Epilogo -Parte 2-
(POV Blake)
Jonas guida, senza aprire bocca. È per quello che è successo a Mike? Se sapesse cosa mi ha fatto quel pezzo di merda ne sarebbe sollevato. Certo, non pensavo provasse rimorso. Beh, non è detto che si sia ammazzato per quello che mi ha fatto.
La strada scorre veloce sotto le ruote dell'auto e fuori dal finestrino la città sembra un nastro di luci e ombre che si schiantano sulle superfici lucide delle macchine parcheggiate e sui vetri dei palazzi. Io e Victor ce ne stiamo sul sedile posteriore, stretti come se volessimo proteggerci dal mondo. Scomparire l'uno addosso all'altra. Le sue dita intrecciate alle mie, calde e ferme.
«Grazie per aver scritto i testi,» sussurro, abbassando lo sguardo sulla nostra stretta.
Victor sorride. «Sono mesi che mi ringrazi, Blake.»
«Perché se non fosse per te, la band non mi avrebbe mai presa.» Lo dico perché è vero. Perché senza di lui quei testi non avrebbero mai avuto la mia voce. Non puoi cantare, se non hai una canzone. E io non le so scrivere.
Victor si piega verso di me, mi bacia sul collo, il suo respiro mi solletica la pelle. Rido, perché non so come altro reagire al calore che mi lascia addosso.
Davanti al locale, Jonas accosta. «Vi lascio qui, vado a cercare parcheggio.»
«Okay, ci vediamo dentro,» apro la portiera.
Victor scende dopo di me, ci muoviamo veloci sul marciapiede affollato. Fuori dal Dragonfly è già pieno di gente, una fila si snoda lungo il muro, ragazzi e ragazze che fumano, parlano, ridono, si passano sigarette e bicchieri di plastica pieni a metà. L'aria ha quel sapore acre di smog e attesa.
Entriamo in una vecchia fabbrica riadattata, pareti di mattoni a vista e un soffitto così alto che sembra perdersi nel buio. Le luci soffuse tingono l'ambiente di rosso e arancione. C'è odore di birra e superalcolici, ma in qualche modo riesce a non essere fastidioso.
Victor si ferma vicino al bancone, accanto a un gruppo di ragazzi che chiacchierano a voce troppo alta. «Ti aspetto qui,» mi fa un cenno verso il piccolo corridoio che porta al backstage.
Annuisco e gli lascio un bacio veloce sulle labbra prima di girarmi e dirigermi verso la porta in fondo alla sala. La spalanco senza pensarci troppo.
Liz, Mona e Mary sono già lì. Liz è china su un tavolo traballante, il naso attraversa uno specchietto per il trucco e tira una striscia di coca. Mona sta fumando nell'angolo più buio della stanza, frugando distrattamente in una borsa aperta ai suoi piedi. Mary è seduta su una sedia di plastica con una birra in mano, le gambe accavallate e un'espressione annoiata stampata in faccia.
«Che c'è, l'hai finita, che mi guardi così?» mi chiede Mona con una risata, gli occhi socchiusi mentre butta fuori una nuvola di fumo.
«Lo sai che non posso portarmela a casa,» cerco di tenere un tono leggero.
«Perché ti scopi due cani antidroga,» replica lei, ridendo più forte.
No, che non me li scopo. Non è così semplice.
Rido anch'io, ma è una risata forzata, di quelle che ti escono solo per evitare che qualcuno si accorga di quello che provi davvero. Nella mia testa lampeggia un ricordo: io e Jonas seduti su quella vecchia panchina della scuola, il cielo grigio sopra di noi, lui che accende uno spinello e me lo passa senza dire niente. Mesi dopo, io che prendo una pasticca di ecstasy dalle sue mani, la mando giù e ppi scopiamo in palestra. Ma adesso... no, nemmeno Jonas capirebbe quello che sto facendo.
«Ce n'hai un po'?», provo a non sembrare troppo disperata.
Mona allunga una bustina piccola, trasparente, che contiene appena una spolverata sul fondo. «Fattela bastare,» dice, «se te ne fai di più, invece di cantare biascichi. Con quella, invece, te ne stai tranquilla e le cose vanno lisce.»
Annuisco, stringendo la bustina tra le dita. Mi basta sapere che ce l'ho.
