Capitolo 1 - Il ragazzo nella foresta (Parte Prima)

Quando REskil riprese conoscenza, il suo corpo stava gelando e il suo cervello bruciando. Il che era qualcosa di molto in linea con tutte le versioni violente e punitive dell'aldilà di cui gli avevano riempito la testa da bambino.

C'erano però due grossi problemi: quell'aldilà era sospettosamente simile alla foresta in cui era morto; e il numero di battiti che il suo cuore aveva compiuto, in quei pochi momenti, era già fin troppo oltre lo zero perché lui fosse effettivamente morto.

Perciò, magari, non c'erano davvero dei problemi.

Se non si contava il fatto che REskil era comunque ancora perso, sanguinante, affamatissimo e moribondo nel bel mezzo del nulla. E di nuovo solo.

REskil, infatti, metabolizzò soltanto dopo un po' la sensazione di freddo e leggerezza lì dove la volpe avrebbe dovuto essere accucciata. Si toccò intontito la maglietta per cercarla, anche se i suoi occhi potevano vedere con chiarezza che di lei non erano rimasti che alcuni ciuffetti di pelo dorato.

Vi sostò con la mano più del necessario, poi se la spostò sul polso e sulla giugulare per avere la prova definitiva di non essere morto. Fu... illogico sentire le sue pulsazioni, sbagliato.

"Non capisco" abbozzò, perché erano le uniche parole di senso compiuto che riuscì a prelevare dal caos nella sua mente. "Dovrei essere morto. Io stavo morendo. Mi... mi sono lasciato andare, non respiravo... Dovrei essere morto."

REskil si guardò intorno come se qualcuno tra gli alberi, i fiori e gli animaletti che vi zampettavano avesse la spiegazione che a lui sfuggiva. A giudicare dalla posizione delle ombre – e a quella del sole di quel pianeta – non sembrava nemmeno essere passato tanto tempo. Una decina di minuti, al massimo.

"Sono davvero svenuto e basta? E solo per qualche minuto scarso?" Si morse l'interno della guancia fino ad assaporare il sangue e neppure se ne accorse. "No, non può essere. Io stavo morendo, so che stavo—"

Una voce. Una voce maschile, arrochita dallo sforzo, s'intrecciò al frusciare delle foglie, al soffio del vento e al chiacchiericcio degli animali. Era talmente fuori posto e distante, che all'inizio REskil fu certo di essersela immaginata.

S'immobilizzò, addirittura trattenne il fiato come se stesse prendendo la mira, e passò in rassegna tutti i suoni della foresta per districarli e ritrovarla.

Sussultò quando accadde e, d'istinto, scattò silenzioso tra il massiccio groviglio di radici dell'albero al di là del vicino dislivello, che offriva una visuale e una copertura migliori. Si accucciò nel mezzo, per massimizzare il suo mimetismo, e fissò in allerta attesa l'orizzonte vegetale a misura d'uomo che isolava la radura.

Stava ansando, ma si rese conto che non era più per la stanchezza. Era ormai piegato sulle gambe da almeno una trentina di secondi, in una posizione tutt'altro che comoda e facile da mantenere, e aveva corso e saltato senza problemi nonostante, fino a poco prima, avesse stentato persino a camminare.

"Perché sto... meglio? Cos'è cambiato?"

Un tintinnio metallico, in sottofondo alla voce ora meno flebile, lo distrasse da quei dubbi, che convenne di ripescare soltanto una volta al sicuro. Aveva una bizzarra tonalità, acuta e fioca; avrebbe potuto scaturire tanto dalla borraccia di un ricognitore che dondolava da uno zaino quanto dal corpo di un fucile che sbatteva contro l'imbracatura di un soldato d'assalto.

Tra le due, fu la seconda possibilità che REskil temette di più.

"E se sono un disertore? E se è questo il motivo per cui mi sono cacciato in questa foresta?" Si pizzicò il naso per quell'assurdità. "A quest'ora ti avevano già fatto saltare via la testa con il chip, genio! Sarà un nativo, nel migliore dei casi. Col cazzo che questo buco infernale è una Colonia. Di sicuro è un Pianeta Selvaggio su cui ti avevano mandato in esplorazione... e che con tutta probabilità ha sterminato la tua intera Brigata. Ma questo non è il momento di pensarci!"

REskil sperò – senza crederci troppo, viste le circostanze e la sua tipica fortuna – che qualunque alieno stesse per giungere nella radura non sarebbe stato troppo difficile da abbattere: non aveva che un pugnale addosso.

