65 - Come As You Are -

(POV Jonas)

Il cancello della scuola cigola alle nostre spalle. Il sole del primo pomeriggio emana il suo lieve tepore nel cielo pallido. Blake cammina accanto a me, i suoi passi avanzano lenti, quasi trascinati, e il silenzio tra noi diventa una nuvola densa piena di non detti.

Prendo la sua mano, stringo le sue dita fredde tra le mie. «Ce l'hai ancora il volantino di quella band?»

Blake mi guarda, sorpresa, come se non si aspettasse che ne parlassi, come se fosse scontato dimenticarmene. L'avevo fatto? Forse, ma Victor no.

«Sì,» la sua voce esita.

«Perfetto.» La mia di voce invece è ferma, decisa. Deve esserlo per forza. «Chiamali. Digli che vuoi vederti con loro oggi pomeriggio.»

Lei si ferma, mi fissa per un lungo momento, come se volesse capire se sto scherzando. «Oggi?»

«Sì, oggi. Perché aspettare?»

Scuote la testa. «Non lo so, Joh. Non sono sicura di essere pronta.»

«Ascoltami,» la mia mano stringe la sua con un po' più di forza. «Sei pronta. Più che pronta. Lo so io, e se non ti basta, lo sa Victor. Non ti ho mai vista cantare, non sul serio, ma so chi sei. Sanno tutti chi sei, Blake.»

Lei si morde il labbro, abbassa lo sguardo verso i nostri piedi. «E se mi dicono di no?»

«Non lo faranno,» rispondo senza esitazione. «E se lo facessero, allora vuol dire che non meritano di averti nella loro band.»

Inspira piano, ma non dice nulla. Poi annuisce appena, e il suo volto si distende. «Va bene.»

«Va bene?» dorrido.

«Va bene,» la sua voce risuona con più convinzione.

Tira fuori il telefono dalla tasca del giubbotto, e cerca il numero sul volantino spiegazzato che aveva nella borsa. Per quanto te lo saresti portato dietro? I suoi occhi sono fissi sul minuscolo schermo mentre compone, le sue dita tremano appena. La chiamata parte e lei si porta il telefono all'orecchio.

Resto lì, immobile, cerco di diventare invisibile, di darle spazio. I suoi occhi si spalancano, segno che dall'altra parte qualcuno ha risposto, la sua voce è esitante all'inizio, poi si fa più sicura. «Ciao, sono Blake. Ho trovato il vostro volantino e... sì, vorrei unirmi a voi... Si... oggi? Sì, certo... dove?»

Ascolta in silenzio, parla, poi annuisce, come se il suo interlocutore potesse vederla. «Va bene, ci vediamo lì. Grazie.»

Chiude la chiamata e mi guarda. «Hanno detto tra un'ora e mezza. In un garage a trenta minuti da qui.»

Annuisco. «Perfetto. Prima di andare, mangiamo qualcosa.»

Blake aggrotta la fronte. «Non ho fame.»

«Non importa,» rispondo, stringo di nuovo la sua mano e la guido verso un piccolo bistrot che avevamo appena superato. Entriamo, l'odore di caffè e pasticcini appena sfornati riempie l'aria. Troviamo un tavolino all'angolo del locale, mi siedo di fronte a lei.

Sfoglio il menu. Il cameriere arriva in pochi minuti: «Cosa vi porto?»

«So che la colazione è passata da un pezzo, ma potresti portarci due uova alla Benedict?»

«Certo, nessun problema.» si appunta l'ordine sul taccuino. «Da bere?»

«Due succhi d'arancia.»

Blake mi guarda, visibilmente a disagio. «Jonas, davvero, non ho fame.»

«Lo so,» appoggio i gomiti sul tavolo. «Ma devi sforzarti. Se non mangi tu, non mangio nemmeno io.»

Lei alza un sopracciglio, scettica.

«E poi,» continuo, «penseranno che il cibo ci abbia fatto schifo e ci rimarranno male. Vuoi farli sentire male?»

Le sue labbra si piegano in un sorriso appena accennato. «Hai sempre una scusa pronta.»

«Solo per te,» sorrido di rimando.

Il cibo arriva, lei sposta il piatto davanti a sé, se lo rigira tra le mani, come se non sapesse cosa farne. Prende la forchetta, ma non mangia.

Inclino la testa. «Mangiane almeno la metà,» le dico, «il resto lo finisco io.»

Blake un po' sbuffa, un po' sorride. Inizia a mangiare, e anche se lo fa lentamente, è abbastanza per non farmi pensare che tutto è perduto.

Sono quasi le quindici quando usciamo dal bistrot. L'aria è quasi tiepida per essere ancora inverno, il sole si nasconde dietro una coltre di nuvole grigie, abbastanza leggere da far intravedere piccoli squarci di luce. Camminiamo sul marciapiede, io e lei, uno accanto all'altra. La sua mano ora è calda nella mia, e mi ritrovo a stringerla ogni tanto, come per assicurarmi che sia ancora lì.

