglio più provare!»

Il soldato sogghignò e, piuttosto che riprendersela, mise le mani sulle sue e le guidò in posizione, spiegandogli cosa fare esattamente. Raccomandò inoltre di tenere salda la presa sulla parte bassa del manico striminzito, più e più volte.

"Perché ha tipo un rinculo" intuì REskil.

Infine, si accertò che REskil sapesse replicare tutta la procedura e si ritrasse soltanto dopo il tentativo vincente.

«Non ne sono comunque sicuro...» borbottò.

La prospettiva di brandire un'arma figa come quella e sentirsi il protagonista di un film era molto allettante. La prospettiva di infilzarsi da solo nel processo e morire dissanguato non lo era altrettanto.

«Coha, yal narim» lo incoraggiò il soldato, sfoggiando un altro di quei suoi sorrisi radiosi.

REskil sbuffò sconfitto. «... E va bene!»

Si allontanò la lancia dal corpo per quanto possibile e la puntò verso un cespuglio in lontananza – perché la sicurezza non era mai troppa; poi l'azionò con la stessa cura che avrebbe riservato a una granata.

Il rinculo fu di gran lunga più forte del previsto e l'asta schizzò all'indietro in rotta di collisione diretta e – REskil ne fu convinto – voluta con il suo naso. Chiuse gli occhi e si preparò all'impatto, già rimpiangendo quella decisione prima ancora di subirne le conseguenze.

Non si aspettava che la botta gli sarebbe stata assestata al mento. E che a sbattervi contro, invece dell'asta, sarebbe stata la nuca del soldato. REskil schiuse le palpebre con lentezza – un po' per la sciocca convinzione che bastassero a risparmiargli un'operazione alla vista non richiesta alquanto sanguinolenta, un po' per la confusione – e scorse la chioma bionda e spettinata del soldato sotto di sé e, ancora più sotto, le sue mani che schiacciavano a terra la lancia.

«Visto?! Te l'avevo detto che non ero sicuro!» protestò, lasciandola andare e arretrando imbarazzato. «E quella cosa è posseduta e nessuno dovrebbe usarla! È la seconda volta che cerca di uccidermi!»

Il soldato lo contemplò in silenzio per qualche secondo mentre si massaggiava il bernoccolo... poi scoppiò a ridere.

«Non è divertente» gracchiò REskil. «Piantala. Non è divertente!»

Ma divertente lo era eccome e il muso che aveva messo vacillò presto, si piegò verso l'alto in un sorriso storto e alla fine diede vita a uno sghignazzio vivace; perché persino la risata di quel ragazzo era contagiosa.

«Su-né» sillabò tra un risolino e l'altro, inspirando di tanto in tanto per il dolore.

REskil non era in condizioni migliori e si teneva il mento per non scatenare qualche fitta. «Certo che hai... hai la testa dura in tutti i sensi!»

«Faeval yalil narim!» si difese lui.

REskil rise più forte.

Quella spensieratezza non era qualcosa che si sarebbe immaginato di provare quando si era svegliato a pezzi quello stesso giorno. D'un tratto, però, non si sentiva più perso né solo né affamato né sofferente per tutte le sue ferite, pur avendone guadagnata una nuova alla fronte; due, se si considerava pure il livido sul mento.

Ed era tutto merito di quel soldato.

"Non ti è andata tanto male, in fin dei conti" pensò.

E fu facile credere che sarebbe andata anche meglio mentre le risate scemavano in sorrisetti complici.

Persino quel pianeta non gli sembrava più così infernale. Anzi, seduto sull'erba verde, soffice e rigogliosa, con le macchie di luce che filtravano dalle foglie a scaldarlo e la brezza profumata ad accarezzarlo, quel pianeta gli sembrò l'opposto di un inferno.

Avrebbe potuto abituarsi a quel genere di posto. A quel genere di cose.

«Kurai ya vila minan?» gli domandò il soldato dopo un po'.

REskil riportò lo sguardo su di lui. Tra le mani aveva ancora lo stesso biscotto che gli aveva ordinato di mangiare da almeno un quarto d'ora e nemmeno fingeva di averlo morsicato; stette per sgridarlo ancora perché, malgrado la sua insistenza, continuava a prenderne uno per sé – e mai di quelli interi – per ogni tre presi da lui, ma riconobbe che era l'ora di rinunciare. Era fiato sprecato.

