Capitolo 7
Una volta richiusa la porta di casa, sentii le gambe farsi instabili. Mi accasciai contro la parete, colta da un improvviso senso di stanchezza.
Strinsi i denti, obbligando i miei respiri ad uscire lenti e controllati. Appoggiai la testa al muro alle mie spalle, mentre la testa cominciava a girare.
Odiavo sentirmi debole, impotente. Eppure, quando quei momenti arrivavano, era difficile non rimanere sopraffatta.
Le batterie del mio corpo si esaurivano sempre troppo velocemente.
E quando avevi i frammenti di una vita in pezzi da rimettere insieme, non c'era tempo per le distrazioni.
Mi costrinsi a rimanere lucida. Un respiro, poi un altro. Tremante, quanto la fiamma di una candela sul punto di spegnersi.
Il sapore inesistente del veleno mi riempì la bocca, come se fossi ancora lì, in quella notte di ferragosto, la mia vita appesa a un filo mentre le luci della festa mi riempivano gli occhi.
Non sappiamo come tu sia riuscita a sopravvivere. In qualche modo, le neurotossine hanno danneggiato i tessuti, ma non in maniera letale.
Era questo, quello che avevano detto i dottori.
Non abbiamo idea degli effetti che questo porterà alla tua salute, abbiamo bisogno di tenerti sotto osservazione. È un miracolo che tu sia ancora qui tra noi, Jen.
Un modo gentile per dirmi che ero un'anomalia. La ragazza che aveva combattuto contro il veleno e aveva vinto.
Come o perché fosse stato possibile, non lo sapevano. Nessuno aveva la più pallida idea di come fossi potuta sopravvivere.
Ma io sì. Io lo sapevo, per quale motivo ero ancora viva. Era stata quella voce. Era tutta colpa sua, se ora dovevo rimettere insieme i frammenti di una vita andata in pezzi.
Le mie dita sempre troppo fredde si strinsero attorno al tessuto della felpa.
Era a causa delle parole che erano esplose nella mia anima, illuminando ogni mio spigolo come fuochi d'artificio, che aveva capito che forse c'era qualcosa per cui lottare.
Che, forse, c'era qualcuno a cui non interessava che la mia fosse un'anima piena di rovi. E non era Ector, quella persona. Di quello ero certa. Perché nessuna voce era tanto sensuale e profonda come quella che aveva soffiato nel mio orecchio, avvolgendo ogni pensiero come seta liquida.
Svegliati, Jen, ti prego.
Ogni Biancaneve ha bisogno di un principe in grado di salvarla, ma io non potrò mai essere il tuo.
Io sono solo il dannato cacciatore a cui la regina ha ordinato di strapparti il cuore.
E, invece, credo che tu abbia preso il mio.
Non avevo idea di come fosse stato possibile, che l'avessi udita. Magari, quelle parole me le ero soltanto immaginata.
Probabilmente, la mia mente aveva intrecciato trame di sogni e speranze, creando la magnifica illusione che a qualcuno potesse importare davvero di me.
E quell'idea era bastata a farmi ritrovare la voglia di parlare, respirare, vivere, che credevo di aver perso. Che avevo perso, ma non nel momento in cui il veleno aveva offuscato ogni cosa.
Avevo perso interesse nella vita molto prima, quando avevo deciso di donare la mia anima a un bugiardo vestito da principe.
Quando avevo scelto Ector, nonostante per lui non provassi nulla, avvelenandomi di un amore tossico che non avrebbe mai potuto avere un lieto fine.
Mi ero illusa che le emozioni sarebbero arrivate con il tempo. La verità, è che non avevo idea di cosa significasse amare. E probabilmente non lo avrei mai saputo.
Avrei voluto sapere a chi quella voce appartenesse. Magari, se lo avessi scoperto, ogni cosa si sarebbe fatta meno confusa. Forse, se quella persona si fosse rivelata, avrei ritrovato la strada.
Non volevo essere come Biancaneve, smarrita in un bosco in attesa di un principe che venisse a salvarla. E allo stesso tempo ero esattamente come lei.
Avevo bisogno di conoscerlo, colui cui avevo rubato il cuore. Il ragazzo misterioso che aveva una voce così stramaledettamente familiare e sconosciuta al tempo stesso.
