X. Il teorema del sorriso suo

Koko si era addormentato. Lo aveva osservato chiudere gli occhi, ancora arrossati dal pianto e la bocca tremante. Si era appisolato sulle sue ginocchia e Inui gli aveva accarezzato i capelli.

Un gesto dolce, dettato dall'amore che provava per lui. Amore che a quanto pare non sembrava pienamente corrisposto.

Ora che ci pensava, mentre le sue mani accarezzavano la pelle liscia del suo fidanzato, lui non gli aveva mai neppure detto che lo amava. L'unica volta in cui pareva intenzionato a dirlo, era stato Inui stesso a zittirlo. Non sapeva perché, ma sentiva di non meritare quel tipo di amore, sentiva che nulla era giusto se non il disprezzo che sempre avevano ostentato per lui. A partire da suoi compagni di scuola quando era solo un bambino, fino al suo datore di lavoro, che non faceva che guardarlo languido e che alla fine avrebbe voluto abusare di lui come fosse stato un oggetto osceno.

Come se lui se lo fosse meritato.

Ogni cosa nella sua vita pareva esserle stata concessa come un dono, un ostentare simile ad un genitore severo che gli sbatteva in faccia una spesa costosa fatta appositamente per lui.

"Sta zitto Seishu, e ringrazia per quello che hai. Ringrazia che ti rimanga vicino, nonostante non ti ami."

Gli accarezzò i capelli, con i polpastrelli morbidi e la bocca che si chinava a baciargli la fronte nivea. Non voleva lasciarlo, ma c'era un tarlo che lo continuava a corrodere come se necessitasse di cibo.

Un luccicchio catturò la sua attenzione. Spostò lo sguardo in direzione di quell'oggetto, la tasca della giacca di Koko pareva contenerlo da un po'. Si scostò piano da lui, poggiandogli il capo contro un cuscino e districandosi dall'incastro che le dita avevano assunto attraverso i suoi capelli.

Arrancò in direzione della giacca e ci frugò dentro, estraendo quell'oggetto col pugno chiuso. Lo sentiva freddo e rigido al tatto, e deglutì, temendo di sapere cosa fosse.

Lo aveva capito ancor prima di arrivare a prenderlo.

«Inui... che fai tesoro?».

Socchiuse gli occhi, percependo il tono arrocchito del suo fidanzato, leggermente esitante. Avrebbe voluto poter stare zitto, poter frenare quei sentimenti che gli bruciavano lo stomaco e la lingua. Ma non era mai stato così tanto paziente, sentì il bisogno di sputarli a terra, spargendoli sul parquet come un puzzle da incrociare.
Si voltò, incastrando lo sguardo nelle iridi cerulee di Koko, la bocca pastosa e il tono troppo represso gli uscì raschiato.

Come se delle unghie lo stessero logorando dall'interno.

«Perché tieni l'anello di Akane, Hajime? Perché conservi il sigillo del vostro amore?».

Lo guardò torvo, una scia di dolore che non riuscì ad ingoiare gli attraversò le iridi. Trattenne a stento un singhiozzo con la consapevolezza che si faceva spazio in lui.

«Inui... posso spiegare-»

«Ma spiegare cosa?!» strillò. «Cosa vuoi spiegarmi, Hajime? Perché continui a non volermi dire la verità? Perché sbagli a chiamarmi e-e...»

Koko gli si accostò, gli occhi lucidi e le mani tremanti che cercavano di prendere le sue. Inui lo scansò con un gesto sussultante, la bocca che gli si stirava in una smorfia sofferente.

«Seishu... ti prego, non...»

«Non cosa? Cosa vuoi che faccia? Che stia zitto e continui ad essere la tua riserva?! Come lo sono sempre stato, no? Mi spiace, Koko. Non ne posso più.»

Lo vide sbarrare gli occhi, il cuore che prese a scandire un ritmo forsennato come se gli stesse scalando la bocca. Distolse lo sguardo, sospirò. Quando tornò a fissarlo ancora, c'era qualcosa di fragile nel modo in cui respirava.

«Mi ami, Koko?»

La bocca di Koko fece una smorfia, - Inui si disse che era di dolore, non avrebbe sopportato che non lo fosse - i suoi occhi felini vacillarono. Gli si avvicinò, seduto contro il parquet, entrambi in ginocchio con le fiamme del camino come unica fonte di luce.

Le iridi di Hajime parevano fatte di vernice blu, sciolte e compatte.