«Hm?»

«Kurai ya vila minan?» ripeté, adagio. Si corrucciò al suo silenzio e si ruotò un polso nel pugno per ordinare le idee. «Nila minan ya Yaro. Ya-ro» scandì, colpendosi il petto.

«Ah. Mi stai dicendo che ti chiami Yaro

Yaro annuì e sorrise di nuovo; poi lo indicò. «Vi?»

REskil aprì la bocca e la serrò subito dopo. L'unico "nome" che si ricordava in quel momento era REskil, per l'appunto, ma non voleva presentarsi così. Non quando quella denominazione era perlopiù il cognome di un grande Ufficiale del passato e, alla meglio, di suo c'era soltanto un'iniziale. Una misera lettera – alle volte addirittura scelta a sorte – che era stata aggiunta non per cortesia nei confronti suoi e degli altri brigadieri, ma per acquietare le lamentele dei discendenti di sangue di quegli Ufficiali, che aborrivano la sola idea che orfani, bastardi e scarti di bordello se ne andassero in giro ostentando il nome di famiglia.

«Io...»

«Io?» chiese Yaro.

«No!» si affrettò a correggerlo REskil. «Non mi chiamo "Io".»

E per rendere chiaro il concetto, negò portando il mento all'insù come era usanza nella lingua di Yaro.

«Wo pan» bofonchiò. «Qyu... kurai ya vila minan?»

REskil si grattò il dorso della mano. "E adesso come me ne esco? Pure se voglio spiegarglielo perché non mi va di farmi chiamare REskil, come faccio? E se non voglio spiegargli quello, come glielo spiego che il mio vero nome non me lo ricordo perché la mia memoria è andata?" Controllò Yaro, che aspettava con esitante pazienza, e le sue unghie finirono con il solcargli la pelle e raggiungere la carne viva. "Che penserà se non gli rispondi? Che non ti fidi abbastanza per dirglielo? Che sei un ingrato? E se... se decide di riprendersi i biscotti e di abbandonarti qui?" Puro panico lo travolse al mero pensiero. "No, non deve succedere. Lui è la tua unica speranza di non crepare in questa foresta. Piuttosto inventatene uno!"

Yaro si ingobbì per incontrare il suo sguardo basso e REskil seppe di non poter più evitare la domanda.

«Ah, mi chiamo—»

"Revi."

REskil sussultò, la colonna vertebrale invasa da schegge di ghiaccio. Avrebbe giurato che quello non era stato un suo pensiero, che quella voce nella sua mente non fosse della sua mente.

"Chi... chi è stato a parlare?"

Si guardò intorno in massima allerta, con i peli rizzati e lo stomaco attorcigliato; e le corde vocali finirono allo stesso modo quando, nel rigirarsi verso Yaro, vide la volpe che si affacciava impacciata da dietro di lui.

Saltò all'indietro e Yaro si sporse in avanti a circondargli una caviglia. Forse, più che di trattenerlo, il suo era stato un tentativo di rasserenarlo, ma quella possibilità nemmeno lo sfiorò finché non si era già liberato con un calcio.

«Wo ikki pan!» gridò, affondando la mano nel pelo della volpe. «Keras ya nen Hyuran! Xed henné-vi jo canà, xed ya sanan

«Ah-ah...» mugolò lei, in tono mesto e risentito.

Era tutta gobba, con la testolina a livello del suolo e gli occhietti semichiusi. Preso coraggio, mosse un passo in avanti e REskil trasalì ancora, in automatico.

«Ya ikki da» insistette Yaro, che la accarezzava.

"Sì, se non le gira di controllarmi, è un vero amore!" REskil strinse i denti, dibattuto. "Ma la volpe è sua. Magari non ti porta con lui, se non sei gentile con lei... E tu hai bisogno di lui, a qualunque costo."

«Va bene» si arrese, controvoglia, e le offrì le nocche.

La volpe le leccò con garbo, tenendo d'occhio le sue reazioni, e zampettò a strusciarglisi contro la maglietta soltanto quando REskil finalmente si rilassò.

"Ma perché gli animali più pericolosi devono essere anche i più carini?"

«Keras» disse Yaro.

«Hm? La volpe?»

«Ha. Keras» confermò, grattandole il petto.

«Ciao, Keras» sospirò REskil, unendosi a lui. «Ti prego, non fare scherzi al mio cervello. È già messo male.»