Quel timbro caldo... ero sicura di averlo già sentito. Ma era come se l'avessi sempre ascoltato nella maniera sbagliata, come se provenisse da una stazione radio male sincronizzata.
Lo conoscevo alla perfezione. E allo stesso tempo mi era completamente nuovo.
Mi sollevai, la stanchezza che impregnava ogni mio movimento, rendendomi un'estranea nel mio stesso corpo.
Mi trascinai in cucina, versandomi un bicchiere d'acqua. Osservai la luce del sole attraversare il vetro, mandando bagliori sul piano immacolata.
C'era così tanta meraviglia, anche nei momenti più semplici, nella più insignificante goccia di rugiada. Io però, non ero in grado di coglierli.
Quasi una nuvola grigia avesse oscurato la mia anima.
Finii l'acqua in un solo sorso, prima di dirigermi in camera mia.
Il telefono vibrò nella tasca della mia felpa. Accettai la chiamata, avvicinandolo all'orecchio. Una cacofonia di voci e rumori mi esplose nell'orecchio.
«Mamma?» salutai la donna dall'altro capo della linea, confusa.
«Jen!» la sua voce era più alta di parecchie ottave, per farsi udire sopra il frastuono «Tesoro, sono in stazione»
«In stazione? Perché?» domandai, finendo di salire le scale e sedendomi sul bordo del letto.
«Non te l'ho detto? Oggi abbiamo una cena fra colleghi e rimarrò fuori fino a tardi»
«Oh, okay» mormorai, afflosciandomi all'idea di passare il resto della giornata in solitudine.
Udii i suoni farsi più distanti, mentre una voce squillante annunciava la partenza di un treno, intimando di allontanarsi dalla linea gialla.
Ci fu qualche attimo di silenzio dall'altro capo e intuii che mamma stava prendendo posto su uno dei vagoni.
Quando ricominciò a parlare, il suo tono era ritornato soffice e delicato.
«Jen, sei ancora lì?»
«Sì, sì ci sono» la rassicurai.
«Ottimo. Com'è andata la giornata?» mi chiese, più rilassata.
«Bene, credo» risposi, evasiva, tormentando la trapunta del letto.
«E tu invece, come stai?» anche se eravamo lontane, percepii la punta di preoccupazione nella sua voce.
«Io...sto bene» ma la mia voce suonava piatta, vuota. Aveva in bocca lo stesso sapore di una bugia.
«Allora...ci vediamo stasera» mi salutò mamma, incerta se lasciarmi o proseguire quella chiamata fatta di silenzi e monosillabi.
«Sì. A stasera» ripetei.
«Ti voglio bene, tesoro»
«Anch'io. Tanto» sussurrai.
Così piano che temetti non mi avesse sentito.
***
Annegai la solitudine tra le pagine di storia. Studiai di morti e guerre finché non sentii la testa farmi male per la concentrazione.
Guardai fuori dalla finestra della camera. Il cielo si stava tingendo delle tinte violacee della sera, e le nuvole, come batuffoli di zucchero filato illuminati dal sole che spariva all'orizzonte, facevano somigliare quel tramonto a un dipinto. Doveva essere passata qualche ora da quando avevo cominciato a studiare.
Controllai l'ora sul telefono: erano quasi le sette.
Un alito di vento entrò dai vetri semiaperti, facendo volare la miriade di carte che avevo sulla scrivania, in un fruscio che somigliava al battito di ali di una farfalla.
Come quelle che credevo di avere nello stomaco, quando stavo con Ector, e che invece avevo scoperto essere volate via molto prima. Creature tanto pure e delicate non sarebbero mai potute sopravvivere tra roseti di spine e lacrime di veleno.
Un brivido mi attraversò il corpo.
Qualcuno sta camminando sulla tua tomba, avrebbe detto papà, se fosse stato lì.
Chissà se erano solo dicerie, o se tra tante leggende di strada vi era un fondo di verità.
Di certo, quello era solo freddo. Eppure nulla mi impedì di pensare che, in un certo senso, ero più morta che viva.
Mi accorsi di avere le mani gelide. Come un fantasma.