La sua voce, chiara, calda e gioviale, faceva presagire bene.

REskil s'incantò ad ascoltarla senza volerlo. La lingua che stava parlando, con la sua musicalità, la sua pacata armonia e il suo ritmo cadenzato, stava avendo un effetto insolito su di lui.

Non l'aveva mai sentita prima e non ne capiva una parola, eppure gli scivolò sotto la pelle, fin dentro le vene, dove scorse con la stessa naturalezza e spettanza del suo sangue.

"... Forse invece la conosco? Forse questa lingua è umana?"

Il ragazzo che finalmente sbucò da un varco tra i cespugli di sicuro lo sembrava. Era sudato, quella fu la prima cosa che REskil notò. Il che lo sorprese, perché lui stava tremando da quando si era svegliato quella mattina. Non concepì fino ad allora che quella stessa giornata, per qualcuno che aveva dei vestiti integri – in cui il vento non irrompeva di continuo – potesse risultare tiepida. Anzi, con quei pantaloni di cuoio, la camicia a maniche lunghe e lo spesso mantello a mezza coscia quella giornata per lui doveva essere addirittura torrida.

La seconda cosa che REskil notò fu che era corazzato con parabracci, parastinchi e una sorta di caschetto di metallo, che per metà era cucito nel cappuccio e per l'altra metà strabordava per potergli riparare la faccia; cose che non erano tra gli equipaggiamenti a cui era abituato, ma che nemmeno lo sconvolsero, perché aveva il vago ricordo di essersi scontrato con contadini riparati dietro pentole e lamiere per le staccionate, da piccolo.

E che era pure armato. Non risaltavano foderi o angoli spigolosi dalla sua uniforme, ma aveva un bastone cromato appeso al fianco, troppo corto per essere un normale manganello.

"Ha un tappo... quindi è davvero tipo una borraccia? Era questa che faceva quel rumore? Non... non concentrarti su roba inutile!" si riprese. "Ce l'avrà qualche arma vera addosso, cerca meglio!"

La terza e ultima cosa che REskil notò fu... beh, il ragazzo. Era alto, circa qualche centimetro sotto il metro e ottanta, e piuttosto gracile per essere un soldato – malgrado non rientrasse nella descrizione al cento per cento, REskil non avrebbe saputo definirlo in altro modo. La patina di sudore che lo ricopriva faceva sembrare il suo incarnato, oltre che più diafano di quanto già non fosse, anche traslucido, quasi non fosse un ragazzo qualunque ma uno spirito dei boschi uscito direttamente da una fiaba.

Il fatto che avesse dei capelli biondo cenere increspati ad arte dall'umidità, che cascavano spettinati sulle tempie e si arricciavano sul collo, e un viso dolce e amichevole che irradiava allegria di certo non aiutavano a dissimulare quell'aura fatata.

REskil distolse lo sguardo. All'improvviso non si sentiva più un soldato impegnato in una missione di sopravvivenza, ma uno strambo pervertito – di quelli nudi nei vicoli bui – che spiava un bel ragazzo durante la sua passeggiata quotidiana.

«Ah-ah-ah?»

REskil rialzò la testa di scatto per quel versetto familiare e individuò la volpe nel punto esatto in cui lei l'aveva lasciato. Si guardava attorno spaesata, girando su sé stessa e chiamandolo a gran voce.

Il ragazzo la osservava confuso ma perlopiù intenerito. Di tanto in tanto, spostava i sassi con i tacchi dei robusti stivali al ginocchio e sbirciava senza impegno nei tronchi marcescenti per partecipare al suo gioco.

"Dovrei uscire allo scoperto?" si domandò REskil.

Si fidava della volpe... non abbastanza da scommetterci la vita, però. Soprattutto perché piacere a lei, non equivaleva piacere al suo padrone. Il suo padrone con un'armatura e una minacciosa borraccia-manganello che avrebbe comunque fatto un gran male, se fosse stata brandita; nello stato in cui versava REskil, gli avrebbe indubbiamente e facilmente spaccato le ossa.

"No, è troppo rischioso. E io sono troppo debole per cavarmela a pugni, se le cose si fanno violente. Li seguirò di soppiatto finché..."