Gli accostò un palmo al viso, un sorriso dolce ad increspargli le labbra. Aveva le mani calde come due tizzoni di fuoco. Poi, come un boia che si assicura che tu abbia messo la testa nel giusto ceppo di legno, gli diede il colpo di grazia. Uccidendolo così come lo aveva riportato a vivere.

«Ti amo Inui, ma non sei lei.»

🌫️

Lui a quella cena neppure ci voleva andare. Era stata sua madre a chiamarlo, a pregarlo di presentarsi.

"È così tanto tempo che non vedi tua sorella... lo sai che poi Akane ripartirà per la Germania... solo stasera." lo aveva pregato. Inui non era mai stato bravo a dire di no, colpevole poi anche il suo senso di colpa per non aver più rivisto sua sorella, non aveva potuto fare a meno di presentarsi.

Si era infilato in doccia con le gote ancora umide di lacrime; aveva passato le ultime settimane barricato in casa senza neppure uscire a fare la spesa; ci aveva pensato Chifuyu che lo aveva guardato sempre con un cipiglio preoccupato, come se temesse di vederlo svenire da un momento all'altro. Gli riponeva sempre la spesa lungo gli scaffali, sistemava la cucina e gli lavava i piatti che si accumulavano nel lavabo ogni giorno di più. Inui non diceva nulla, lo ringraziava solo quando alla fine, Chifuyu si asciugava le mani al cannovaccio e si sedeva accanto a lui, sul divano a due piazze.

"Come ti senti oggi?" gli chiedeva, con i palmi nivei posati in grembo.

"Sempre uguale, Chifuyu." enunciava lui, gli occhi fissi sulla stessa parte della casa, un punto indefinito che non guardava neppure.

Chifuyu non gli chiedeva più nulla. Gli raccontava come stava andando alla comunità in cui lavorava, dei pazienti che stavano piano piano riuscendo a disintossicarsi, delle sue recenti uscite con Takemichi che stava per sposarsi con Hina ma che continuava a pensare a Mikey, alla loro precedente "infatuazione". Gli raccontava di come il cielo sembrasse piegarsi ai suoi piedi quando Baji gli sorrideva e di come il mondo stesse avesse smesso di girare quando avevano comprato casa insieme.
Chifuyu, si era reso conto Inui, era felice. Soddisfatto della vita che era riuscito a costruirsi, mattone su mattone, anche se si era dovuto scavare la pelle e ferire tutte le nocche. Chifuyu nella sua vita aveva sempre lottato, non si era mai dato per vinto, non si era mai arreso.

Inui non ci riusciva.
Ogni volta che lottava, finiva per perdere ogni cosa che aveva acquisito e anche quello che credeva di non poter più perdere. Ogni volta lasciava che si prendessero un pezzo di sé e ne restava vuoto e derubato come una vittima di un incidente troppo grave.

Aveva preparato i cupcakes da portare a casa dei suoi genitori e la torta all'arancia che amava Akane, apposta per sua sorella. Aveva impacchettato tutto, si era disegnato un sorriso fintissimo sulle labbra e aveva fatto sparire le occhiaie - così nere da sembrare quelle di un panda - con del buon correttore.

Poi, aveva semplicemente camminato.

Camminato lungo la strada, sui marciapiedi affollati dalle persone, con le luci del Natale che parevano illuminare qualunque anima, anche quella più scura e i bambini che ridevano, con le lecca-lecca strette nelle mani appiccicose per via dello zucchero sciolto.
Aveva guardato assente e quasi malinconico, le persone che stavano intonando i canti di Natale, i loro sorrisi felici, i denti scoperti da quella smorfia.
Non ci sarebbe riuscito più a sorridere così, non dopo averlo perso per sempre.

Aveva raggiunto casa di sua madre dopo una mezz'oretta, gli occhi azzurri arrossati dal troppo freddo e le punte delle dita ghiacciate. La sciarpa rossa non gli copriva abbastanza le labbra con il risultato di fargliele diventare ancora più rosse.

La villetta dei suoi genitori era sempre uguale, l'avevano comprata qualche tempo addietro, pochi anni dopo che lui si era trasferito. Era una bella struttura di cemento armato, rivestita con i mattoni e un delizioso porticato, minuto di giardino e una folta siepe divisoria. Era costata una bella fortuna a suo padre, ma gli anni di sacrifici erano bastati a ripagarla.

"Ci stiamo facendo vecchi, vogliamo restare accanto a te in caso accadesse qualcosa." aveva detto suo padre quando lui gli aveva posto il quesito.