Andai a chiudere la finestra, non prima di permettere a un'altra ondata di brezza frizzante di infilarsi tra le cuciture della felpa. Rabbrividii, di nuovo. Qualcuno, sulla mia tomba, si stava proprio divertendo.
Fu in quel momento, che mi accorsi di avere fame. Decisi di prepararmi un thè. Scesi in cucina e misi il bollitore sul fuoco.
Mentre aspettavo che l'acqua si scaldasse, tirai fuori una tazza a pois da uno dei cassetti. Il rumore delle ceramiche che si urtavano l'una con l'altra mi riverberò nelle ossa, assordandomi. Quasi come se le mie orecchie si fossero così tanto abituate al silenzio da non essere più in grado di sopportare altro suono.
Presi una bustina per l'infusione da una scatola di latta, e un profumo di lamponi e mirtilli riempì l'aria, deliziandomi.
Fuori, la notte stava prendendo inesorabile il possesso del mondo, avvolgendo ogni cosa nel suo manto di silenziosa oscurità, annullando lentamente ogni colore.
Avrei voluto che si prendesse anche me, che mi facesse scomparire nel suo buio. Che mi annullasse, trascinandomi in un mondo dove non esisteva il dolore.
A volte, rimpiangevo i giorni passati in coma, con la loro totale assenza di preoccupazioni. Quelli, per me, erano stati i momenti più facili da affrontare.
Ma quella dannata voce si era presa persino il mio meritato riposo.
Quando finalmente l'acqua fu abbastanza calda, la versai nella tazza, evitando di non scottarmi per un pelo. Misi la bustina al suo interno, e agguantai il pacco dei biscotti lasciato a metà sul piano della cucina.
Presi a sgranocchiarne uno, godendomi il dolce sapore del cioccolato. Come se potesse bastare un po' di zucchero a rendere soffice la mia anima.
Forse, avrei fatto meglio a seguire la dieta che mi avevano consigliato i dottori. Ma dopotutto, riflettei, seguire i loro consigli non aveva senso. L'avevano ammesso loro, di non avere idea di come comportarsi con me. Io non sarei nemmeno dovuta essere viva.
Quindi, al diavolo le regole e i pasti sani. Mangiai altri tre o quattro biscotti, in attesa che il thè diventasse meno bollente.
Osservai piccole volute di vapore uscire dalla tazza, arricciandosi sinuose prima di svanire nell'aria. Sarebbe stato bello, poter cancellare i pensieri allo stesso modo, come fossero semplice fumo.
Decisi di portarmi il thè in salotto, finendolo in piccole sorsate, che erano esplosioni di frutti di bosco sulle mie papille gustative.
I miei occhi si persero nelle immagini della televisione, che seguivo senza apprenderne appieno il significato. Abbassai il volume finché non fu altro che un incomprensibile ronzio di sottofondo. Avevo sempre creduto che solitudine e rumore non stessero bene assieme.
Passai il restò della serata accoccolata sul divano. Ma quello non era un dolce far niente. No, era più una strana agonia che mi trascinava sempre più in fondo, facendomi affondare in un mare di nulla grigio e tempestoso.
Rimasi a fissare la televisione, come una bambola rotta incapace di muoversi, finché le palpebre non cominciarono ad abbassarsi contro la mia volontà. O forse non contro la mia volontà. Quella doveva essersi già assopita da tempo.
Mi avviai verso la mia camera a passo pesante, senza poter fare a meno di notare quanto fosse stata triste quella giornata. Priva di colori, una fotografia sbiadita in bianco e nero.
Entrai nella stanza avvolta dalla semioscurità, e il mio sguardo fu attratto dalla custodia del violino di fianco alla scrivania. Mi avvicinai piano, con la sensazione di essere come una falena. Attratta dalla luce, fino a bruciarsi.
Sarei dovuta stare lontana dai ricordi dolorosi, ma le mie dita sfiorarono la liscia superficie scura della scatola, incerte. Sentii una stretta al petto, e mi ritrovai in balia di una tempesta di vetri infranti. Ritirai la mano di scatto, ma ormai il danno era stato fatto.
Quell'ondata di sensazioni mi travolse, un uragano di emozioni che sapevano di infanzia strappata, di una vita vissuta senza il libretto di istruzioni.