REskil avrebbe saputo indicare il millisecondo preciso in cui il cervello gli era collassato e si era riavviato nel vedere il ragazzo recuperare un biscotto da una saccoccia sul retro della cintura. Sembrò sul serio un pervertito mentre fissava a occhi sgranati i suoi denti che lo spezzavano, le sue labbra sottili ma larghe che si cospargevano di briciole e infine la sua lingua che le lambiva per pulirle, come un'onda avrebbe fatto con una spiaggia.

"E se invece esco allo scoperto? Magari se mi presento con le mani in alto e gli chiedo molto gentilmente di non ammazzarmi, non lo farà" patteggiò, addentando le proprie, di labbra. "E a quel punto posso convincerlo a scambiare uno dei suoi biscotti... O posso rubarglieli... O posso—"

Nel frattempo che REskil elencava tutti gli scenari possibili per quella scelta, il suo stomaco la compì. Brontolò sonoramente, in un muggito basso e distorto che non era forte come quello della bestia-cespuglio, ma che infranse il silenzio allo stesso modo.

"Merda!"

REskil si rannicchiò per attutirlo e si spiaccicò contro la più grande delle radici del mucchio in cui era rifugiato, invano. Perché il danno era fatto.

«Kur wo nat?» mormorò il soldato, sfiorando la borraccia-manganello. La sua voce si era affievolita e riempita di incertezza; più che un falò estivo, ora pareva una favilla persa nel vento.

REskil lo specchiò, precipitandosi però sul pugnale. Palesarsi con una mano dietro la schiena era il modo più veloce di meritarsi una manganellata, ne era ben consapevole; allo stesso tempo, dubitava che senza la sensazione del cuoio consumato sui polpastrelli avrebbe avuto il coraggio di palesarsi in primo luogo.

"Ah, 'fanculo! Ormai è andata! Quello che succede, succede!"

«Adesso esco, va bene? Per favore, non—»

«Keras!»

REskil trasalì e rimbalzò come una molla quando una zampata gli calò sulla nuca, inaspettata e impietosa quanto un giudizio divino. Finì sdraiato su un fianco, fuori dal groviglio di radici, guardato dall'alto in basso dalla volpe che vi si era arrampicata. Questa sbatté rapidamente le ali e rilasciò una serie di versi concitati che avevano tutta l'aria di essere una sgridata.

«Mi dispiace» balbettò REskil di getto.

«Keras, balar... balar... ugh!»

REskil contemplò perplesso il soldato. Aveva impugnato la borraccia-manganello con entrambe le mani, come fosse sul punto di allontanarsela dal fianco per puntarla contro di lui... solo che non ci riusciva. Non c'era stata che una misera cordicella ad ancorargliela al passante dei pantaloni; una cordicella con un apposito gancio per aprirla che di sicuro non gli era d'ostacolo, visto che ballonzolava libera e sciolta accanto al passante.

Eppure, lui provava a muoversi, ma era sempre bloccato nella stessa posizione di partenza.

Sperduto tra i propri pensieri, REskil non si rese conto del calore o dell'inspiegabile luce che gli stavano investendo la faccia. Ma si accorse eccome del velo viola che stava appannando gli occhi azzurri del soldato. Quando questi squadrarono contrariati la volpe, li seguì e per poco non urlò.

Lingue di fiamme viola le sfrecciavano sul pelo e si dissolvevano prima di raggiungere la coda o le radici su cui posava le zampe, come meteore nell'atmosfera. Sfociavano dai suoi, di occhi, che brillavano così intensamente da non poterli reggere per più di qualche secondo.

"Ma che cazzo è questa volpe?!"

REskil indietreggiò a colpi di calci nervosi, temendo di diventare cieco o di ustionarsi o di attirarsi le sue ire ed essere manovrato al pari di un burattino come il soldato. La volpe parve captare la sua paura: smise di fare qualunque cosa stesse facendo l'istante dopo che era sorta, e uggiolò desolata nel saltellare verso di lui.

«No!» le urlò, frenandola. «Stai, ah!»

REskil si ritrovò voltato dall'altro lato, con la vista sfocata e i timpani perforati da un fischio acutissimo. Per una frazione di secondo, fu convinto che fosse opera della volpe; poi un dolore palpitante esplose dalla sua fronte, del sangue gli insozzò un sopracciglio e un tonfo metallico sfociò in un rollio erboso.

Ma fu soltanto nel girarsi verso il soldato – disarmato e con la bocca coperta in un'ammissione di colpevolezza – che collegò i fatti. Appena la volpe aveva smesso di immobilizzarlo, la sua borraccia-manganello doveva aver preso il volo e aver quindi deciso che il posto migliore su cui atterrare fosse la testa di REskil. Come prova finale di quella versione, la trovò in mezzo ai fiori poco distante.

