Capitolo 5
Mi rifugiai in camera, la voglia di compagnia improvvisamente passata. Una sensazione gelida e strisciante si impossessò del mio corpo, paralizzandomi.
Avevo cercato di tenere lontano i pensieri, di rinchiudere le voragini che avevo nel petto, ma ora i ricordi sgorgavano, un mare d'inchiostro incontenibile, trascinandomi nell'abisso dal quale avevo cercato di sfuggire.
Era cominciato tutto a inizio agosto, quando il caldo faceva bruciare i campi e le piscine brulicavano di persone dai costumi sbiaditi.
Avevo passato l'estate con Lauren, a passeggiare tra le ombre dei boschi alla ricerca del fresco, studiando in camera mia, godendomi l'aria condizionata e i gelati del bar del centro.
Quel giorno, eravamo sedute ad una delle vecchie panchine del parco, a osservare un gruppo di ragazzi giocare a beach volley nel campo, i vestiti sportivi sgargianti che fasciavano i fisici atletici e le fronti abbronzate imperlate di sudore.
Ricordavo ancora il gusto della granita che tenevo tra le mani, un limone così freddo e acidulo da anestetizzarmi la lingua.
Io e Lauren chiacchieravamo, quando il pallone si era avvicinato ai nostri piedi. Avevo alzato lo sguardo, ritrovandomi di fronte un gruppo di ragazze sorridenti dalle gambe slanciate.
Le conoscevo, erano al nostro stesso anno, e le avevo incrociate qualche volta in giro per la scuola.
Si erano fermate a parlare, e non ricordavo come la festa fosse saltata fuori. Ma era accaduto, e quando ci avevano proposto di unirci a loro, per divertirsi, dicevano, non avevamo potuto far altro che accettare.
Non mi erano mai piaciute, le feste, non mi era mai piaciuto perdere il controllo, e questo Ector lo sapeva. Ma aveva insistito comunque. E io, avevo ceduto.
Forse, se avessi seguito i miei istinti sarebbe stato tutto diverso. Io sarei stata diversa.
Il giorno della festa era arrivato troppo presto, e in un battito di ciglia io, Lauren, Ector, e il gruppo di pallavoliste di cui non ricordavo il nome ci eravamo ritrovati sotto a un grosso tendone bianco, in quella sera di ferragosto che aveva cambiato ogni cosa.
Ricordo che la musica era così forte che sembrava rimbombarmi nel petto, come se la città avesse un cuore che battesse all'unisono con il mio.
Negli angoli della sala c'erano fari che proiettavano luci colorate sulle pareti del tendone e sulla pelle delle persone.
Era tutto troppo. C'era gente che ballava, nelle mani bicchieri di plastica ricolmi di liquidi colorati.
L'aria puzzava di alcool, e delle fragranze di tutti i profumi delle centinaia di persone che festeggiavano in quello spazio troppo piccolo.
Sentivo la pelle umida e appiccicosa, la mano di Ector sulla schiena. Gli avevo detto di non toccarmi, ma lui nella confusione non mi aveva sentito.
Non avevo mai capito, quel suo modo di comportarsi come se gli appartenessi, non finché non era troppo tardi.
Credevo di amarlo, credevo che quel ragazzo sarebbe potuto essere il mio per sempre. Il fatto di non provare nulla per lui non mi spaventava. Ero certa che l'amore sarebbe arrivato con il tempo, quando avessi cominciato a capirlo davvero.
Non mi ero accorta che l'unica cosa che sembrava importargli davvero era quanto diamine fossi bella.
Quella sera, quando mi aveva baciata, le sue labbra sapevano di fumo ed errori. Il suo alito puzzava di alcol, tanto che quando ci eravamo staccati sentivo la testa girare.
Non sapevo, come uno di quei bicchieri fosse finito fra le mie mani. Non avevo idea del perché, nonostante non avessi mai toccato una bevanda alcolica, avevo ingurgitato tutto senza fiatare.
La sensazione della birra nella pancia era stata sgradevole quasi quasi quanto il bacio di Ector. Ma non c'erano stati campanelli d'allarme.
La mia anima non aveva gridato, nessun sesto senso mi aveva avvisato che c'era qualcosa che non andava.
Era accaduto tutto per caso. O forse in realtà il caso non c'entrava nulla, ma era meglio che ammettere l'altra possibilità.
E cioè quella che qualcuno, quella sera, avesse provato ad avvelenarmi.
Avrei dovuto fargli i complimenti, perché ci era riuscito.