Keras non parve molto interessata alle sue parole, non mentre veniva ricoperta di attenzioni e carezze. In particolare, quelle di REskil generavano più moine e versetti, a prescindere dall'impegno che ci metteva; il che lo spinse a chiedersi se quella recita non fosse costruita appositamente per rammentargli quanto dolce e innocua potesse essere.

Perché se era quello l'intento, stava funzionando.

"Stupida, morbida, coccolosa, volpe aliena" brontolò, strizzandole le guance. "Lo so già che non riuscirò a restare incazzato con te quando mi trascinerai di nuovo nella merda."

«A proposito, dov'è che te l'eri filata prima, eh? A spassartela con un'altra volpe?» l'accusò, puntandole l'indice contro; gli fu masticato. «Guarda che il tuo padrone, qui, mi ha quasi trasformato in uno spiedino. Se non mi hai ritrovato morto, è stato puro culo. Gran bell'aiuto che sei stata.»

REskil udì Yaro sghignazzare in sottofondo e si raggomitolò, improvvisamente più che conscio di essere osservato.

«Xed paeval kurai ya hene jo Hyural?» domandò, additando prima il proprio occhio e poi quello viola di Keras. «Qilai—»

«Yaro?»

Un ragazzo sui vent'anni aveva attraversato lo stesso varco tra i cespugli ad altezza uomo da cui era sbucato lui e stentava a metabolizzare la scena. Assomigliava a Yaro in modo impressionante e a differenziarli in maniera significativa c'erano soltanto l'altezza e la stazza, ben più imponenti nel suo caso.

Lo seguirono altri tre tra ragazzi e ragazze, tutti con lo stesso mantello bianco e oro di Yaro e gli stessi bastoni cromati, sebbene di varia misura, che nascondevano chissà che arma... a cui stavano avvicinando le dita con pessima nonchalance.

REskil soppesò Yaro, le cui parole di rassicurazione e chiarimento non suonavano forti alle orecchie dei suoi compagni quanto i cenni d'intesa che si stavano scambiando, e scattò prima che il cambio d'atmosfera sublimasse: spinse via Keras, scagliò la lancia nella vegetazione e tirò Yaro indietro per i capelli. Lo sbatté a terra e gli si sedette a cavalcioni sullo stomaco per immobilizzarlo; gli accostò subito il pugnale alla gola, all'angolazione perfetta per potergliela squarciare con non più di un fremito del polso.

«Un passo e lui muore» sibilò.

Malgrado la barriera linguistica, la squadra di Yaro colse il concetto alla perfezione e si arrestò prima ancora che il ragazzo in testa al gruppo – il comandante, a giudicare dal mantello più lungo e decorato – levasse un pugno.

"Merda! Merda! Sono troppi!" soffiò, scandagliando le vicinanze. "E non li ho sentiti arrivare!"

Era in trappola: alle sue spalle c'era lo strapiombo sotto al quale si era svegliato, troppo ripido e irregolare da scalare per fuggire; sulla destra e sulla sinistra aveva un'intricata trama di radici, liane cadenti e arbusti, impossibili da tagliare in fretta, a ostacolarlo. Di fronte, doveva fare i conti con l'intera squadra di soldati.

Erano in quattro. Cinque, se si includeva Yaro. E sei, se si contava pure Keras.

"Keras" si ricordò REskil.

Era al suo fianco, a sbattere le ali, scalciare nervosamente e ululargli contro.

"No! Non la guardare!" si riprese. "Magari basta quello per diventare la sua bambola!"

Keras gannì disperata e gli schiantò la testa nel costato, finendo a rivoltare le zolle d'erba per la forza con cui tentava di spingerlo via da Yaro.

REskil fu costretto a reggersi o ci sarebbe riuscita. «Piantala o finisce che lo ammazzo per sbaglio!»

«Ronnalar wōs nilam gem!» ringhiò il comandante e non servì che una scrollata perché il suo bastone cromato divenisse una spada.

«Se fai un altro...»

«Ah! Ah!» gagnolò Keras e corse davanti a REskil ad ali spiegate, inchiodando quel ragazzo sul posto con un solo sguardo.

«Keras!» la riprese lui, che sbraitava e gemeva nel lottare con tutto sé stesso per sfuggirle.

"Perché, perché non l'ha fatto con me?" si domandò REskil. "Perché è ancora dalla mia parte?!"