«Ma... ma che cazzo, amico?!» gli strillò; il taglio era già rigonfio e pulsante e inspirò bruscamente nel toccarlo.

La volpe planò ringhiante dal soldato e lui si difese con determinazione; e la cosa continuò per un bel pezzo, con quei due che, imperterriti, si scaricavano la colpa a vicenda rifiutandosi di tenersela.

Durante la lite, non proprio cosciente di ciò che accadeva attorno a lui, REskil tentò a più riprese di rimettersi in piedi, ma il suo senso dell'equilibrio era ancora abbastanza frastornato dalla botta, perché fraintendeva il su per il giù, e la destra per la sinistra, a ogni movimento.

Se fu capace di stare dritto in ginocchio per più di un attimo, fu solo merito del soldato che lo issò per il colletto della maglietta. Ma a giudicare dal pizzico affilato che gli puntellò il petto, la sua non doveva essere stata cortesia.

REskil abbassò lo sguardo e risolse il mistero della borraccia-manganello che, in fin dei conti, non era né una borraccia né un manganello: era una lancia dalla lama a forma di foglia con tanto di venature scanalate. Se non avesse notato il tappo che oscillava a metà dell'asta telescopica, avrebbe creduto che il soldato se la fosse fabbricata dal nulla.

Non sarebbe stata la cosa più strana successa quel giorno.

«Kur yal vi?» sibilò con lentezza, calcando la presa sia sulla maglietta che sulla lancia. «Alet kural Keras ba xatresh-vi?»

REskil deglutì visibilmente. Qualunque traccia dell'allegria e della gentilezza che avessero caratterizzato il bel faccino di quel ragazzo sembrava essere scomparsa tanto dalla sua espressione quanto dai suoi tratti. Il viso a diamante era di colpo più spigoloso, più affilato; le guance non erano più morbide né tonde né scure di gioia, bensì tese e ritte come scogliere a picco sull'oceano; il naso – delicato, a bottone – era increspato e arricciato, le narici gonfie di rabbia; e gli occhi azzurri, prima grandi e ridenti, erano tagliati e adombrati dalle palpebre, e il loro colore non gli ricordava più il cielo sereno, piuttosto gli abissi glaciali senza stelle a illuminarli, visti di sfuggita dagli oblò dei solcatori da guerra.

Non ebbe più alcun dubbio sul fatto che fosse un soldato.

«N-non ho cattive intenzioni, amico» dichiarò, mostrando le mani.

"Ma dove si è cacciata quella cazzo di volpe?!" pensò, gettando occhiate furtive e infruttuose ai dintorni. "L'unica volta che mi serve davvero, se ne va e mi lascia nella merda!"

«Se sono qui è solo perché... beh, non lo so perché sono qui, ma non è per creare problemi» proseguì. «Perciò non c'è bisogno di minacciarmi.»

«... Kura?»

«Sto dicendo... Senti, amico, io non la parlo la tua lingua. Non è che tu—» REskil si bloccò; si stava già esprimendo in Unilingua e quel soldato chiaramente non lo comprendeva. «English? ¿Español? Português? Norsk?» chiese allora, in una catena che gli venne spontanea, come si fosse trovato a forgiarla centinaia di volte; il trio di anelli con cui la ultimò furono i più deboli e deformi. «Ah... un... un peu de français? Farsi? Uhm... Viukhar?»

Il soldato lo guardò come... come se avesse iniziato a parlare una – qualche, in realtà – lingua sconosciuta.

«E nemmeno l'italiano, vero?» domandò rassegnato; aveva l'impressione che nessuno gli avesse mai risposto positivamente a quella.

«Ni... uhm...»

Il soldato indugiò, la bocca storta e le sopracciglia castane – non bionde come i suoi capelli – aggrottate, assorto in chissà che pensieri. Lasciò andare la maglietta di REskil e si accostò la mano alla testa, dove stese indice e medio; infine, lo additò.

«Eh?»

Il soldato ripeté quel gesto.

«Non è che capisco meglio se lo fai due volte.»

Il soldato sospirò frustrato e stette per grattarsi il collo, ma si avvistò qualcosa sulla manica della camicia e la tese verso di lui. REskil la studiò per individuare cosa, ma non riscontrò nulla di fuori dall'ordinario: era di un tessuto bianco dall'aria comoda ed elastica, con bottoni dorati e ricami sugli orli che ricalcavano viticci e fiori.