Inui avrebbe voluto ribattere, dire quello che si dice sempre in queste situazioni: "papà non morirete, siete giovani, non dire così!" ma non aveva avuto le forze di replicare. Aveva annuito, anche allora profondamente obbediente, quasi assoggettato a quella realtà illusoria che gli si stendeva attorno.

Aveva bussato al campanello, osservando con occhio pigro le piantine sempreverdi di sua madre poste agli angoli del portoncino blindato, - una sicurezza in più - e con la mano ancora sospesa a mezz'aria, aveva aspettato. Il cuore gli batteva così forte mentre si accingeva a stamparsi un bel sorriso sulle labbra - in modo tale che nessuno dei suoi parenti potesse chiedergli se non stava bene - che quando gli aprirono la porta, restò per un attimo paralizzato.

Si era sempre vantato di essere apatico quando si trattava di tristezza, di dolore immenso, ma se i visi potessero parlare, il suo in quel momento avrebbe senza dubbio urlato. Urlato così forte da far risvegliare anche la sua coscienza appisolata contro la sua anima. Avrebbe urlato e col cazzo che sarebbe entrato in quella casa; se la sarebbe data a gambe, avrebbe corso fino a farsi cedere le ginocchia, fino a crollare in ginocchio col fiatone e gli occhi lucidi dallo sforzo. Ma caso volle che non ne fu in grado.

Il suo corpo si rifiutò di muoversi.

Lo vide a rallentatore davanti a sé, prima il suo sorriso smagliante, quello finto, che scompariva piano piano, ogni secondo in cui le sue pupille scivolavano sempre più sul suo viso. Lo vide prendere consapevolezza, con le mani ancora posate sul portoncino ormai semiaperto e gli occhi che si sgranavano di botto come se stesse osservando qualcosa di indesiderato.

Lui anche se ne rese conto.
Ragionò appena, mentre il suo cervello pareva perdere fumo dalle orecchie, infiammarsi e cercare di smorzarsi, deglutì; anche se aveva la gola secca e il battito che pareva risalirgli in gola.
Se lo era ritrovato lì davanti, con quel viso che pareva uscito da una una statua greca e gli occhi grandi come quelli di un gatto.

E Inui si sentì morire.
Lo odiava, lo odiava così tanto che avrebbe voluto sollevare la mano e colpirlo in pieno viso, specialmente quando dietro di lui comparve Akane, col suo rossetto rosso amaranto e le unghie a tinta unita posate sulla sua camicia, sulla sua spalla, come se potesse reclamarlo suo col solo tocco delle sue mani. Come se non gli servisse granché per rivelare al mondo che Koko Hajime era suo, che suo fratello poteva averglielo tenuto buono mentre lei non c'era, ma che quello che avevano avuto restava insignificante e privo di senso.

Era stato così sciocco a credere di poter avere Koko, così scemo da risultare solo... stupido. Stupido, irragionevole, un bambino che corre appena vede sventolare una caramella.
E Koko non era solo una caramella, ma un intero pacco di cioccolatini variegati, ogni sfumatura diversa dall'altra, ogni pezzo che si distingueva per sapore, dimensione e colore.
Si sentiva quasi sul punto di sprofondare nel terreno, magari il portico di casa dei suoi genitori fosse stato un po' più leggero così che sarebbe caduto davvero di sotto. Nel fango, nella terra, dove meritava di stare.

Purtroppo i suoi sogni non si realizzarono, anzi, l'incubo iniziò proprio quando Akane gli si avvicinò con il sorriso sulla bocca carnosa e gli occhi che parevano luccicare, Inui lo vide.
L'anello al suo anulare che luccicava come un trofeo, come un tatuaggio indelebile. Ci lesse la sua condanna nel riflesso degli occhi di Hajime, il dolore che stava provando lui e solo lui.

Koko si era fidanzato con sua sorella e non gliene aveva neppure fatto parola.

«Fratellino, entri?».
Akane gli sorrideva aspettando che entrasse in casa, nella tana del lupo.

E Inui, che a farsi male era diventato un campione si gettò nelle fauci del drago senza pensarci due volte. Sorpassò l'uscio ricambiando appena il saluto di sua sorella e col cuore che pareva voler essere rigettato sul pavimento, ignorò Hajime. Percorse il familiare corridoio di casa, col passo che pareva quello di un soldato mandato a morire e si diresse in salotto.