Gli altri soldati non parvero risentire dell'effetto dei suoi strani poteri – forse erano immuni o forse il limite di Keras era una singola persona – e sfoderarono anch'essi una pletora di armi; non c'era nessun fucile in vista, ma era una magra consolazione. La situazione era ancora terribilmente in sfavore per REskil.

"Che faccio? Che faccio? Lo stallo non durerà per sempre!"

«State—»

«Balaran feyai, ikki!» lo anticipò Yaro, con una fermezza tale da impietrire i suoi compagni.

REskil raccolse il coraggio di affrontarlo soltanto allora. Yaro lo fissava dritto negli occhi con un sangue freddo e una compostezza strabilianti, a malapena traditi dalla rapidità del proprio respiro; aveva serrato la mano – quella che REskil non stava bloccando a terra – attorno al suo polso, ma non aveva ancora provato a ribellarsi.

«Per favore, non farlo» lo implorò. «Non voglio farti male, ma...»

Ma REskil aveva frainteso. Yaro non voleva allontanarsi il pugnale dalla gola: voleva stabilizzarlo. Perché REskil, tremando, lo aveva già graffiato oltre la pelle.

«Ya... ya ikki da» gli sussurrò e sorrise.

Era un sorriso più sghembo e traballante degli altri che gli aveva rivolto, ma conservava ancora il medesimo calore che aveva dissipato qualunque diffidenza o paura gli fossero rimaste persino dopo tutta la gentilezza mostratagli... e che adesso stava infiammando i suoi sensi di colpa.

"Ti dispiace! Diglielo che ti dispiace! Che non avevi scelta!"

«Yaro... io...»

«Jialaran nei sanni.»

REskil si affannò a interpretare quella frase, ma dagli schiamazzi di protesta che si levarono all'unisono dai soldati capì che non era a lui che era diretta.

Il comandante sbuffò oltraggiato. «Xed yeni crian—»

«Derval! Hener jiāl nei sanni alet crian henné-li canà!»

Il comandante puntò REskil e indurì la mascella, stringendo l'elsa della sua spada con talmente tanta forza che il metallo cigolò.

"Qualunque cosa gli ha detto di fare o di, di non fare, non lo ascolterà. Attaccherà comunque" si avvertì REskil. "E tu devi essere pronto a scappare più veloce che puoi... e ad accoltellare Yaro. Si fermeranno ad aiutarlo se lo accoltelli. Guadagnerai tempo. Solo, mira lontano dagli organi—"

«Jialaran nei sanni!» latrò il comandante.

REskil trasalì. Non era ancora pronto ad attuare il suo piano, ma non parve più necessario: i soldati non lo caricarono, gettarono le armi a terra di malavoglia e alzarono le mani.

«Yoso?» bisbigliò Yaro, più sicuro. «Ya ikki da. Crian henné-vi jo canà. Vi'ri gearos.»

Yaro iniziò a spingergli il polso con cautela e delicatezza, stavolta con la piena intenzione di liberarsi. E se dapprima REskil lo stava assecondando, non senza grande difficoltà e le urla della sua coscienza a scoraggiarlo, poi compì l'errore – o ebbe la fortuna – di vagliare la squadra un'ultima volta.

Non solo la loro facciata di neutralità si stava sgretolando tanto più spazio Yaro metteva tra di sé e il pugnale, ma l'unica ragazza aveva ritirato le braccia sotto al mantello e stava chiaramente sgomitando per sfoderare una seconda arma. Se fosse stata da tiro, se fosse stata anche solo un misero pugnale da lancio, per REskil sarebbe finita l'istante stesso in cui Yaro non fosse stato più in pericolo.

"No..."

«Non posso, mi dispiace» gracidò, riportando giù il pugnale. La sua voce era una moltitudine di cocci tenuti assieme col nastro adesivo. «Mi dispiace... ma tu devi venire con me adesso. E loro devono restare qua!» urlò alla squadra. «Ma, ma, ma ti lascerò andare! Te lo giuro sulla mia vita! Appena saremo lontani, t-tu potrai tornare da loro e non dovrai rivedermi mai più! Sì? Mi capisci?»

Yaro lo contemplava attento, trascinando di continuo gli occhi sulle sue labbra come se sperasse di leggervi la traduzione di ciò che stava dicendo.

"Come cazzo glielo spiego?!"