Le strade sono affollate, ma in modo tranquillo. Una donna spinge un passeggino, mentre il suo cane tira il guinzaglio verso una panchina. Un ciclista passa sfrecciando, ci sfiora, e Blake si sposta di lato, il suo fianco si spinge contro il mio per un momento.

Sembra una giornata normale.

Sarebbe una giornata normale se non avessi Victor piantato nella testa. Se non continuassi a pensare a cosa potrebbe fare e a chi potrebbe farlo. Ogni passo che facciamo, ogni isolato che superiamo, è come se provassi a mettere distanza tra noi e un segreto troppo grande per essere ignorato. Non sono mai stato bravo in queste cose. A fingere. A tenere la maschera.

Blake si ferma davanti a una vetrina di dischi, il suo riflesso si sovrappone alle copertine colorate esposte dietro il vetro. Si passa una mano sulla testa rasata, in un gesto distratto. Non dice nulla, ma i suoi occhi si soffermano per un attimo su un vinile degli Alice in Chains.

«Lo vuoi?» le chiedo, senza pensarci. Vorrei comprarglielo. Vorrei comprarle ogni cosa in vendita su questa terra. Le avrei comprato Victor se solo avessi potuto, se fosse servito a farla soffrire un po' meno.

Lei scuote la testa e riprende a camminare, il suo passo si fa più rapido, quasi nervoso. «No, andiamo. Siamo già in ritardo.»

Non siamo in ritardo, ma non insisto. La seguo, lasciando che sia lei a dettare il ritmo.

Nella mia testa, però, il pensiero di Victor si espande. No, si riproduce. Come fanno le cellule. Perché ci ha mandati via? Da chi è andato?

Un suono nella mia testa continua a ripetere la stessa nenia, come un disco rotto: Hai ammazzato tuo padre. Non potrebbe mai fare peggio.

Eppure so che non è così. Victor non è me. E quello che ha in testa, quello che si porta dentro, è complesso. Non riesco a immaginare cosa potrebbe fare, ma so che non sarà indolore.

Blake tira fuori il telefono dalla tasca, lo accende per controllare l'ora. «Manca mezz'ora,» sembra più parlare a se stessa che a me.

Annuisco, anche se lei non mi guarda. Il suo viso è teso, ma c'è una luce nei suoi occhi che non vedevo da tempo. Forse è solo nervosismo, o forse sta iniziando a credere che questo incontro con la band potrebbe cambiare qualcosa.

Forse non è solo un diversivo, forse è il miracolo di cui aveva bisogno.

Un camion si ferma accanto al marciapiede, il motore rimbomba e mi riporta per un momento al presente. Il fumo si mescola all'odore del pane che arriva da un fornaio all'angolo. Un uomo esce dalla bottega con un sacchetto di carta, mentre un gruppo di ragazzini si ferma a chiacchierare davanti a un'edicola.

Tutto sembra così normale.

Eppure nella mia testa Victor continua a camminare in una direzione opposta alla nostra, lontano, verso qualcosa che ha il suono di uno specchio rotto e il sapore al cianuro delle mandorle.

Perché era tanto importante che noi non ci fossimo?

La rampa scende ripida, nascosta tra le ombre di un vecchio palazzo dai giardini trascurati. L'erba è alta, costellata qua e là di rifiuti dimenticati: una bottiglia di vetro rotta, un vecchio pneumatico mezzo sepolto nel terreno. Il cemento è crepato, con pozzanghere iridescenti che riflettono il cielo grigio sopra di noi.

Alla fine della rampa, una serranda di metallo è sollevata a metà e mostra l'interno di un garage convertito. La luce artificiale dei neon illumina uno spazio caotico e rumoroso. Tre ragazze stanno armeggiando con i loro strumenti: una vecchia batteria, una chitarra elettrica appoggiata contro un amplificatore, e un basso che ha visto tempi migliori.

Blake si ferma un momento, le sue dita stringono le mie e sembrano raffreddarsi. Non dice nulla, ma so che qualcosa le si agita dentro. Non è mai andata d'accordo con le altre ragazze. Per un attimo, mi chiedo se sto facendo una cazzata a trascinarla qui.

Una delle tre, quella con i capelli corti e arruffati e una maglietta dei Sex Pistols troppo grande, ci nota per prima. Si sposta verso di noi con un sorriso stampato in bocca.

«Ciao,» le esce una voce roca. «Tu devi essere Blake.»

Blake annuisce, ma non risponde.

Un'altra ragazza si avvicina. Ha i capelli raccolti in una coda alta e indossa una maglietta dei Nirvana, con il logo consumato. È alta, con lineamenti duri, e tiene il basso come se fosse una parte del suo corpo.