E Inui si sedette, fece il bravo. Sorrise a sua madre, ascoltò suo padre parlare dell'azienda che aveva messo su, una cerchia ristretta di amici che si occupano di canne da pesca e barche, annuì a sua sorella quando gli parlò delle sfilate a cui aveva preso parte e mangiò il cibo che gli poggiarono nel piatto. Avrebbe vomitato sangue e alimenti a casa, quando sarebbe stato da solo.
Quando avrebbe potuto piangere e rompersi il cuore pezzo per pezzo, lì non aveva le pezze per ripararsi.

Mangiò, sorrise, ascoltò.
Sembrava andare bene, finché Akane non disse quella frase. Stavano tutti mangiando, perciò ci volle qualche secondo prima che Inui potesse captare il significato di quelle parole.

«Hajime, la prossima stagione dicono sia molto propizia per i matrimoni. Potremo sposarci a Maggio, con i ciliegi in fiore... che ne dici tesoro?».

Akane lo aveva detto con un tono così naturale che per qualche secondo suo fratello fece fatica a ricordarsi il significato di quel verbo. Sposarsi, legare la tua vita a qualcuno, legare la tua salute, i tuoi interessi bancari e ogni tua più piccola imperfezione a qualcun altro.

Inui da bambino sognava di sposarsi con un bel principe azzurro, con gli occhi color mare e il cuore gentile. Qualcuno che avesse le braccia forti come il suo papà, ma una salute migliore, che fosse bello come la sua mamma ma non troppo. Voleva qualcuno che gli leggesse negli occhi ogni volta che qualcosa andava bene o male.

Poi, era arrivato Koko.
Il suo principe azzurro. Bello, ricco, perfetto. E Koko Hajime aveva preso il suo cuore e ci aveva intagliato sopra il suo nome. Si era fatto spazio nel suo petto fino ad assumere le dimensioni delle sue vene e ci si era tuffato dentro.

Radicato a fondo come un albero nel suo petto.

«Koko preferisce la neve.»

Gli occhi calarono tutti a picco sul suo viso, sulla sua testa chinata contro il piatto e la forchetta ancora stretta nel suo palmo, sospeso a mezz'aria. C'era qualcosa nella sua gola, come un boccone incastrato che gli impediva di respirare per bene.

«Cosa?» biascicò Akane, la fronte solitamente impeccabile, corrucciata. Improvvisamente sua sorella non gli pareva più tanto bella.

Guardandola si rese conto che Akane, aveva sempre saputo. Sapeva eccome quello che lui provava, lo intuiva dal modo in cui lo stava guardando, dal sorriso scomparso e dai suoi occhi che parevano urlare la stessa cosa che provava lui stesso. Io lo amo.
Capì che sua sorella sapeva da sempre che Koko avesse quel debole per lei e che al contempo, riservasse certe attenzioni perfino al suo fratellino, a quel ragazzino che lei stessa aveva disprezzato per un po'.

Akane gli voleva bene, ma era innamorata. Innamorata cotta di Hajime, così come lo era lui.

Entrambi non facevano che cercare frammenti di Koko in ogni parte del mondo e delle cose, come se solo in Hajime potesse esserci la risposta alla vita e alla morte. Loro lo amavano.

E la consapevolezza lo colpì come un gladiatore che con la sua spada gli infilzava il cuore. Scese assieme al suo sangue dentro i ventricoli del suo cuore e gli pompò la vita nelle vene.
Koko non era una parte di sé, Koko era tutto. Era il suo porto sicuro quando la tempesta lo affondava e quando i suoi occhi rendevano il mondo un apocalisse. La consapevolezza che per niente al mondo avrebbe fatto tanto male quel vuoto dentro.

Io lo amo più della mia stessa vita, realizzò con orrore. Lo percepì il suo sguardo addosso come una lucertola che sguscia sui muri e si arrampica, allo stesso modo Koko gli si era arrampicato nella testa. Non c'era più niente prima di lui e del suo amore.

Non riuscì a resistere oltre. Facendo strusciare la sedia contro il pavimento liscio, si alzò in piedi. Biascicò uno "scusate" ai membri della sua famiglia e senza neppure guardarli, corse via.
Fece il corridoio senza neanche guardare dove stava mettendo i piedi, col rischio di cadere e rompersi qualche arto.
Non gli importava più. Tanto meglio soffrire che pensare a quello.

A Koko accanto a qualcun altro che non era lui, a Koko che sorrideva a qualcuno che non era lui, che si scopriva con qualcun altro, che faceva sembrare il mondo una manciata di corriandoli, che rendeva bello perfino un lunedì pomeriggio piovoso.