«Amico, io non...» Un soffio di vento passò tra loro due e REskil catturò i guizzi frenetici di alcuni ciuffetti di pelo dorato, incastrati tra i bottoni. «La volpe? Mi stai chiedendo di lei?»

«Valup» chiarì il soldato e si accostò di nuovo le dita alla testa, in quella che adesso REskil decifrò come un'imitazione delle sue lunghe orecchie. «Lila minan ya Keras.»

"Perché vuole sapere—" REskil ci ripensò. "Certo che vuole sapere della volpe. Lui è il suo padrone, ma prima si è schierata dalla mia parte. Ed è da stamattina che mi sta incollata."

«Amico, non me lo spiego neanche io. Cioè, le ho pure dato un calcio. Per sbaglio, eh!» tenne a specificare; fu molto grato che quel soldato non avesse idea di cosa stesse dicendo. «Le starò simpatico o—»

REskil tornò a fronteggiarlo – invece di vagabondare impacciato da una direzione all'altra – giusto in tempo per vederlo allungare una mano a sfiorargli il viso.

Per un secondo, una figura scura, irriconoscibile e dai contorni sfocati, che si stagliava temibile contro uno sfondo metallico che nulla aveva a che fare con la foresta attorno a loro, si sovrappose a quella del soldato e qualcosa scattò dentro REskil: un terrore cieco, senza confini, che lo fulminò e lo intirizzì fin nelle ossa.

«No! La prego!» si ritrovò a gemere, le braccia strette attorno al capo e gli occhi serrati.

«S-suné!»

REskil osservò il soldato ritrarsi, incastonare la lancia nell'erba e inginocchiarsi davanti a lui con l'atteggiamento di chi tentava di non spaventare una bestiola; la sua mente, tuttavia, era assente, intrappolata a vivere e rivivere quello che era appena successo.

"Ma che mi è preso? Era un ricordo?" REskil si scrutò le dita, ancora attraversate da quell'irrefrenabile tremolio, e si forò i palmi con le unghie per riprendere il controllo di sé. "Non importa. Non farlo mai più. Sei fortunato a essere vivo. Un altro ti ficcava la lancia nel cuore senza pensarci due volte."

«Svouvos goc rāl-vi ne byar» continuò il soldato con rammarico, picchiettandosi il sopracciglio. «Xed svouvos hēn-vi canà. Vi'ri gearos.»

REskil si controllò il proprio e fu attraversato da una fitta di dolore. "Giusto. Il taglio. Voleva solo dargli un'occhiata, probabilmente."

«Feyam, feyam» cantilenò il soldato con rinnovata dolcezza, avvicinandosi; lo sguardo gli si alternava tra il sangue sulla sua mano e il petto che gli si alzava e abbassava fin troppo in fretta. «Ya ikki da. Xed ya cri.»

"Gli fai pena" soffiò il suo cervello, in una verità che gli rimase addosso come un graffio. "Sei davvero un... no, aspetta, è perfetto: fagliene di più."

REskil si accasciò sui polpacci con stanchezza – gran parte della quale neanche dovette simulare – e indicò timidamente la saccoccia.

«Tila?» disse lui, toccandola.

REskil annuì, attento a non far trapelare le sue reali emozioni.

Il soldato se la sganciò dalla cintura e la piazzò tra loro due. La saccoccia si afflosciò in maniera deliziosa, sformandosi lì dove i biscotti premevano per uscire.

REskil rischiò di sbavare e neanche ancora li vedeva. Fu molto tentato di appropriarsene e svignarsela, ma non avrebbe fatto molta strada.

«Cosa vuoi in cambio?»

Il soldato non rispose e REskil osò sperare che glieli stesse donando senza aspettarsi nulla, per pura bontà d'animo. Non si sentì nemmeno sciocco nel formulare un pensiero tanto assurdo, perché con quel suo bel faccino e i modi gentili, quel ragazzo era il ritratto dell'innocenza.

Ma il sentimento durò poco perché, dopo aver fatto vagare smarrito lo sguardo da lui alla saccoccia, aprì e serrò il pugno con rapidità per due volte di seguito in un gesto che inconfutabilmente pretendeva qualcosa.

