Capitolo 4

Il mio corpo era un fascio di nervi. Mi sentivo sul punto di svenire. Non riuscivo a capire, non riuscivo a pensare, non riuscivo a respirare...

C'era qualcosa che non andava. Lo sapevo. Ne ero sicura.

Incerta sulle mie stesse gambe, mi diressi in bagno. Lanciai un'occhiata fugace alle piastrelle bianche, e mi aggrappai a uno dei lavabi di ceramica, il respiro tremante, il cuore impazzito.

Avrebbe dovuto starmi lontano, come faceva sempre. I nostri mondi non si sarebbero dovuti sfiorare neanche per sbaglio. E allora perché mi aveva provocato in quel modo?

Era illogico, era pura impossibilità, era... un desiderio folle conficcato nel mio petto. Scossi la testa, cercando di scacciare le emozioni nero inchiostro che mi avevano assalita.

Aprii il rubinetto, bagnando i polsi sottili tremanti sotto il getto gelido. Il rumore dell'acqua che scrosciava sembrò tranquillizzarmi.

Non riuscivo a capire cosa uno come lui potesse volere da me.

Ma soprattutto, non mi capacitavo del perché mi avesse preso tanto alla sprovvista, il fatto di vedere quel suo lato malevolo e ammaliante.

Sarei dovuta rimanere, indifferente, ai suoi sguardi di cristallo liquido e al suo sorriso dalla dentatura perfetta. E invece...

Era come se mi avessero avvelenata una seconda volta.

Il caos nella mia testa era esattamente lo stesso.

Come se non ti piacesse...

Il suo timbro oscuro tornò a tormentarmi. Le sue parole sembravano essersi incise nella mia anima, macchie indelebili che temevo non sarei più riuscita a cancellare.

Chiusi il rubinetto di scatto, furiosa. Quanto mi sarebbe piaciuto poter rispondere a tono ad ogni suo gesto, quanto mi sarebbe piaciuto prendere a pugni quel viso perfetto...

Ma sembrava davvero che nulla riuscisse a scalfirlo.

Il mio riflesso ricambiò il mio sguardo nello specchio. I capelli neri mi ricadevano ai lati del viso in ciocche scure e ondulate, e la pelle di porcellana accentuava ancora di più le occhiaie sotto ai miei occhi.

Mi sentivo spenta dentro, ma notai che da fuori non si sarebbe visto tanto quanto avevo temuto.

Le mie iridi nocciola non avevano perso la loro vitalità, e i lineamenti sottili mi donavano un'aria delicata, come se quel volto innocente potesse in qualche modo arginare il mio carattere spigoloso.

Arricciai le labbra, che nonostante tutto riuscivano sempre ad essere incredibilmente rosse. Nel complesso, ero accettabile.

Se ci fosse stato Ector, probabilmente mi avrebbe detto che ero stupenda, ma avevo smesso di tenere in considerazione i suoi complimenti da tempo.

Sospirai. Per quel giorno, ero rimasta a scuola a sufficienza.

Scrissi un messaggio a Lauren, dicendole che ci saremmo viste l'indomani, e a passo svelto arrivai all'uscita.

Avevo lasciato il mio zaino nell'armadietto, insieme al resto delle mie cose, ma non mi importava. Volevo solo poter respirare un po' d'aria fresca e...

Davanti all'uscio delle porte d'ingresso, indugiai qualche istante, combattuta.

La me di prima non si sarebbe mai sognata di saltare le lezioni senza una valida motivazione.

Ma io non ero più la ragazza responsabile e perfetta di un tempo. La Jen solare e sicura di sé e delle sue capacità se ne era andata da un bel pezzo. O forse non era mai esistita.

Alla fine, le mie gambe mi condussero fuori da quella prigione di mattoni rossi che era la scuola.

Camminai per le strade semideserte di Apple Falls, l'aria fresca e pulita di quel Novembre inspiegabilmente mite che mi pizzicava le guance, deliziando i miei polmoni.

Costeggiai file di villette a schiere dai giardini curati, dirigendomi verso il quartiere dove abitavo, ascoltando il cinguettio degli uccelli e godendomi quelle ultime giornate assolate, in cui il sole si rifiutava di smettere di brillare.

