Cadavere squisito. Squadra André Breton
Salve a tutti, mi chiamo Nancy e vorrei parlarvi del mio segreto, ma prima faremo qualche passo indietro per capire cos'è successo.
Due mesi fa sono stata da mia zia in Provenza, tra i suoi bellissimi fiori e il profumo di lavanda caratteristico di quelle parti. Più precisamente, ho soggiornato a Grignan, un posto bellissimo con distese di lavanda e un castello che, nonostante la sua età, fa ancora sognare.
Ma veniamo al nocciolo della questione. Dicevo: tutto è cominciato lì e proprio da quel punto partirò col mio racconto.
Ero arrivata in bici fino al castello di Grignan, cosa insolita per me che non mi sposto se non con i mezzi pubblici, decisa a fare visita a zia Violet sul posto di lavoro, dal momento che portava avanti un'opera di restauro in una delle stanze più antiche della grande dimora storica.
All'ingresso, una breve fila di persona attendeva il proprio turno per entrare e procedere alla visita guidata, mentre accanto alla biglietteria, una donna dell'abbigliamento strano era intenta a rovistare in una sacca color nocciola. Dimostrava lo stesso impegno di chi cerca le chiavi di casa. Sembrava avere fretta di entrare. Si avvicinò alla porta poco più distante dall'ingresso sorvegliato e vi sparì dietro in un attimo.
Subito dopo, un punto di luce evidenziò il buco della serratura per qualche istante, poi svanì esattamente come era apparso. Mi affrettai a spingere giù la maniglia della porta e mi lanciai all'interno della struttura.
Nonostante fosse pieno giorno, le stanze che mi ritrovai ad attraversare erano cupe e vuote, eccetto che per qualche vecchio arazzo sparso qua e là; in certi punti ebbi bisogno della torcia del cellulare per illuminare il mio cammino. Pensai che forse la luce che avevo visto fosse proprio dovuta a una sorta di illuminazione artificiale che la donna dalla gonna a balze e gli stivaletti bassi aveva usato per il mio stesso scopo.
Uscivo da una stanza ed entravo in un'altra, sempre più vuota, ma meno buia. Avrei dovuto solo cercare mia zia, magari chiedere dove fosse a qualcuno che conoscesse la struttura, ma quella donna aveva rapito la mia attenzione e mi richiamava a sé come una sorte di pifferaio magico.
Continuai a camminare, finché un punto di luce non bloccò la mia avanzata. C'era qualcosa sul pavimento di quella stanza e brillava come il riflesso del sole su una scheggia di specchio. Quasi mi accecò, ma ben presto si fece meno intensa e riuscii ad avvicinarmi.
Ricordo ancora che avevo le palpitazioni e che le mie gambe non la smettevano di tremare.
Mi accovacciai. La luce era sparita e proprio lì, davanti ai miei occhi, scoprii che non vi era alcun oggetto misterioso, né qualcosa di inspiegabile. Una penna giaceva sul pavimento: una biro dall'impugnatura a spirale. La raccolsi e mi guardai intorno, come se avessi il timore che qualcuno mi stesse guardando "rubare" qualcosa che non apparteneva a me. Mi chiesi se non fosse stata la donna a perderla, perché di lei non avevo visto più neanche l'ombra.
«Nancy!» la porta si era aperta e zia Violet si era ritrovata davanti a me con sguardo interrogativo. «Stavo giusto per telefonarti e dirti che sarei tornata a casa per cena.»
«Sì, scusa se non ti ho avvisata, ma volevo farti una sorpresa», mi rigirai la penna tra le mani, completamente rapita da quel piccolo oggetto.
«Cos'hai lì?» domandò mia zia, e io subito infilai la penna nel mio zainetto.
«Nulla, mi era caduta. Allora andiamo?» le chiesi appena mi fui ripresa. Zia Violet mi prese sottobraccio e sorridente mi trascinò con sé verso l'uscita.
***
Quella sera, mangiai più rapidamente del solito. Non che avessi più appetito, o per lo meno, non un appetito fisico. Quella sera, era la mia curiosità ad essere affamata. Non prestai troppa attenzione a zia Violet e al racconto della sua giornata di monotonia lavorativa. La mia mente era attratta da ciò che avevo lasciato nello zainetto, nella mia camera, al piano di sopra. Mentre con la forchetta stuzzicavo pigramente il polpettone, di tanto in tanto, i miei occhi finivano al soffitto, come attratti da quell'oggetto, così insignificante, eppure così pregno di qualcosa che non riuscivo a definire.