«Io sono Liz,» dice quella dei Sex Pistols, mentre indica con un cenno le altre. «Lei è Mary,» punta verso la ragazza con la coda, «e quella dietro la batteria è Mona.»

Mona solleva una mano in un cenno distratto, senza staccare gli occhi dai tamburi che sta sistemando. Ha i capelli viola, legati in due codini bassi, e indossa una tuta da lavoro sporca di vernice.

«Bene, adesso che ci conosciamo tutti,» dice Mary, con un tono che suona quasi impaziente, «raccontaci qualcosa di te. Hai già cantato in una band?»

Blake scuote la testa, il viso impassibile. «No.»

«Esperienza da solista, allora?» chiede Liz, spostando il peso da una gamba all'altra.

«Nemmeno,» risponde Blake.

Si guardano tra di loro. Uno scambio silenzioso che non mi piace per niente. È come se stessero già decidendo che è stata una perdita di tempo.

Blake vede tutto e di sicuro pensa quello che penso io. La sua mano si irrigidisce nella mia, ma non c'è esitazione quando parla. «Fatemi cantare,» c'è un filo di qualcosa che assomiglia a una supplica. «È l'unica cosa che so fare. Faccio schifo in tutto il resto, ma so cantare. Davvero.»

Non fai schifo in tutto il resto...

Le ragazze si fermano. Liz la fissa, poi lascia andare una risata breve, quasi incredula. «Davvero?»

«Davvero,» ripete Blake, il suo sguardo si pianta su quello di Liz e non vacilla.

Mona si alza lentamente dalla batteria, incrocia le braccia e guarda le altre due. «Beh, allora, facciamola cantare.»

Il silenzio che segue è breve, eppure pesante. Liz e Mary si scambiano un altro sguardo, poi Liz fa spallucce e si gira verso Mona. «Vai, accendi l'ampli.»

Blake inspira piano accanto a me. Stringe i pugni lungo i fianchi, come se stesse preparando tutto il corpo al momento in arrivo.

Le ragazze finiscono di sistemare gli strumenti, i movimenti rapidi e precisi come se lo facessero da sempre.

Liz si avvicina a Blake. «Come As You Are?»

Mary si sistema il basso, le dita che pizzicano le corde per accordarlo. Mona impugna le bacchette, le fa girare tra le dita e poi le ferma, pronta. Liz sfiora le corde della sua chitarra elettrica, un suono basso e vibrante riempie l'aria.

Poi iniziano.

Il riff di apertura si diffonde nel garage, grezzo e avvolgente, rimbalzando sulle pareti spoglie. Blake si avvicina al microfono, il suo respiro è appena visibile nell'aria fredda, mentre si prepara a cantare.

Le prime parole le escono incerte, quasi un sussurro, ma poi prende forza. La sua voce si distende, graffia l'aria e si diffonde nel mio petto. Blake non sta solo cantando, sta tirando fuori qualcosa di profondo. Qualcosa che è rimasto intrappolato per troppo tempo e che ora si riversa fuori dalla sua gola.

Non riesco a toglierle gli occhi di dosso. Il modo in cui si muove, come se il ritmo l'attraversasse. I suoi occhi fissi nel vuoto, ma pieni di qualcosa che non ho mai visto in lei. Rabbia. Vulnerabilità. Verità.

È grezza, potente, sporca al punto giusto. Non c'è pretesa, non c'è artificio.

Solo lei.

La canzone finisce con una nota che si prolunga, Liz sfiora le corde della chitarra per fermare il suono. Mona posa le bacchette con un colpo deciso, Mary lascia andare il basso, e le sue mani si rilassano.

Le tre si scambiano uno sguardo, poi Liz si avvicina a Blake.

«È vero,» inclina la testa con un mezzo sorriso, «sai cantare. Ma noi non siamo la cover band dei Nirvana, lo hai capito?»

Blake annuisce. «L'ho capito.»

Liz incrocia le braccia, lo sguardo si fa più serio. «Dovrai scrivere testi tuoi. E dovrai cantarli. Lo puoi fare?»

Blake non esita nemmeno un secondo. «Lo posso fare.»

Liz la guarda per un lungo momento, poi sorride. Un sorriso storto, quasi affettuoso, ma con un filo di sfida. Allunga la mano verso Blake, che la stringe.

«Benvenuta nel gruppo, piccola stronza.»


SPAZIO AUTRICE: Chiedo umilmente scusa per la mia sparizione, ma dire che sono stata impegnata è riduttivo. Sono successe davvero tante cose in questi giorni.

Spero di riuscire a darvi questi ultimi capitoli al più presto, uno è quasi pronto, ma ne mancano un altro paio. Di sicuro ci rivediamo martedì con un altro capitolo!

Lasciatemi le vostre impressioni se ne avete voglia.

Baci

Will

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