Mi sentivo leggera, per nulla intaccata dal senso di colpa. Avevo quasi scacciato il pensiero di Hart, anche se ero sicura che presto sarebbe tornato a tormentarmi.

Casa mia non era troppo distante dalla scuola, e dopo appena qualche isolato me la trovai davanti, con la sua staccionata bianca e i davanzali pieni di fiori. C'erano vasi di diverse dimensioni un po' ovunque, e che ospitassero piccoli alberelli di limoni o profumate erbe officinali, ogni cosa era ordinata e rigogliosa.

Sorrisi, al pensiero della dedizione di mamma nell'occuparsi di tutte quelle piante. E dovevo ammettere che era piuttosto brava. Adoravo tutto quel verde. L'odore dei boccioli freschi mi faceva sentire libera...viva, come non lo ero da troppo tempo.

Aprii il cancelletto con un cigolio familiare, camminando sicura nel vialetto di pietre un po' dissestato che conduceva all'ingresso.

Una volta dentro, appoggiai le chiavi di casa sul piccolo mobiletto all'ingresso. Mi guardai attorno, nell'ambiente semplice e curato che mi circondava.

Le pareti bianche e i mobili sui toni del grigio e del beige, uniti all'arredamento essenziale ma accogliente e ai pavimenti di legno chiaro, rendevano gli ambienti non troppo grandi della nostra casa leggeri e ariosi.

Non c'era nulla di troppo, niente che opprimesse, e la luce che entrava dalle numerose finestre illuminava ogni cosa, facendomi provare un senso di pace indescrivibile.

Mi diressi in cucina, accingendomi a sistemare la tavola per l'ora di pranzo. Nel frattempo, mi arrovellai sulla scusa che avrei inventato con mamma.

Non potevo certo dirle che ero tornata a casa perché un ragazzo mi aveva infastidita. Ma era davvero quello il motivo? O era il turbine di sensazioni che avevo dentro il vero problema?

Ricordandomi la serie di bugie di cui avevo usufruito quel giorno, però, mi convinsi a dirle la verità. Ricominciare a studiare, ad andare a scuola, a stare in mezzo alla gente, a vivere...era incredibilmente stancante.

Un sospiro mi sfuggì dalle labbra, al pensiero che era appena mezzogiorno. La giornata era ancora lunga.

Finii di apparecchiare, e dopo aver rubato un pezzo di pane da una delle credenze, salii le scale per raggiungere la mia camera.

Era l'unica stanza in cui mamma mi aveva permesso di esprimere appieno la mia personalità. E il mio disordine.

Mi sedetti sul morbido tappeto bianco pieno di cuscini posizionato da una parte, vicino al muro, il mio spazio preferito per leggere. Dal lato opposto a quello in cui mi trovavo, c'era il mio letto con le lenzuola color della notte. Sopra, alcuni poster raffiguravano le costellazioni.

Ad una parete era addossata una piccola libreria, piena fino a scoppiare di libri dalle copertine immacolate. Non mi piaceva, rileggere più di una volta la stessa storia.

Accanto alla libreria, proprio sotto alla finestra, in qualche modo io e la mamma eravamo riuscite a far entrare una piccola scrivania, che era un caos di fogli e penne.

Mi abbracciai le gambe, appoggiando la testa sulle ginocchia. La stanchezza prese il controllo delle mie membra, e probabilmente mi sarei addormentata, se non avessi sentito il rumore della porta d'ingresso aprirsi e poi chiudersi di nuovo.

Scesi le scale quasi correndo. Pessima idea. A metà dei gradini, mi sentii assalire dalla nausea.

«Mamma!» salutai senza fiato la donna ferma sull'uscio, che cercava invano di mascherare la sorpresa di vedermi a già a casa.

Nelle dita sottili stringeva un sacchetto di carta bianco, dall'insegna invitante.

Io e lei ci somigliavamo, ma non come due gocce d'acqua, più come le creazioni di uno stesso artista. Entrambe avevamo quel tratto unico e indescrivibile che ci distingueva.

Avevamo gli stessi fisici minuti, entrambe con lunghe chiome color della notte, anche se i miei capelli erano più lucenti e ondulati dei suoi.

Misi su il mio migliore sorriso, sperando con tutta me stessa di sembrare sincera.