Mi cacciai in bocca l'ultimo rimasuglio di spinaci e ancor prima di deglutire, chiesi alla zia il permesso di alzarmi da tavola.
«Caspita!» esclamò lei stupita, «Non ti ho mai visto mangiare così di gusto, nemmeno il tuo piatto preferito!»
«Avevo fame» mentii; non lo facevo mai, ma in quel momento, mi venne spontaneo.
«Mi farebbe piacere se restassi ancora un po' a farmi compagnia. Non mi hai nemmeno detto com'è andata oggi a scuola...»
Lo sguardo dolce di mia zia si scontrò con un io di pietra di cui ignoravo l'esistenza. La mia attenzione, per un istante, era tornata al soffitto.
«Piacerebbe anche a me, ma domani la prof. di storia interroga a sorpresa e non vorrei farmi beccare impreparata...»
Non mentii del tutto, questa volta. Il desiderio di toccarla però ancora era irresistibile, dovevo tenerla tra le mani.
Zia Violet sorrise e annuì, io scattai rapida in corridoio, per poi salire le scale.
Feci i gradini due alla volta e arrivata in camera, chiusi la porta.
Avevo il fiatone. Non era solo per la corsa. Provavo un'emozione fortissima, il cuore mi martellava nel petto.
Lo zaino era là, sul letto, dove lo avevo lasciato, una trentina di minuti prima. Mi sedetti accanto a lui e me lo misi sulle gambe. Lentamente lo aprii, andando a cercare con la mano quello che stavo desiderando oltre ogni spiegazione. Solo quando le mie dita toccarono una superficie fredda e liscia, mi lasciai andare ad un respiro di sollievo. Tenendola tra l'indice e il pollice, liberai la penna dal suo nascondiglio. Andai alla scrivania e accesi la lampada da tavolo. La osservai alla luce. Non aveva nulla di particolare: una penna a scatto, dal corpo bianco latte. Nessuna grafica o intarsio, nemmeno un'incisione. Un'anonima penna qualunque, trovata in un posto qualunque.
Afferrai un quaderno, che trovai a portata di mano e cercai la prima pagina bianca disponibile. Feci scorrere la punta sulla riga più in alto: niente.
Provai ancora, calcando la mano: nulla. Rivolsi la punta verso la bocca e tentai di riscaldarla con il fiato.
Ripresi la riga, abbozzando un ciao, ma le lettere rimasero invisibili. Rapida la svitai, sfilando il serbatoio dal fusto. Lo osservai poi contro luce: l'inchiostro c'era. Forse, doveva essersi seccato, pensai.
Guardai l'orologio, era presto per andare a dormire, ma non avevo comunque voglia di parlare, perciò evitai di ritornare al piano di sotto. Riavvitai la penna e la tenni stretta nella mano destra, iniziando a giocherellare con il meccanismo a scatto, mentre con l'altra mano aprii, seppur controvoglia, il libro di storia.
Odiavo quella materia: una sfilza di avvenimenti e date impossibili da ricordare.
Seconda guerra mondiale: 1936 l'Italia invade l'Etiopia, 1938 accordo di Monaco, 1941 la Germania dichiara guerra agli Stati Uniti... una scala cronologica, per me, impensabile da memorizzare.
Sbuffo sbattendo le mani sulle pagine aperte e la penna mi sfugge tra le dita, cadendo sul tappeto, non prima però di sfiorare il mio polpaccio scoperto. Mi piego per raccoglierla e lo vedo: un segno, una linea scura, dove la punta ha impattato con la mia pelle.
La recupero da terra. Ma allora, funzioni? Scarabocchio una spirale sull'angolo del libro, ma nulla. Com'è possibile? Sfioro la punta con l'indice e la penna lascia di nuovo un segno. Sono stranita. Porto la mano destra verso l'interno dell'avambraccio sinistro, senza un vero motivo, solo una sensazione. Poggio la punta sulla pelle. È fredda, ma solo per un istante. 1936... scrivo. Strizzo gli occhi. Non può essere. La scritta sparisce, come assorbita dalla mia pelle. Eppure era lì, scritta chiaramente, in inchiostro nero, in risalto.