Non ricordavo molto, dei momenti che si erano susseguiti. Solo la forte nausea, la testa spaccata in due dal dolore. E il mio corpo tremante e scosso dai brividi raggomitolato a terra.
Quella notte ero morta, ma poi qualcosa era andato storto. Avevano sbagliato le dosi del veleno. O meglio, in realtà la quantità era perfetta, avrebbe ucciso qualsiasi altra ragazza identica a me.
Era stato un vero miracolo, avevano detto i medici, che fossi uscita viva da tutta quella storia. O forse solo una tremenda sfortuna.
Sette, era sempre stato un numero importante per me. Avevo passato sette settimane in coma, ad attendere la mia morte, certa che neppure una lavanda gastrica avrebbe potuto eliminare il veleno che mi era entrato nel corpo.
Andava bene così, mi ero detta. Avrei accettato serenamente il mio destino, senza troppi rimpianti. O, meglio, con così tanti rimpianti che si annullavano a vicenda.
Non era poi così male, quel nulla in cui mi ritrovavo. Galleggiavo in una dimensione vuota, senza pensieri. Senza preoccupazioni. Lontana da tutti. E dal dolore.
Era stata solo colpa della voce, se ero sopravvissuta. Quella voce dal timbro caldo, vibrante e sconosciuto, che mi aveva risollevata dagli abissi in cui ero caduta.
Era stata colpa di quella voce, se mi era tornata l'improvvisa voglia di vivere. Mi aveva detto che c'era una possibilità, e io l'avevo colta.
Mi sentivo persa. Mi ero inoltrata sempre di più nel fitto del bosco, smarrita nei miei dubbi e nelle insicurezze. E quando la vita mi aveva messo di fronte a un bivio, ero stata costretta a scegliere. Ma arrancavo nel buio e i rovi mi graffiavano le braccia.
Avevo preso la strada sbagliata.
Quando avevo riaperto gli occhi, avevo visto una figura vestita di ombre sfuggire lontano dal mio letto. Avevo creduto di stare sognando. O di essere morta, stavolta per davvero.
Solo qualche istante più tardi, quando il bip dei monitor aveva cominciato a torturarmi le orecchie e i dottori a parlare, uno sopra all'altro, avevo avuto la sicurezza di essere tornata.
Ma mentre questi provavano a spiegarmi che ero stata avvelenata, mentre farneticavano sul tallio e sulle neurotossine che avevano cercato di compromettere i miei sistemi, io ero caduta in una spirale di panico.
Non ricordavo come si parlava, come si camminava, non riuscivo a muovere un muscolo. Persino respirare era faticoso, i polmoni mi facevano male.
Ero stata in coma un mese e mezzo, e anche se per me era stato come addormentarmi, il mio corpo ne aveva risentito.
La riabilitazione era durata quasi due mesi, e mentre cercavo di riprendermi e i dottori mi parlavano, io escludevo il mondo che mi circondava.
L'avvelenamento da tallio non ha una cura, avevano detto. Da certe cose non ti puoi riprendere, avevano spiegato, e ogni volta che ci pensavo il mio respiro si faceva affannoso.
Avevo scelto di vivere, ma ogni cosa aveva un prezzo. Era stato in quei mesi, passate tra le pareti bianche dell'ospedale, che avevo avuto il tempo di riflettere.
Sul mio telefono, dove le uniche chiamate erano quelle di Lauren e mia madre, prima che entrambe scoprissero cosa mi fosse accaduto.
Su Ector, e sul fatto che avevo dovuto attendere la sua visita settimane.
Era stato quando l'avevo visto precipitarsi davanti alla mia camera come se si fosse dimenticato il nostro appuntamento, che avevo finalmente capito. Per lui non avrei mai provato nulla.
Ector, per me, non era nessuno. Io non avevo bisogno di un ragazzo che mi dicesse quanto fossi bella.
Avevo sempre creduto che sarebbe stato il mio principe, ma poi avevo scoperto che il lieto fine non esiste.
Nella vita reale non ci sono Biancaneve che attendono il bacio per risvegliarsi.
Così, quando Ector aveva provato a baciarmi, io l'avevo respinto. Con gli occhi vuoti, mentre nella mia anima danzava il veleno.
Avevo guardato un'ultima volta quel viso abbronzato e sicuro di sé, come se davanti avessi uno sconosciuto dai capelli neri e gli occhi verdi. E uno strano sbaffo rosso sul collo, che forse era rossetto o forse no.
Quando, con voce monocorde, gli avevo detto che lo volevo fuori dalla mia vita, lui era parso oltraggiato, più che ferito.