REskil si sforzò di non mostrarsi deluso e si sbrigò a frugarsi nelle tasche dei pantaloni cargo che stavolta, più che tastare in maniera sommaria in cerca di provviste, rivoltò per intere.

«Io ho... questo» bofonchiò, offrendo quattro sigarette storte e sporche e una bussola arrugginita.

Il soldato lo squadrò con ancor più smarrimento e del disgusto non proprio celato. REskil non lo biasimò: le macchie che le ricoprivano avevano pari possibilità di essere fango e sangue secco; anzi, forse non proprio pari.

«Amico, senti... lo so che è spazzatura, ma non potresti accettare comunque? Sai, per... per fare una buona azione» premise, tendendo i suoi averi con più insistenza. «Me ne basta uno, lo prometto. Un solo biscotto. Ti scongiuro. Poi, non ti scoccerò—»

«Xed qa-ni cri» lo interruppe il soldato, e gli spinse le braccia indietro.

REskil se le lasciò cadere in grembo sconfitto.

«Non ho altro» lo avvisò. «Cioè, ho il pugnale, ma se te lo do invece di morire di fame, muoio ammazzato.»

«Xed qa-ni cri» ribadì e diede un colpo di mento proprio verso di lui; quindi, gli avvicinò la saccoccia, stendendo e chiudendo di nuovo il pugno. «Prener ova.»

"Sta dicendo che in, in cambio vuole... me?" REskil saltò un battito. "Ovviamente è questo che vuole, questo hai da dargli. Ma che ci hai sperato a fare di cavartela con poco? Sei già stato troppo fortunato a non essere crivellato a vista" si disse, posandosi al rallentatore sigarette e bussola nella tasca. Nel tornare a guardare il soldato, sorrise al meglio che poteva – che non era granché. "È solo un pompino. Ne hai fatti altri" minimizzò, in quello che aveva al contempo il suono di un conforto e di un giudizio. "Pensa... pensa al dopo. Ai biscotti. Pensa solo a quelli. Sarà finita presto."

REskil inghiottì e si mise carponi. Gattonò con tutta la – poca e tirata – sensualità che fu in grado di richiamare in direzione del soldato, attento a ogni sua minima reazione. Se avesse capito quale parte voleva che recitasse, dal mansueto allo spudorato e qualunque cosa nel mezzo, prima che gli fosse imposta, magari si sarebbe risparmiato qualche livido.

La sua espressione, più che eccitata, pareva stranita, per cui REskil le si adattò con un approccio sicuro e sfrontato e cercò di non soffermarsi su di essa: non aveva alcuna intenzione di immaginarsi il gioco di ruolo che si stava svolgendo nella mente del soldato né tutti i modi in cui avrebbe potuto evolversi ben oltre un semplice lavoro di bocca. Non sarebbe stato altrettanto facile sconnettersi dal proprio corpo e lasciargli fare qualunque cosa fosse servita, se si fosse fermato a riflettere anche soltanto per un attimo.

Si era però preparato qualche frase di circostanza da miagolare, nella flebile speranza di arricchire la sua ricompensa. Arrivato proprio davanti al soldato, gli mancò il coraggio di pronunciarle.

"Tanto neanche ti capisce... Fa' qualche verso nel mentre, al massimo. A loro piace."

REskil si concesse un ultimo secondo di preparazione, poi allungò la mano al cavallo dei pantaloni del soldato.

Gli fu schiaffeggiata con tale violenza che lo schiocco riecheggiò.

«Kura bal hennesh?!» strillò, gli occhi azzurri lucidi e punti di panico. Indietreggiò sui palmi e afferrò con forza l'asta della lancia; non la estrasse subito, ma era più che pronto a farlo.

"Questo fa ancora parte della sua fantasia...?" Nel dubbio, REskil non si azzardò a muoversi. Uno studio più attento gli confermò tuttavia che la reazione del soldato era inconfutabilmente genuina, e che lui era terrorizzato. "Oh merda."

«Oh! Ehi, amico, mi dispiace! Credevo lo volevi!» si giustificò, sedendosi sui calcagni e gesticolando all'impazzata. «Mi hai... mi hai indicato! E dopo hai mosso i biscotti! Insomma, cosa ti aspettavi?!»

Il soldato ansimò più piano, inquadrando REskil e la saccoccia a turno con uno smarrimento totale. La realizzazione si sedimentò in lui con un gran ritardo e... un'infinita angoscia.