Ritento. 1938. Un secondo, le quattro cifre non sono più davanti ai miei occhi. Di colpo, spaventata, lancio la penna davanti a me, impatta contro il muro e ricade al centro del libro di storia. La osservo, in un misto tra stupore incredibile e paura inspiegabile. Mi massaggio il punto in cui l'inchiostro è sparito, mi sembra di avvertire un leggero formicolio, ma forse è solo un'impressione. Eppure la devozione che mi ha spinto a venirla a cercare...in fondo...non aveva nulla di normale. Forse, quella che ho trovato, non è per niente una penna qualsiasi. La paura primeggia, la curiosità si è rintanata in un angolo. Afferro lo zainetto e dopo avergliela gettata in pancia, lo chiudo con attenzione e torno da zia Violet.
Non ho dormito molto, ma non ho osato riaprire lo zaino. Sono una tipa razionale e ciò che non riesco a capire mi destabilizza, oltre ogni limite. Credo nel destino però e sono convinta che se una cosa succede è perché deve succedere.
Alle 11:00 la professoressa di storia estrae a sorte i nomi dei tre fortunati e ironia della sorte, sono tra i prescelti. Sono anni che rasento la sufficienza nella sua materia, a causa della mia scarsa capacità mnemonica. Sono pronta, anche stavolta, alla consueta umiliazione.
Domanda aperta: riepilogo dei fatti salienti del secondo conflitto mondiale e sono proprio io la prima a dover rispondere.
Italia, Germania, Austria, Giappone si schierano nella mia testa in massa, senza un ordine preciso, fino a quando, avverto un formicolio all'avambraccio sinistro, che diventa subito un bruciore intenso. Reagisco d'istinto, stringendo la carne con le unghie della mano destra. E succede l'inspiegabile.
Le date escono di getto dalla mia bocca, una in fila all'altra, corredate dagli episodi che le avrebbero dovuto scolpire nella mia mente; dove so per certo però, fino a un attimo prima, non ve ne era la benché minima traccia.
La professoressa è incredula ed estasiata al tempo stesso. Io sono... senza parole! La mia preparazione è ineccepibile, tanto da meritarmi un ottimo voto, senza bisogno di domande aggiuntive. Gongolo al mio otto inaspettato e lascio la parola al secondo esaminato.
Avverto la voce sottile di Simon Miller rispondere in lontananza, mentre con lo sguardo perso in un punto indefinito, mi sfioro l'avambraccio che, ieri sera, ha assorbito e fatto sue le date che sono appena scappate dalle mie labbra.
«Sfigato...» Tom Hidden si lascia scappare quell'infelice commento, un paio di banchi dietro al mio.
So che si sta riferendo alla difficoltà di Simon di esprimersi con scioltezza, che peggiora quando è sotto pressione.
Non ho mai trovato il suo balbettare sfigato o divertente. E non dovrebbe esserlo nemmeno per lui.
Ma il branco di pecore che segue notoriamente Tom sembra non essere dotato della medesima sensibilità e con risolini di sottofondo, acutizzano il problema del povero Simon.
Tom alza il tono, nonostante il rimprovero della docente. Ora imita il balbettio, che in Simon si fa sempre più marcato, impedendogli di proseguire degnamente nell'esposizione.
Ho il vizio di empatizzare, ma mai fino a questo punto: sento la rabbia salirmi dentro, la voglia di ribattere a quel coglione di Tom scava in risalita, lungo la mia gola. L'avambraccio inizia a formicolare, un campanello d'allarme, un richiamo che mi spinge a cercare nel fondo del mio zaino. Trovo la mia penna e senza riflettere, mi lascio guidare da uno strano istinto. Chiudi la bocca Tom, calco con l'inchiostro nero. Mi sento meglio, quasi soddisfatta. Ma è solo una frase...
«Oddio! Prof!»
La voce di Melissa grida alle mie spalle. Tutti ci voltiamo di scatto verso il fondo della classe. Tom Hidden accanto a lei, si tiene le mani al collo e pare soffocare. Di colpo torno a voltarmi, la penna nella mia mano, gli occhi sbarrati. Non posso essere stata io!
La professoressa corre verso Tom, dalla sua gola escono solo rantoli. Tutti sono nel panico e si accalcano intorno al suo banco. Qualcuno corre a chiamare aiuto lungo il corridoio. Io resto al mio posto, ritiro la penna nello zaino e mi godo un impagabile senso di soddisfazione.
Non mi interessa sapere chi sia il suo proprietario, non mi interrogo sulla natura del suo potere. Ma il tesoro che serbo al sicuro sul fondo del mio fedele zaino, sembra essere capace di prodigi terribili sì, ma anche sorprendenti.