Le altre non dicono niente mentre la infilo nella tasca della giacca. Liz ha finito la striscia, si alza e si sistema il naso con il dorso della mano. Mary sbuffa e finisce la birra in un solo sorso, poi si alza anche lei. Mona continua a fumare, lancia un'occhiata verso di me e sorride. Si diverte, si gode lo spettacolo di me che cerco di restare in piedi senza cadere a pezzi. Sta contando i secondi in cui riesco a resistere senza prenderla.
Liz si gira e mi lancia un'occhiata lunga, carica di quella superiorità che riesce sempre a sbattermi al muro. «Con quella roba si crepa.»
Sbuffo, cerco di non darle troppa soddisfazione. «Pure con la coca.»
Mona butta fuori una nuvola di fumo denso e ride, una risata bassa, un po' roca, che sembra quasi complice. «Finché non te la fai in vena, l'eroina è una cosa come un'altra.»
L'eroina. Quando Mona pronuncia quel nome lo fa sembrare più grave di quello che è. Ma alla fine non è niente di speciale, mi serve a stare tranquilla. A dimenticare tutta la merda che c'è lì fuori. Mike, Trevor e Maggie. E il fatto che Victor non abbia più provato a sfiorarmi. Mi bacia a fior di labbra come se fossi una bambina. No, come se fossi un'appestata.
E Mona ha ragione. Noi non siamo come quei tossici che si perdono davvero, quelli che vivono per strada con le braccia livide e gli occhi vuoti. Noi non ci buchiamo. Noi siamo ancora al sicuro.
Raccolgo la polvere dal fondo della bustina con il mignolo e la sniffo, veloce, senza pensarci troppo.
«Torniamo di là,» mi volto verso le altre. Liz e Mona annuiscono. Mary finisce di bere e ci segue senza fiatare.
Attraversiamo il corridoio stretto che porta alla sala principale. Le luci rosse colorano tutto dandogli un'atmosfera surreale. Il palco è piccolo, appena rialzato dal pavimento. Ci avviciniamo e cominciamo a montare gli strumenti.
Liz tira fuori la sua chitarra da una custodia nera e consunta. Le sue dita scorrono rapide lungo il manico mentre la accorda con precisione maniacale. Mona sistema la batteria, ogni colpo di bacchetta che risuona scandisce il tempo che ci separa dal momento in cui tutto avrà inizio. Mary, invece, rimane in disparte, appoggiata a un amplificatore, con l'aria di chi aspetta solo che qualcuno le dica cosa fare.
Io prendo il microfono. Il filo si attorciglia tra le mie dita mentre lo sistemo sull'asta. Lo stringo forte, cercando di concentrarmi su quel contatto, sul metallo freddo contro il palmo della mano. Ma la mia testa è altrove.
Mike.
Mi torna in mente la faccia di Jonas davanti alla TV, quella sua espressione strana, sospesa, quando ha detto che è morto. Respiro a fondo, cercando di non pensarci, ma è impossibile. Mike è morto. Non c'è più. Quel pezzo di merda disgustoso non cammina più su questa terra.
Non so cosa dovrei provare. Sollievo, forse? E se non fosse per quello che ha fatto a me che si è tolto la vita? Se ci fosse qualcos'altro dietro?
Mi stringo nelle spalle e guardo le altre. Hanno finito di sistemare tutto. Liz fa un cenno verso Mona, e lei comincia a colpire i tamburi per provare l'acustica.
E poi lo vedo.
Jonas entra dalla porta in fondo al locale. La luce alle sue spalle lo incornicia, creando un alone dorato attorno ai suoi capelli che stanno ricrescendo, proprio come i miei. Sembra un angelo. Un angelo caduto, con quel suo sguardo serio, come se portasse sulle spalle tutto il peso del mondo.
Il ragazzo che ho conosciuto non esiste più. Qualcosa di oscenamente oscuro ha preso il suo posto. Sembra più simile a Victor che a se stesso.
Mi ritrovo a fissarlo più del necessario. Il cuore mi batte forte, non per lui, non per la sua bellezza, ma perché rivedo quella scena nella mia testa. Lui, lì davanti alla TV, e quella frase che mi si è piantata come scheggia sotto le unghie: Hanno trovato Mike. È morto.
Resto immobile e respiro a fondo. Mike è morto. Non tornerà mai più. Respira, Blake.
Mi chiedo se Victor c'entri qualcosa. E Jonas, se lo sarà chiesto anche lui? Ne avranno parlato mentre ero in soffitta?
La voce di Liz mi riporta alla realtà. «Blake, sei pronta?»