Koko avrebbe sposato Akane. La consapevolezza lo colpì ancora, come una cesoia che continuava a mozzare rami del suo cuore e gli spezzava le costole con i suoi pugni potenti.

Il freddo pungente di Dicembre gli punse le guance. Era corso in strada senza neppure recuperare il suo cappotto. Aveva ancora il fiatone quando si sentì abbracciare. Braccia che lo tenevano premuto contro qualcosa di caldo e capelli che gli solleticavano il collo scoperto. Con gli occhi chiusi il suo profumo gli riempì ancora di più le narici. Lo sentì mescolarsi al vento che assunse il suo sapore.

«Inupi...»

Tirò su col naso, avvolgendogli le braccia. Infilò le unghie nella carne dei suoi dorsi delle mani.

«Non chiamarmi più così.»

Non lo allontanò, non ne aveva le forze, non lo voleva lontano nonostante gli avesse strappato il cuore come una bambolina di pezza. Voleva fargli male anche lui, voleva che Koko lo guardasse negli occhi e ammettesse le sue colpe. Che lo pregasse di non lasciarlo più. Perché, Inui gli avrebbe creduto, poco importava l'orgoglio e quelle cazzate varie. Non ce l'aveva mai avuto un buon esempio, l'amore dei suoi genitori non era questo, non era scottante come il calore che solo Koko gli trasmetteva.

«Dimmi... c-che mi ami e che questo... q-questo...». Gli si spezzò la voce. Ma cosa sto dicendo? Cosa sto pensando?

Si sottrasse alla presa di Koko, lo spinse lontano con i palmi ancora poggiati contro il suo petto e gli occhi rossi di lacrime.

«Vattene!» gli urlò contro. Gli scagliò un pugno, non lo guardava davvero negli occhi, come se stesse parlando con un fantasma. Non ci credeva più.

Né a sé stesso, né a Koko.

«Inupi... ho chiamato così la mia azienda. Ho capito che eri la cosa più importante della mia vita quando ti ho perso. Forse sono fin troppo scontato Inui, forse sono tutto ciò da cui devi fuggire. Non sono degno di te, non lo sarò mai. Tu meriti molto di più qualcuno come te stesso, qualcuno che ti ami più della sua stessa vita, non qualcuno come Koko. Come il manipolatore che sono, il mostro che tu ami comunque. Dimmi Inui, tu mi ami ancora? Perché a volte, penso che preferirei morire piuttosto che-»

«L-lasciarti.»
La concluse Inui quella frase, la frase che gli aveva ripetuto lui stesso quando facevano le scuole superiori, quando Koko si stendeva sul letto con lui e guardavano il soffitto insieme.

«Sono sempre stato innamorato di te, Koko. S-sei tu che... che non mi ami.»

Lo vide avvicinarsi Koko, lento e tremante come poche volte lo aveva visto. Chinarsi sulle ginocchia, sulla neve gelata, incurante del completo che gli era stato sicuramente cucito su misura dai migliori stilisti del paese. Nel vederlo così, Seishu non riuscì ad esalare niente dalle labbra, nemmeno il fiato.

«Inui. Sono un innegabile pezzo di merda, faccio errori e poi vengo a piangere da te, ti prego e tu mi perdoni. Sei forte, amore mio, lo sei sempre stato. Sono io quello codardo, quello bastardo e incoerente, quello che sbaglia. Però, Seishu Inui, se c'è una cosa che ho imparato e capito, è che non è Akane che voglio al mio fianco per tutta la vita.» Fece per interromperlo Inui, ma Koko fu più svelto gli fece un piccolo cenno e riprese a parlare. «Se solo tu mi avessi fatto finire di parlare quel giorno, davanti al camino di casa tua, ti avrei detto che non intendevo sposare Akane, ma te. Che per quanto io ami lei, tu mi sei... mi sei perforato dentro, in qualunque parte del corpo. In ogni forma. Se piangi, piango anch'io, amore mio. I-io... amo te, Inui.»

Non seppe perché, ma Inui gli crollò vicino, inginocchiato su suoi piedi come un fiore colto. Gli occhi che grondavano lacrime.

Gli prese la mano, incastratò l'anima nei suoi occhi azzurri.

«Koko... ti amo anch'io, ma non mi lasciare mai più.»

Koko gli sorrise, poi lo baciò. Sotto il portico, con le luci del Natale vicino, le mani gelate e la bocca priva di respiro.

Lo amava. Bastava, gli bastava.







FINE🧡

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