Avverto un'affinità con lei, so che all'apparenza è solo un oggetto, eppure... è molto di più. Forse l'inchiostro che mi ha penetrato la pelle mi ha dato la capacità di sentirne il potenziale.
Una cosa è ricordare date, formule, parole per le prossime verifiche e interrogazioni ma, tutta un'altra storia la possibilità di influire sul comportamento degli altri. Tom è tornato a respirare senza problemi, dopo due minuti pieni di apnea. È stato uno shock per gli altri; per me, se l'è meritato.
Mangio il mio panino in solitaria, stando nell'angolo più in disparte del cortile della scuola. Amo questa panchina seminascosta, così come lei ama stare al tavolo dal lato opposto. Circondata dalle sue amiche, Sarah ride di gusto. Riesce sempre ad essere bellissima, anche mentre mangia il suo couscous vegetariano.
Ho una cotta per lei dalle elementari, ma lei, quasi, non sa che esisto.
Ho avuto così tante occasioni di parlarle, ma tutte le volte, la paura di un rifiuto mi ha fatto cambiare idea; figurarsi, se le chiedessi di uscire. Sarah ha una luce intorno, bella e genuina; la invidio. Forse è anche per questo che mi piacerebbe starle accanto.
Il tocco di uno spillo gelido mi riporta con la testa al presente. Gli occhi vanno all'avambraccio sinistro e solo allora mi rendo conto di tenere la penna nella destra e di averne appoggiato la punta sulla pelle. Come ho fatto a non accorgermene? La tentazione è forte. Potrei scrivere una semplice frase, quattro parole: A Sarah piace Nancy. In un lampo le parole sparirebbero e la ragazza di cui sono innamorata da anni, forse, finalmente mi noterebbe.
***
Un brivido mi ferma, c'è qualcosa che mi blocca. Un senso di disgusto mi attanaglia lo stomaco: la mano vorrebbe scrivere, ma una terribile nausea mi afferra alla bocca dello stomaco. La penna vibra piano, poi dai suoi fianchi escono dei fili argentei che si avvolgono al mio indice.
Sul momento la sorpresa, un po' di repulsione, poi una fila di lucine microscopiche si accende ad intermittenza e la cosa invece di preoccuparmi di più, ha un effetto rilassante.
Mi alzo come in ipnosi, esco a prendere un po' d'aria, corro verso il parco più vicino, dove c'è un gazebo in cui a volte tengono concerti d'estate. L'atmosfera è di calma e serenità, forse qua riuscirò a ragionare meglio. Mi sdraio all'ombra su una panca e provo a ripercorrere i pensieri affannati, chiudendo gli occhi e cercando di ricacciare via il senso fastidioso dalle viscere che va via lentamente.
Con gli occhi chiusi sento un leggero prurito sul collo, come di fili d'erba, come di capelli: forse sono quelli di Sarah che viene a soffiarmi sul collo... non guardo, ma la immagino piegata su di me, a dire parole dolci, a odorarmi, con piccoli sbuffetti del naso. Il solletico mi piace, mi rilassa, non apro più gli occhi per non uscire dal sogno, ma comincio a chiedermi come sia possibile? Forse ho usato quella cosa a forma di penna senza accorgermene?
Poi, improvvisamente, un dolore lancinante sul collo. Cado dalla panchina a faccia in giù, tiro su gli occhi mentre la mano al collo è insanguinata e la paura mi afferra le viscere: a pochi centimetri dai miei occhi ne vedo due gialli, potenti, catarifrangenti, con una pupilla sottile come quella dei serpenti. Mi alzo lentamente e il gatto continua a guardarmi fisso, come se fosse fiero di avermi graffiato sul collo e fatto uscire dallo stato di trance.
Il felino è bianco e oro, col pelo corto, ma le zampe poderose, grosse quasi come quelle di un cane. Un piccolo miagolio a mezza bocca, si allontana e aspetta che io lo segua... mi alzo e mi allontano dal gazebo, seguendolo piano. Va verso il limitare del parco, ma io a un certo punto mi fermo: mi attira indietro il gazebo, mentre le luci sulla penna si accendono e spengono con una frequenza altissima.
Vorrei tornare indietro, ma il gatto mi si piazza davanti, quasi mi proibisse di tornare indietro.