Eravamo in salotto, io e papà, e la luce del sole filtrava dalle finestre aperte, illuminando d'oro i nostri sorrisi.
Mancavano pochi giorni al mio settimo compleanno, e pochissime settimane alla diagnosi della malattia incurabile di papà. Ero ancora felice, all'epoca. Una bambina spensierata con l'innocenza negli occhi e il cuore di usignolo.
Avevo appena finito di suonare, il primo pezzo con il violino senza spartito. La mia prima composizione fatta così, improvvissando, facendomi trasportare dalle mie emozioni.
Mentre l'arco sfregava sulle corde, avevo pensato alle margherite. Ai campi verdeggianti dove con nonna andavo a raccoglierle. Al profumo tenace e delicato che diffondevano nella mia camera, quando poi le lasciavo sul davanzale in bicchieri di plastica colmi d'acqua.
Era stata una melodia allegra, semplice e pura, come il battito d'ali di una farfalla. E quando avevo posato l'arco, guardando papà, i miei occhi brillavano.
«Allora, ti è piaciuta?» avevo chiesto, fremendo in attesa del suo verdetto.
Papà mi aveva sorriso, e il mio cuore si era riempito di gioia. L'espressione sul suo volto mi fece staccare da terra, volare centomila metri sopra il mondo.
«Non ho mai sentito niente di più bello, scoiattolina» disse, allargando le braccia. E io mi gettai nel suo abbraccio tiepido, che sapeva di amore e di casa.
Mi allontanai dalla custodia del violino quasi fosse una bomba sul punto di esplodere. Non mi accorsi di avere gli occhi lucidi, finché una lacrima non mi scese lungo la guancia.
Non feci nulla per asciugarla. Mi gettai sotto alle coperte, ma neppure il caldo che c'era lì sotto riuscì ad annullare il freddo che avevo dentro.
C'era caldo quel giorno di luglio, un'afa soffocante che aveva indotto me ed Ector a rifugiarci in casa, nel buio creato dalle tapparelle abbassate, che permettevano solo a deboli spiragli di luce di passare.
Eravamo in camera mia, Ector stravaccato sul mio letto, io in piedi di fronte a lui, il violino tra le mani. Ricordo che aveva ancora su le scarpe. Lo avevo implorato di toglierle, perché mamma non sopportava avere il pavimento sporco, ma sul suo viso si era disegnata un'espressione indifferente.
Mi aveva ignorata. Come una mosca. Solo che io sarei dovuta essere la sua ragazza.
Avevo cominciato a suonare, l'arco che si muoveva aggraziato sotto i miei movimenti esperti. Suonare non mi piaceva. Era per me una necessità, come respirare. L'unico modo che avevo per esprimere ciò che provavo.
Avevo suonato, per lui, per Ector. Perché credevo fosse il mio "e vissero per sempre felici e contenti". Ero solo un'illusa.
Anche in quel momento avevo pensato ai fiori. Ma a grovigli di spine e petali stracciati rosso sangue, di tutte le rose che non mi aveva mai regalato.
Quando le ultime note avevano vibrato nell'aria, i miei occhi si erano posati su di lui. In attesa.
Ector mi fissava, un sorriso arrogante dipinto sul viso.
«Ti piace?» avevo soffiato. La mia voce suonava strana, spenta.
Lui si era scostato una ciocca di capelli neri come il petrolio, prima di rispondermi. Odiavo quanto lo faceva.
«Non so se te l'ho detto, Jen, ma sei davvero bellissima»
Era stato in quel momento, che qualcosa in me si era rotto. O magari nella mia anima non c'era mai stato nulla di integro.
Io, per Ector, non ero altro che un'immagine di copertina. Eppure non mi ero mai ribellata a tutto quello.
Mi ero seduta sul letto, invece, le mie gambe a pochi millimetri dalle sue.
E l'avevo baciato. Nel modo in cui si baciano le promesse infrante, i sogni strappati dal petto con la violenza di uno sguardo.
L'avevo lasciato prendersi il possesso delle mie labbra, della mia anima.
Erano uguali, i fiori e le persone. Prima o poi appassivano entrambi, allo stesso modo.
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