«Ze! Ze!» strepitò, con altrettanti colpi di mento diretti a lui. «Ni xed svouvos... Pren. Prēn» scandì, la seconda volta con un tono appena più lungo. Nel constatare che quella spiegazione non stava chiarendo alcunché, si lanciò sulla saccoccia e ne cacciò un biscotto. «Prēn» reiterò, aprendo e serrando il pugno come un ossesso, per poi masticare e inghiottire con esagerazione.

REskil avvampò. "Per i Tre, quella cosa con il mento è un no. E quella con la mano... Mi stava dicendo di mangiare e basta, non di mangiarmi lui."

«Suné» borbottò infine.

«No, scusami tu!» ribatté. «Io... sono stato un idiota.»

"Voglio morire."

Il soldato montò un sorrisetto imbarazzato, allargò la saccoccia al massimo e la girò verso di lui, stavolta in un atteggiamento impossibile da fraintendere. REskil vi infilò la punta delle dita con ritrosia, ancora mezzo convinto che sul più bello gli sarebbero state frustate via o che la saccoccia sarebbe scattata loro attorno a comando come una trappola per topi.

Ma il soldato non diede alcun segno in tal senso e si limitò ad annuire incoraggiante.

REskil esitò lo stesso e ci impiegò forse un minuto intero ad afferrare un biscotto. Per portarselo al petto, al contrario, sfiorò il millisecondo. Controllò per l'ultima volta che al soldato stesse bene e non lo avrebbe richiesto indietro; nell'averne la certezza, tirò finalmente un sospiro di sollievo.

«Grazie» bisbigliò, e schiuse i palmi per rivelare il suo bottino.

Era fatto in casa. Doveva essere fatto in casa. Era sghembo e a tratti sgonfio e aveva i bordi frastagliati anziché tondi. Le scaglie marrone scuro, che risaltavano contro lo sfondo beige, erano di forme differenti e mai della grandezza giusta. E nonostante ciò, era il biscotto più bello che avesse mai visto – non che la lista fosse lunga.

"Ma questo... è cioccolato?!" REskil quasi si strozzò con la sua stessa saliva. "Sono tutti al...?"

REskil curiosò con nonchalance nella saccoccia e si scoprì ancora più fortunato nella sua già stratosferica fortuna: nel mucchio da cui aveva pescato alla cieca, soltanto alcuni biscotti erano al cioccolato. La maggior parte era alla frutta o alla frutta secca.

Quest'ultimo fu il tipo scelto dal soldato.

"Lui... ha davvero preferito la frutta secca al cioccolato?" REskil lo scrutò finché lui non alzò lo sguardo; a quel punto, calò il proprio per non passare ancor di più per maniaco. "Quanto spesso lo mangia il cioccolato per snobbarlo con tanta indifferenza?! Sono ricchi su questo pianeta?!"

«Ikki pan?»

«Hm?»

Il soldato gesticolò al biscotto tra le sue mani e gli offrì gli altri due tipi. «Ku xed vare-vi—»

«No! No, mi piace!» gridò REskil, stringendoselo al cuore.

«Wo pan...»

«Me lo sto solo godendo» si giustificò sottovoce, sia con lui che con sé stesso. «Magari tu i biscotti al cioccolato li mangi tutti i giorni. Ma questa è la mia prima volta...»

"E sarà pure l'ultima se non la pianti di fare l'idiota e perdere tempo! Per quanto ne sai, stai per—"

REskil scosse la testa per zittire la sua coscienza. Sì, la sua era una questione di vita e di morte. Sì, avrebbe dovuto sbrigarsi a buttar giù quel biscotto mentre il suo stomaco ancora accettava il cibo. Ma non avrebbe rovinato né affrettato per nulla al mondo quell'occasione più unica che rara; fosse l'ultima cosa che faceva. Meraviglie culinarie del genere, i brigadieri come lui potevano solo sognarle.

REskil addentò la punta del biscotto con strabiliante delicatezza e ne staccò un frammento piccolissimo. Ammontava a malapena a un settimo del totale e bastò comunque a superare tutte le aspettative ricamate negli anni. L'impasto era friabile ma non secco; morbido ma non pastoso; dolce ma non zuccheroso; e persino croccante e, al tempo stesso, colloso lì dove aveva accolto le scaglie di cioccolato.

"Oddio!"

REskil inghiottì e lasciò che il sapore gli attecchisse sulla lingua, che fosse registrato e venerato, prima di ripetere il ciclo ancora e ancora, finché non gli rimasero nient'altro che briciole in mano. Le leccò via dalla prima all'ultima, fregandosene di quanti germi le accompagnassero.