Annuisco, anche se pronta non lo sono mai stata. Mi avvicino al microfono e faccio un cenno a Mona. Lei mi risponde con un colpo secco sul rullante. Il suono rimbalza sulle pareti del locale, riempiendo lo spazio di una vibrazione che si insinua tra le costole.
Victor è ancora lì, accanto al bancone, mi guarda e sorride appena. E per un attimo tutto sembra tornare a posto. Non importa quello che è successo. Non importa chi è morto, o chi è ancora vivo. Non importa nemmeno la merda che mi porto dentro. Perché adesso sono qui, su questo palco, e per la prima volta da tanto tempo, mi sembra di essere davvero dove dovrei essere.
Tra mezz'ora il locale sarà pieno, ma la mia testa comincia già a svuotarsi. È strano. Prima c'era tutto quel casino, voci che si sovrapponevano, il rumore delle bottiglie dietro il bancone, il suono delle bacchette di Mona che colpivano il rullante. Ora, invece, è come se qualcuno avesse girato una manopola e abbassato il volume del mondo.
Dentro la mia testa c'è solo zucchero filato. Una nuvoletta rosa che fluttua pigra, si sfilaccia e si ricompone senza sosta. Leggera, impalpabile, dolce. Il peso che sentivo sul petto fino a un attimo fa è sparito, come se qualcuno l'avesse portato via mentre non guardavo. Le mie mani smettono di tremare, il cuore rallenta, e tutto quello che rimane è questo senso di calma assoluta. È come galleggiare in una piscina tiepida, con l'acqua che ti sostiene mentre il mondo si dissolve e le spine escono dal corpo.
Le luci del locale iniziano a cambiare, si accendono in sequenza, arancioni, poi viola e ancora rosse. Si riflettono sul pavimento di legno lucido, sulle pareti di mattoni grezzi. Il Dragonfly è sempre stato così: un mix di calore e cemento, luci colorate e gente che cerca di dimenticare qualcosa. Le persone cominciano a entrare, poche alla volta, ma diventano sempre di più.
Piombo in un film proiettato al contrario. Torno all'inizio, a quella balaustra a casa di Jonas. Noi tre, ancora intatti. Tre cristalli limpidi.
Integri.
Noi tre.
Apro gli occhi e Jonas è al bancone, riconosco quella sagoma, dal modo in cui si appoggia con un gomito e osserva la stanza. Fermo, ma con quella tensione sottopelle. Victor gli sta accanto, le mani nelle tasche dei jeans, la schiena contro il bancone. I suoi occhi incontrano i miei attraverso la sala e lui mi sorride.
Poi succede.
Le luci si abbassano. Tutto si ferma per un istante. Mi avvicino al microfono e il mondo si sposta su un altro piano. Il mio respiro diventa lento, profondo, e quando apro la bocca per cantare, è come se le parole non appartenessero più a me.
La prima nota della chitarra di Liz risuona nell'aria. È una vibrazione morbida, che si allunga e si spezza sul fondo del mio cuore. Poi entra la batteria, un ritmo regolare che rimbalza nel petto e si prende i miei organi. La mia voce si unisce al loro suono, si mescola a tutto il resto, e per un momento non esisto più.
Ogni cosa diventa liquida. Le luci si infrangono sul pubblico come onde che si scompongono e si ricompongono in mille sfumature. Ogni volto diventa una macchia indistinta, un'ombra che vibra al ritmo della musica.
Divento leggera, troppo leggera.
Divento niente.
Le parole che Victor ha scritto per me scivolano via dalla gola. Vorrei tenermele dentro.
Tenere per sempre ogni cosa di lui.
Noi tre.
Prima che il male ci scovasse.
Ogni parola che canto sembra staccarsi da me e fluttuare sopra le teste della gente, la mia voce è una bolla di sapone pronta a scoppiare.
Il microfono è caldo adesso, o forse sono io che brucio.
SPAZIO AUTRICE: Avevo un po' di tempo, così ho deciso di sistemare anche questo capitolo ^^
Ora è ufficiale, manca un'unica parte alla fine.
Vorrei dirvi che il testo è già pronto, ma la verità è che l'ho soltanto scalettato, quindi so cosa accade, ma ancora non l'ho scritto.
Nonostante il dolore di questi personaggi, le loro scelte, e la pesantezza degli eventi, io spero che questa storia possa piacervi fino alla fine.
Un abbraccio e un arrivederci all'ultimo capitolo,
Will
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