REskil ringhiò frustrato e gesticolò verso la foresta. «Ti porterò—»

Non si accorse di aver mollato l'avambraccio di Yaro finché le sue dita non gli scattarono attorno al collo come una tagliola. L'istinto che prevalse fu quello di ritrarsi, il che fu la reazione peggiore che avrebbe potuto avere, perché diede a Yaro l'occasione di distanziarsi una volta per tutte il pugnale dalla gola; e a quel punto, essendo più forte, grande e pesante, nulla gli impedì di sopraffarlo e ribaltare le posizioni.

REskil fu scaraventato indietro e atterrò sulla schiena, stordito e senza fiato, ma ancora aggrappato al fido pugnale.

Problema che Yaro non perse tempo a risolvere: gli stritolò il polso finché ossa e nervi non scricchiolarono. E nel constatare che REskil se lo sarebbe fatto rompere prima di cedere, lo schiantò sul prato più e più volte, e infine lo disarmò.

"No... riprendilo!"

REskil tastò frenetico l'erba, ma Yaro fu più lesto e abbastanza prudente da spostarlo in fretta fuori dalla sua portata perché neppure sbracciandosi riuscisse a raggiungerlo. Quindi lo ruotò: impugnandolo al contrario, sarebbe stato molto più facile menare pugnalate mentre incombeva su di lui.

«No! Ti prego! Mi dispiace!» si sgolò REskil. «Ti scongiuro! Non avevo scelta! Non sapevo che altro fare! Non volevo farti male! Non te l'avrei mai fatto! Te lo giuro!»

REskil singhiozzò e si rannicchiò per proteggersi il più possibile, conscio che quelle suppliche isteriche non l'avrebbero salvato, e aspettò che il freddo della lama e il caldo del suo sangue si scambiassero a fior di pelle.

E attese.

E attese ancora.

E quando sentì arretrare il palmo di Yaro, che in fondo non lo stava proprio soffocando, si azzardò ad affacciarsi oltre il groviglio di arti che aveva usato come scudo.

Yaro era a gambe incrociate lì accanto, con la punta del pugnale stretta tra pollice e indice e il manico che penzolava verso di lui, pronto per essere restituito.

REskil si mosse al rallentatore e si sedette a sua volta, incapace di pensare figurarsi di parlare, e fece per afferrarlo.

Yaro non glielo permise subito, prima lo alzò in verticale e gli scoccò un'occhiataccia d'avvertimento, con tanto di sopracciglio incurvato, che pareva dire: «Te lo rido solo se prometti di fare il bravo»; quasi REskil non fosse un soldato che aveva tentato di prenderlo in ostaggio, ma un bimbo dispettoso a cui toccava riguadagnarsi l'accesso al suo giocattolo preferito.

«V-va bene... Non sarò più così stupido da usarlo contro di te. Scusa.»

«Hm, pan» mugugnò soddisfatto e glielo riconsegnò.

Purtroppo, REskil era ancora abbastanza stupido da usarlo contro la squadra di Yaro, che li aveva circondati nel frattempo. E lo batteva quattro a uno in quanto ad armi.

Yaro tuttavia agguantò sia il pugnale di REskil sia la spada del comandante prima che si sfiorassero, abbassandoli a forza e ammazzando sul nascere quello scontro.

E poi iniziò a cantarle a entrambi, indiscriminatamente.

Se il comandante gli rispose per le rime e lo rimise al suo posto come solo un fratello maggiore avrebbe saputo fare, REskil lo ascoltò a fatica e si limitò a mormorare qualche scusa.

Insieme all'adrenalina, stavano scomparendo anche le poche energie che gli erano rimaste. REskil faticava a tenersi dritto, il suo tremolio era peggiorato nonostante, per assurdo, oltre al freddo nelle ossa ora sentisse un tremendo caldo serpeggiargli sotto la pelle, e la testa gli si svitava un po' di più dal corpo ogni minuto che passava.

Fu il tocco di Keras, che si acciambellò sulle sue cosce, a riportarlo al presente.

«Ehi, bella» biascicò, carezzandola. «Alla fine me l'hai data sul serio una mano... Grazie.»

REskil distinse uno strano silenzio attorno a sé e si rese conto che lo stavano fissando tutti, chi con apprensione, chi con sospetto e chi con pietà. Provò ad abbassare lo sguardo e per poco una vertigine non lo abbatté.