La penna vibra e si muove e trascina con sé il mio braccio, come se fossi un direttore di orchestra. Scrive nell'aria, ma mica parole che io capisca o voglia, una sequenza di piccoli movimenti in orizzontale, una scritta in una qualche lingua sconosciuta.
Mentre scrivo il sole scompare come coperto da nubi: alzo gli occhi e la nuvola diventa sempre più netta e circolare, finché sparisce qualsiasi brano di vapore e rimane un immane oggetto volante, di un metallo lucido e grigiastro.
Sui bordi si vedono spuntare delle luci che si accendono e spengono allo stesso ritmo di quelle sulla penna. I movimenti di questa sono quasi violenti ora, scrive in aria con una frequenza incredibile: allo stesso tempo il disco si muove verso il basso con molti piccoli aggiustamenti fino a coprire il tetto del gazebo.
Poi da un riquadro che si apre nel metallo escono tanti piccoli oggetti di diverse forme che compongono come se fossero api ronzando intorno una specie di scala dai gradini strettissimi. Lo stupore mi attanaglia, mi rendo conto che mentre la mente s'arrovella la penna mi ha ipnotizzato fino a prendere possesso del mio corpo.
In giro non c'è nessuno, solo il gatto che guarda con attenzione tutto quello che succede.
Quando gli oggetti terminano la loro costruzione dalla nave escono degli alieni, uno dopo l'altro, piccoli, alti dieci-venti centimetri e ricoperti da uno strato di piccoli peli. Sono tre, ognuno dotato di una mini penna che agitano nell'aria con dei movimenti precisi. A quel punto la mia penna, la mia mano e il mio braccio seguono il loro movimento pedissequamente.
Poi, con sommo disgusto, vedo i tre alieni, molto simili a dei ratti terrestri avvicinarsi e salire sulle mie gambe, sento le unghiette scavare buchini sui pantaloni e poi infilarsi sotto la maglia. Non riesco a fare nessun movimento, se non quello involontario della penna in aria e nel contempo loro prendono possesso del mio corpo e, mentre due fanno su e giù, il più grosso mi sale sulla testa.
La nausea è massima, ho le lacrime agli occhi perché non riesco a reagire. I pensieri sono confusi e sento che fra poco mi trasformerò sempre più in una loro marionetta, una volta che avranno compiuto le loro esplorazioni: quello dietro arriva alla nuca e comincia a scavare con le piccole unghie dietro la testa a cercare un varco per il cervello.
La situazione sembra precipitare, i pensieri sono sempre più confusi, vedo le tre creature come se fossero i miei padroni, i miei dei, la mia volontà fatta viva. Il corpo tenta di resistere con il senso di nausea, ma non riesco a muovermi. L'ultimo lume di razionalità sta sparendo, si riduce sempre più, io stesso sono un gigantesco ratto ai loro ordini.
Il gatto fa un enorme balzo e afferra per il collo l'alieno che avevo sulla nuca. Lo vedo cadere davanti a me mentre con una zampata gli strappa la sua penna e con l'altra lo tiene giù.
Gli altri due alieni sparano delle luci sottili che sfrigolano sul terreno, ma il gatto li evita abilmente. Poi stritola con le fauci la pennina riducendola in pezzi, e risalta verso il mio braccio sinistro trascinando in volo il secondo alieno.
Il terzo muove la sua pennina fino a spostare il mio braccio e dalla mia penna molto più grande parte un raggio di luce estremamente più forte, che lascia dei buchi a terra. Riesce anche a strinare il dorso del gatto, che inizia a fumare dove il pelo è bruciato, ma lui non smette di muoversi e alla fine riesce ad evitare il raggio e a catturare al volo il terzo alieno.
Rotta la terza pennina la mia mano cade verso il basso e con la mano sinistra recuperata riesco a strapparmi di dosso lo strumento alieno. Solo allora crollo a terra, ma ritorno rapidamente allo stato normale, sentendo di riprendere anche lucidità mentale, accompagnata da una grande stanchezza.
Mi sto per addormentare, mentre crollo non so se sto sognando, ma vedo il gatto leccarsi il pelo strinato e salire sulla scala dell'oggetto volante. Prima di entrare si gira e mi dice, mentre le mie palpebre si chiudono:
«Agente Felix Cat, abbiamo sventato un brutto attacco dal pianeta Rat-e-borg. Tenete gli occhi aperti, sempre. E non fatevi comandare dalla vostra penna.»
FINE
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top