Non gli era mai importato nulla di me, e in quel momento ne avevo avuto la conferma.
Era stato qualche ora dopo, mentre cercavo di addormentarmi, che avevo ripensato alla voce, quella che aveva cercato di risvegliarmi...
Un ticchettio proveniente dal vetro della finestra bloccò il flusso distruttivo dei miei pensieri.
Mi alzai, dirigendomi dalla fonte di quel suono. Un piccolo pettirosso becchettava il vetro, agitato, implorandomi di farlo entrare.
«Cipì!» lo salutai, estasiata, permettendogli di saltellare allegramente nel disordine della mia scrivania.
Sistemai una ciocca di capelli dietro le orecchie, osservando l'uccellino. Aveva una zampa steccata, gliel'avevo medicata dopo averlo trovato a terra accanto a uno dei vasi di mamma.
Quando gli avvicinai il piattino di briciole che tenevo sempre per lui, arruffò le penne e cinguettò compiaciuto.
Sorrisi. Quella creatura così piccola e fragile, in qualche modo, riusciva a farmi sentire importante. Come se potessi essere ancora utile a qualcosa, in quel mondo.
«Allora, come sta il mio uccellino preferito?»
Cipì trillò, svolazzandomi attorno alla testa prima di ritornare al suo piatto.
Cipì.
L'avevo chiamato così, come l'uccellino di una storia che amavo leggere con papà. Quel nome mi faceva rivivere ricordi dolceamari, venati al tempo stesso di dolcezza e malinconia.
Guardai la foto incorniciata appoggiata sul tavolo, dove io e lui sorridevamo all'obiettivo. La me di sette anni, con le guance rosse e un colorito più sano di quello che avevo adesso, era seduta sulle gambe di suo padre.
Lui, papà, aveva l'espressione più serena del mondo, sembrava che davanti a lui, più che una bambina disordinata, ci fosse il più raro dei tesori.
Osservai il suo viso sorridente, contornato da corti capelli neri, giovane e non ancora segnato dalla malattia.
Era davvero strana, la vita, crudele. Mi faceva assaporare momenti meravigliosi, come se si divertisse a vedermi struggere quando poi mi toglieva ogni cosa.
Sfiorai la fotografia con dita delicate.
Se non fosse stato per la voce, ora sarei lì con te.
Il mio sguardo cadde sulla custodia del violino appoggiata accanto alla libreria. Realizzai che era da mesi che non suonavo. Ma in quel momento farlo mi avrebbe fatto troppo male.
«Almeno mi rimani tu» mormorai al pettirosso che zampettava tra fogli stropicciati e vecchi compiti mai consegnati.
Mi sedetti, cercando di trovare un po' di concentrazione. Se volevo rimettermi in pari con il programma, avrei dovuto cominciare a studiare.
Rimpiansi di avere lasciato nel mio armadietto i libri di quel giorno. Almeno, però, avevo un enorme volume di fisica che non aspettava altro che essere letto.
Lo aprii con un sospiro, e dalle pagine sfilò via una piccola istantanea, che volò fino a terra, leggera come una piuma. A netto contrasto con i ricordi che conteneva.
C'eravamo io e Ector, insieme. Lui teneva una mano sulla mia spalla con fare protettivo, o possessivo, ma il mio sguardo era perso altrove. Era distratto, sfocato, come se non fossi sicura di quello che stessi facendo.
E, in fondo, era proprio così. Mi ero accorta solo dopo troppo tempo, che con lui non ero mai riuscita ad essere me stessa. Forse, perché lui non era mai riuscito a vedere oltre alla pelle di porcellana e alle labbra rosso sangue.
Io ero sempre stata la sua bambola, bella e inerme. Senza un pensiero. Senza sentimenti. Senza un cuore.
Presi la fotografia, accartocciandola tra le mani prima di lanciarla nel cestino.
Avrei voluto poter fare lo stesso anche con i miei ricordi. Ce n'erano così tanti da buttare che un'intera discarica non sarebbe bastata. Purtroppo, non era possibile.
I brutti momenti non sbiadiscono, non importa quanto a lungo cerchi di ignorarli, troveranno sempre il modo di raggiungerti, e riempire la tua anima di rovi. Sono i ricordi peggiori, quelli che più ci cambiano, che ci rendono ciò che siamo.
Non da tutti i veleni ci si può riprendere, avevano detto i dottori. Ma io avrei voluto rispondere loro che c'erano cose ben peggiori del veleno, dopo le quali ricominciare era impossibile.
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