Yaro lo resse e gli passò un fazzoletto sul viso per pulirlo dal paio di lacrime sfuggite e dal sangue, soffermandosi sullo squarcio che gli aveva aperto in fronte per errore, che ancora ne perdeva.

REskil inspirò per il dolore con un ritardo preoccupante.

Uno dei soldati, con la carnagione ambrata e dei penetranti occhi castani dal taglio allungato, si tolse lo zaino di dosso e stette per inginocchiarsi davanti a lui, ma il comandante lo trattenne.

Si piegò sulle gambe e squadrò REskil da capo a piedi come fosse uno di quei vecchi quadri fatti di schizzi il cui significato non era subito chiaro. A quella distanza, la somiglianza con Yaro era lampante ma non più così impressionante, e si iniziavano a notare sfumature diverse. Come i capelli, acconcianti in una crocchia, che viravano verso il biondo miele e non il cenere; come gli occhi, più celesti che azzurri; come la linea della mascella, più dolce e coperta da un'ombra di barba assente in Yaro; e una manciata di altri piccoli dettagli che sfuggivano se non si prestava loro la dovuta attenzione.

«Kur ya tilam?» gracchiò, in un quesito per Yaro, non per REskil.

Yaro esitò e REskil ne approfittò per rispondere finalmente alla sua domanda.

«Revi» si presentò.

Era Revi il suo nome. Non ricordava se a darglielo fossero stati i suoi genitori biologici, quelli affidatari, il responsabile di un orfanotrofio o se, magari, se lo fosse scelto da solo.

Ma sapeva di casa. Sapeva di lui. E tanto gli bastava.

«Revi?» ripeté Yaro, solo che invece di pronunciare la "r" vibrata come aveva fatto lui, la abbozzò con difficoltà.

«Revi» confermò.

Il comandante storse le labbra e il naso, due dei tratti somatici che condivideva in pieno con Yaro, e sembrò sul punto di punzecchiarlo perché sputasse qualche informazione in più. L'istante successivo, tuttavia, sospirò e gli diede un'amichevole pacca al ginocchio.

«Derval» borbottò, e lo sollevò di peso.

Revi intuì che quello dovesse essere il suo nome – e processò di star venendo trasportato come un sacco – soltanto quando Derval era già a metà strada verso una piccola alcova tra le radici giganti di un albero vicino, con la squadra e Keras al seguito.

Si girò per ordinare qualcosa all'unica ragazza, alta, robusta e dalla lunghissima treccia rossa, che annuì e filò tra la vegetazione; e poi lo fece di nuovo per mandare indietro da dov'erano arrivati il ragazzo più giovane e minuto, che potrebbe o potrebbe non aver avuto lo smalto sulle unghie e una coroncina di fiori in testa – a Revi non era molto chiaro cosa fosse vero e cosa fosse partorito dalla stanchezza e dal malessere che crescevano dentro di lui.

Fatto sta che quelle mezze giravolte in un senso e nell'altro peggiorarono la sua nausea e Revi seppe che non avrebbe resistito fino all'alcova. Picchiettò con foga la schiena di Derval per farsi mettere giù e lui lo accontentò appena in tempo per non ritrovarsi il mantello tinto di vomito.

"No... i biscotti..."

«Kae!» chiamò, e l'ultimo soldato rimasto con loro gettò in avanti lo zaino, dal quale scivolarono rotoli di bende e medicinali vari, per aiutarlo a trasportare Revi.

«Vah, ammi» gli sussurrò, dopo averlo sistemato contro l'albero. «Yali Kae, yali nem Iraim.»

Kae gli alzò il mento e gli dondolò una collana luminosa davanti agli occhi, studiandolo con attenzione. A Revi non servì leggere tra le righe della smorfia diretta a Yaro e Derval, che avesse un trauma cranico era una cosa certa per lui fin da quando si era svegliato.

Una febbre così alta da scottare la mano di Kae non se l'aspettava, invece, ma almeno spiegò perché si sentisse uno schifo.

«Wossé ikki pan, ammi» lo rassicurò, armeggiando con forbici e nastro. «Feyam.»

Yaro gli adagiò il proprio mantello – sotto cui subito s'infilò Keras – sulle spalle, che strusciò con dolcezza. Revi se lo tirò fin sopra il naso in cerca delle zone già calde; aveva un buon odore, ma di cosa esattamente non ne aveva idea.