«Jen...» i suoi occhi grigi mi scrutarono, velati di preoccupazione. Era una delle nostre differenze, il colore delle iridi.

Le sue erano argentate, come lacrime di luna, ma io...io avevo gli occhi di papà.

«Tutto ok, tesoro?» si avvicinò, sfiorandomi con delicatezza lo zigomo di porcellana, quasi avesse paura di rompermi.

Non ebbi la forza di dirle che nulla ormai era più ok.

«Sì, solo... è stata una giornata pesante» mi giustificai con voce flebile.

Il suo sguardo si addolcì.

«Perfetto, allora. Ho preso due pezzi di focaccia, quella che ti piace. Solo se hai fame, ovviamente» balbettò.

Da quando mi ero risvegliata, sembrava sempre avere paura di dire la cosa sbagliata.

Io, per una volta, scelsi di abbandonare i miei modi rigidi. Costrinsi le spine e il veleno in un angolino della mia anima. Non volevo rovinare uno dei pochi momenti che potevo passare con lei.

Mia mamma era forte, e avevo preso dal suo carattere, ma non era invincibile come voleva far pensare. Dopo la morte di papà, e l'incidente...non ero sicura che fosse in grado di affrontare tutto da sola. Ma probabilmente la sottovalutavo.

Sorrisi. Il profumo oleoso delle focacce che aveva portato per me mi scaldò il cuore.

«Ti ho già detto che sei la migliore?» dissi, prendendola a braccetto e conducendola in cucina.

Lei mi strinse a sé, prendendomi alla sprovvista. Ricambiai l'abbraccio nel mio modo impacciato e spigoloso, un po' a disagio per quell'eccesso di affetto.

Non avevo mai apprezzato il contatto fisico. Dopo qualche secondo, però, scoprii che non era così male. Quando ci staccammo, fu come se un pezzo di lei fosse rimasto nel mio cuore.

Era una strana sensazione. Nonostante avessi passato un mese e mezzo in coma, non mi sembrava di aver davvero perso così tanti momenti nella mia vita. Per me era stato come dormire un po più del solito. O quasi.

Eppure, in qualche modo, una parte di me aveva sentito la mancanza di quegli attimi di serenità con la mamma.

Ci sedemmo a tavola, e mentre sgranocchiavo il mio pezzo di focaccia, godendomi il suo sapore unto e divino, le chiesi come era andato il lavoro.

Lavorava in banca, non esattamente il più eccitante degli impieghi, ma le piaceva spettegolare sulle sue colleghe.

La ascoltai mentre si lamentava del più e del meno, incantandomi nel gioco di specchi che la luce creava con i suoi occhi d'argento.

«E invece, a te com'è andata? Hai rivisto i tuoi amici?»

Quasi mi strozzai con il cibo che avevo in bocca.

«Io... sì, cioè, ho parlato con Lauren e...» mi bloccai, prima di poter aggiungere altro.

...e mi sono fatta rubare la merenda dal ragazzo più affascinante della scuola, che odio con tutta me stessa e vorrei vedere morto.

«E avete parlato di ragazzi?» chiese candida. Mi irrigidii.

«In che senso?» domandai guardinga. Senza volerlo, mi incupii.

Mamma mi guardò con un sorriso furbo.

«Un ragazzo, Jen, credo che ne avresti bisogno»

«E perché dovrei volerne uno?» domandai, acida.

Mamma non si lasciò scoraggiare nei mie modi, ma addolcì il suo tono.

«So che dopo Ector probabilmente non ti sembra una buona idea, ma ti farebbe bene, conoscere gente nuova e poi...»

«No» la fermai. Il cuore mi si stava stringendo di nuovo in quella morsa di rovi che tanto avrei voluto scacciare.

«É solo che...hai sedici anni, Jen. Vorrei che vivessi appieno la tua vita» disse lei. Sembrava triste, dispiaciuta. Probabilmente la stavo deludendo.

Doveva essere una vera sfortuna, avere una figlia come me.

«E lo farò, te lo prometto» dissi, alzandomi. La sedia strusciò, come a voler sottolineare le mie parole.

Quando avevo quasi superato la porta, mi voltai un'ultima volta verso di lei.

«Ho solo bisogno di tempo» sussurrai.

Ma non ne avrei mai avuto abbastanza.

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