«Rios prēn-he jo jaré, pal?»

REskil quasi tremò: si era scordato del soldato. Nel ritornare a far caso a lui, fu certo di beccarlo con un cipiglio disgustato o turbato per quel comportamento da matto; invece, dal suo bel visino non si leggeva che apprensione.

«Che?»

«Ni... prēn» semplificò, scaricandogli l'intera saccoccia tra le gambe incrociate.

REskil si rizzò e si incollò i polsi al petto. «Cosa stai...?»

«Prēn» ribadì, facendo quel gesto con il pugno per invogliarlo a favorire.

«... Mi stai davvero regalando tutti i tuoi biscotti?» gli domandò, e rilasciò del fiato che neppure si era reso conto di aver trattenuto. «Fai sul serio, amico?»

Il soldato annuì con decisione e gli offrì pure la sua borraccia per un sorso d'acqua.

«N-ne sei sicuro? Non vuoi niente di niente in cambio?» insistette REskil, rivoltandosi in fretta la tasca. «Se vendi la bussola, almeno qualche unità te la fai! È rotta, ma è di metallo buono, si può sciogliere!»

Il soldato gli rispose con quel secco cenno negativo del mento verso l'alto e la raccolse per restituirgliela. Quindi, rubò un ultimo biscotto alla frutta dalla saccoccia e si ritrasse per lasciargli campo libero, poggiando i palmi sull'erba dietro di sé mentre masticava soddisfatto.

"Tu..."

REskil restò impalato per qualche secondo.

Poi lo abbracciò.

Fu l'unica maniera che gli venne in mente per dimostrargli quanto gli fosse grato, perché le parole – anche se miracolosamente fossero state comprese – non sarebbero mai state abbastanza. E in verità, il suo corpo si era mosso ben prima che lui trovasse una spiegazione al perché.

Il soldato dapprima si irrigidì – e REskil arrossì per la vergogna e non gliene fece una colpa, visto che in pratica l'aveva molestato – ma si rilassò altrettanto in fretta e gli sfregò la schiena, tranquillizzando entrambi.

Quando REskil si ritrasse, arrossì di nuovo e con una tale intensità da sentirsi la faccia in fiamme; per un sentimento ben più positivo, però. Il soldato aveva un grosso sorriso stampato sulle labbra, caldo e luminoso e gioioso quanto una giornata di sole.

REskil sorrise di rimando; di nuovo, fu un istinto più forte di lui.

«Va bene, li accetto... Però ce li dividiamo» asserì, riportando la saccoccia in mezzo a loro due. «Sono il tuo pranzo, no?»

Il soldato tartagliò per la fretta di esprimersi. «Z-ze! Vi—»

«Sono tipo... una cinquantina, amico! Ce ne sono abbastanza per tutti e due» lo interruppe REskil. «E ho la netta sensazione che tua mamma o... tua nonna te ne hanno fatti così tanti perché ti vedono sciupato. E non hanno torto. Mangiali.»

«Ni—»

«Mangia» ordinò, imitando quel gesto con il pugno.

«... Wo pan» gli concesse, sgonfiandosi.

Tuttavia, mirò a uno dei biscotti alla frutta secca spezzati – in pratica un misero pezzettino – e poi fece finta di non ricordarsi nemmeno dell'esistenza della saccoccia, perché dedicò la sua completa attenzione alla lancia.

La disincastrò dal terreno e ne lucidò con cura la lama, affilandola già che c'era con una pietra apposita recuperata dalla cintura. Quindi, ne afferrò l'asta con entrambe le mani e le tese in avanti, girando con la destra in un senso e con la sinistra nel senso opposto.

La lancia produsse un fracasso metallico strusciante e si striminzì a mezz'aria fino alle dimensioni di una normalissima borraccia.

Il soldato l'acchiappò al volo e fece per assicurarvi il tappo, ma colse REskil ad ammirarla rapito e rallentò, accennando un sorriso che era un bizzarro misto di orgoglio e soggezione.

«Quella cosa è fighissima» enfatizzò. «Sembra uscita da uno di quei vecchi film sulle arti marziali e la magia.»

Il soldato seppellì il collo nelle spalle strette, ben consapevole che quello fosse un complimento, e rifletté a lungo.

«Svos yumēn-ri?» parlottò, porgendogliela.

◄●►

Foto: La "volpe".

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top