«Grazie... Yaro» concluse titubante, distratto dalle gocce di sangue viola che dal taglietto sul collo gli stavano strisciando lente verso le clavicole.

"Oh, merda... è un alieno... Sono tutti alieni" realizzò, nel notare finalmente le vene lilla sui dorsi delle mani e i capillari oculari del colore sbagliato. "No, pure peggio, sono meticci."

Revi si augurò che fossero del tipo in cui il genitore umano aveva costruito una bella famigliola felice; e non di quello in cui si era fatto strada a colpi di proiettile razziando, schiavizzando e stuprando. Certo, un brigadiere dell'Unitariato come lui sarebbe stato odiato a morte in qualunque caso, ma perlomeno nel primo avrebbe potuto appellarsi al fatto che non tutti quelli della sua specie si meritassero un'esecuzione immediata.

"Nessuno ha visto il mio tatuaggio, vero?" si chiese, curandosi di nascondere l'intera mano nella manica del giaccone.

Derval, che stava recuperando del disinfettante dallo zaino proprio vicino a lui, dalla faccia che fece la sua agitazione l'aveva colta. Sul momento, però, non le diede peso. Tornò in fretta a dedicarsi a Yaro, sgridandolo e medicandolo in egual misura.

«Ah...» si lamentò Revi.

«Suné» replicò Kae e continuò comunque a premergli un pezzetto di garza sulla fronte spaccata.

Revi inquadrò Yaro senza volerlo. Aveva un sorrisetto dolorante e colpevole stampato sulle labbra che sembrava essere stato confezionato a posta per lui, come un pacchetto di scuse. Revi lo imitò e chiuse la questione con una scrollata di spalle; per quanto lo riguardava, adesso erano pari.

Non passò molto prima che la ragazza – che non si degnò di parlare né presentarsi – ritornasse dalla vegetazione con la lancia di Yaro tra le mani e Kae finisse di occuparsi di Revi, perciò non restò che la questione di cosa fare con lui da affrontare.

Con sua grande sorpresa, fu una conversazione molto breve: una singola domanda – probabilmente retorica – posta da Derval, dopo cui sfilarono una serie di assensi.

"Oh, wow... cos'è, sono il centesimo stronzo che raccattano dalla foresta?"

Kae si alzò in piedi e si batté i pantaloni per pulirli. «Coha, ammi, wosoi...» Si interruppe e indicò il polso che Revi si stava strozzando. «Yaro henne-vi canà

«Ze» s'intromise Yaro. «Yaev jo jaré—»

«No, no! Sto alla grande!» lo sovrastò. «Era l'altro, niente di cui preoccuparsi!»

«Hener'ni yōs» s'impuntò Kae, accovacciandosi.

«Ho detto che sto bene!»

Kae si accigliò. «Revi—»

«Ronnalar'rim bāl» lo richiamò Derval, toccandogli la schiena. Tese il braccio verso Revi e mosse la testa di lato per esortarlo a incamminarsi con loro.

Revi sospirò sollevato. «Grazie.»

Kae obbedì di malavoglia, tendendo a sua volta il braccio. Revi li accettò entrambi e si fece issare, perché da solo non ne avrebbe avuto la forza.

«Non mi piace ammetterlo, ma non sono proprio in forma, perciò non è che avete un fuoristrada o...»

Revi guardò Derval e gli si gelò il sangue. Aveva una mano ancora stretta alla sua, ma l'altra sostava poco più sopra, attorno all'incavo del gomito... perché nel tirarlo su gli aveva scorciato la manica.

Il tempo sembrò pietrificarsi per una vita intera... e poi franò.

Revi lo spintonò e si schiacciò il polso al petto. «Posso spie—»

Un attimo prima Revi era in piedi, davanti a Derval. Quello dopo era a terra, con il suo stivale che gli incrinava le costole e il filo della spada a scorticargli il collo.

«Kura... Kurai... Kuram...?» farfugliò, con un'espressione di terrore, sconcerto e pura confusione che gli si avvicendava indecisa sul viso come quelle domande facevano sulla sua lingua.

«Sì, sono un brigadiere!» confessò, perché mentire dinanzi all'evidenza non avrebbe fatto altro che scavargli la fossa. «Ma non è così semplice, io... nemmeno mi ricordo di... stamattina mi sono svegliato qui, solo e... Sono della Terza Divisione, per Dio!»

Revi lo urlò a pieni polmoni e mostrò loro il tatuaggio come prova. Li studiò uno per uno alla disperata ricerca di qualche traccia di compassione, di comprensione.

Non ne trovò.

Con l'eccezione di Kae, che aveva preso in braccio Keras per coprirle gli occhi e forse impedirle di aiutarlo ancora, erano tutti – Yaro compreso – con le armi spianate verso di lui, pronti a trafiggerlo alla prima mossa sbagliata.

E Revi capì che qualunque cosa avesse detto o fatto, non avrebbe mai pesato quanto il simbolo dell'Unitariato che gli segnava la pelle.

"Ti uccideranno" pensò. "E se non ti uccidono qua, ti catturano, ti torturano e alla fine ti uccidono comunque. Devi andartene. Devi andartene ora."

Revi fece schizzare la mano verso il suo pugnale, ma Derval gli affondò la spada nella spalla per bloccarlo e Yaro ne approfittò per sottrarglielo.

«Ah! No!» gli gridò dietro, mentre lui lo gettava nello zaino di Kae e ne estraeva delle bende per farne delle catene improvvisate.

"Se ti legano è finita, fa' qualcosa! Qualunque cosa!"

Revi artigliò lo stivale di Derval, lo spinse, scosse la sua caviglia, scalciò, si dimenò; fece tutto ciò gli venne in mente pur di sottrarsi a quel peso asfissiante e avere un attimo per rifiatare. Ma nulla funzionò e, da quell'agitarsi disperato, Revi non ricavò che un bagno di terra e una serie di graffi alla schiena, causati da una roccia sepolta che ne specchiava i movimenti.

"Oh! Aspetta, quella! Sì, funzionerà!"

Fingendosi esausto, Revi attese che Yaro si riavvicinasse, che fungesse da distrazione e diventasse il centro dell'attenzione, anche solo per un istante. E appena accadde, riesumò la roccia e la infranse contro il ginocchio di Derval.

«Dera!»

Nel frattempo che Derval strillava e si accasciava, Yaro lasciò perdere le bende per soccorrerlo, e Revi si rigirò, provando a filarsela.

La ragazza lo frenò strattonandolo all'indietro per il mantello e lo riportò nelle sue grinfie. Revi le sferrò una testata sfruttando lo slancio e se lo sciolse, crollando al suolo. Si rialzò più in fretta che poté e fece a malapena in tempo a compiere qualche passo prima di essere placcato.

Rotolò sull'erba insieme alla ragazza finché lei non la spuntò e gli bloccò la vita tra le cosce, caricandogli addosso tutto il suo peso. Levò la sua lancia – dalla lama a mezzaluna sia a un capo sia all'altro dell'asta – e stette per menargli un fendente che, se anche non lo avesse decapitato, l'avrebbe comunque sgozzato, ma Revi le assestò un pugno alla gola prima che ne avesse l'occasione.

E approfittando della tosse sorda e incontrollata che le aveva provocato, le strappò dalla cintura i pugnali da lancio. Gliene piantò uno nella gamba e uno nella spalla, li rivoltò e li spinse a fondo, dandosi la spinta per sgusciare via.

E quindi corse.

Corse come non aveva mai fatto in vita sua, dritto verso il varco tra i cespugli e la salvezza che si celava al di là. E non si voltò per nulla al mondo. Né per le imprecazioni della ragazza, né per il richiamo di Yaro, né per i guaiti di Keras.

Avrebbe dovuto.

Perché così avrebbe visto Keras che si sprigionava dalle braccia di Kae con un morso e lo inseguiva. E le avrebbe detto di rimanere dov'era, risparmiandole quel destino.

Perché così avrebbe visto arrivare la lancia di Yaro, scagliata come un giavellotto dalla ragazza, la cui traiettoria designava proprio lui come bersaglio. E si sarebbe gettato a terra.

Ma non lo fece.

Perciò la lancia trapassò prima Keras e poi lui, come fossero un'unica cosa.

E come un'unica cosa, caddero.

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Foto: Yaro, il soldato.

La prima parte del secondo capitolo verrà pubblicata domenica 3 marzo (perdonate il ritardo >.<), sempre nel primo pomeriggio. Nel frattempo, godetevi il meme di fine capitolo e non accettate biscotti dagli sconosciuti, che non tutti sono gentili come Yaro. Alla prossima! ^-^

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