59 - Un taglio netto -
Cammino lungo il viale stretto e lucido, le pietre del pavimento brillano sotto una luce incerta dei lampioni e delle insegne smorte. Le facciate delle case sembrano gessetti graffiati su una lavagna scura, strette l'una all'altra come a scacciare il freddo. Le vetrine, con i vetri appannati, non mostrano nulla di utile: abiti inutili, libri che nessuno vuole leggere. Io cammino veloce, ma non abbastanza.
Lo vedo prima di sentirlo. Seduto su una panchina sgangherata, una gamba accavallata sull'altra, la sigaretta che pende tra le dita. I suoi occhi mi seguono, dall'orlo del trench fino alle calze smagliate. Il mio passo cambia, scivola in avanti come se non volesse lasciar tracce, ma il cuore si stringe in una morsa. Non so se è il suo sguardo o quello che mi porto addosso da giorni. Mi sembra ancora di sentire le mani di Trevor e Mike, le loro dita che graffiano la pelle come uncini. Il modo in cui ridacchiavano, come se fosse tutto un gioco.
«Bei capelli, ragazzina.»
La voce del'uomo mi colpisce alle spalle. Mi fermo. Per un istante penso di ignorarlo, ma poi mi giro. Resto lì, incollata al suolo, lo sguardo fisso sul suo sorriso storto. Non so perché non riesco a parlare, forse perché ho paura che mi tremi la voce o, peggio, che si rompa.
Lui non fa nulla. Non si muove, non dice altro, ma continua a fissarmi come se fossi un'immagine da consumare. Il disgusto mi invade lo stomaco. Stringo i pugni, le unghie affondano nei palmi. Non sa niente, mi ripeto. Non è come loro, mi ripeto. Ma quegli occhi addosso mi fanno male.
Giro i tacchi e riprendo a camminare. Più veloce questa volta, come se volessi lasciarmi tutto indietro. Le luci sfocate delle vetrine mi scorrono accanto, i suoni della strada si mescolano in un ronzio caotico. Non mi fermo finché non sono davanti al portone. Le chiavi tremano tra le dita, ma alla fine riesco a entrare.
Di corsa, su per le scale.
La casa è vuota, l'eco dei miei passi si perde nel corridoio. Jonas e Victor non ci sono. Chiudo la porta alle mie spalle e appoggio la schiena contro il legno freddo. Respiro, una volta, due, ma l'aria sembra non arrivare. Mi lascio scivolare fino a sedermi a terra, le ginocchia contro il petto.
Li odio. Mike, Trevor, quell'uomo sulla panchina. Odio tutti loro, e odio me stessa per non aver detto niente.
Per non averli denunciati. Ammazzati. Per non aver squartato lei.
Mi trascino fino alla camera da letto, mi ritrovo in ginocchio, il legno freddo contro le ossa mi riporta al qui e ora, ma non abbastanza. Afferro il cuscino dal bordo del letto e lo trascino giù, lo tengo stretto con entrambe le mani come se fosse un corpo vero. Il primo pugno lo colpisce senza forza, il secondo è più deciso, poi inizio a colpirlo come se ci fosse una possibilità che sentisse. Trevor. Mike. Ogni colpo è per loro. La loro faccia, il loro sorriso, le loro mani. Ma più di tutti vorrei Maggie qui. Lei. La sua voce al veleno di serpe. Spaccarle quelle labbra da vipera.
Il fiato mi manca. Il sudore mi scivola lungo le tempie e finisce sulla bocca. Mi fermo e crollo in avanti, la testa sul cuscino che puzza di rabbia e lacrime trattenute.
«Bei capelli, ragazzina.» Lo ripeto.
Riapro gli occhi e li vedo: i miei capelli, lunghi, che sfiorano il pavimento. Scivolano in avanti come se volessero nascondermi. Li odio. Li odio con la stessa intensità con cui odio quelle cazzo di parole. Li afferro con entrambe le mani, stringo le ciocche nere e tiro, forte, fino a sentire la pelle bruciare.
«Cazzo!»
Impreco, ma non mollo. Tiro ancora, insisto, fino a quando il dolore mi spezza. Alla fine, mollo la presa. Mi arrendo e mi alzo, cammino barcollando per tutto il corridoio.
Il bagno è una scatola di piastrelle bianche, fredde e sterili. Una luce forte illumina tutto senza pietà. Come in ospedale. Mi fermo davanti allo specchio, le mani sul bordo del lavandino, la ceramica liscia sotto i palmi. Mi guardo.
Gli occhi cerchiati di scuro, il trucco sbavato si mischia al sudore. I capelli scendono in ciocche disordinate, appiccicate al viso come rivoli d'inchiostro. Li afferro di nuovo, ma questa volta non tiro. Li osservo,come se potessero raccontarmi qualcosa che non so.
La luce crea ombre intorno alle mie guance vuote e alle mie labbra serrate. È come se non fossi io. Come se ci fosse qualcun altro intrappolato nello specchio.
La mia parte peggiore. Spezzata.
Non riesco a guardare quella persona.
Mi chino davanti al mobile del bagno, i gomiti spingono contro le cosce, tiro il cassetto verso di me. Dentro è un disastro, come tutto il resto. Rasoi, bottigliette di plastica, uno spazzolino nuovo, rotoli di carta igienica e asciugamani, tutto alla rinfusa, lo stile pare quello di Jonas. Tutte cose di cui non ho bisogno. Frugo senza controllo, le dita scivolano sulle confezioni lisce, una lametta senza protezione mi sfiora la pelle e sibilo un «Maledizione». Continuo a cercare, svuoto tutto sul pavimento. Un caos di roba inutile si sparge attorno a me.
Poi lo vedo. Il rasoio elettrico di Victor. E vicino, le forbici.
Li prendo entrambi e mi alzo di scatto, i piedi quasi scivolano sulle piastrelle bianche. Davanti allo specchio, le forbici sembrano pesare il doppio nelle mie mani. Apro e chiudo le lame, il metallo scintilla sotto la luce. Mi guardo, il respiro accelera.
Esito al primo taglio, ma solo per un secondo. Una ciocca nera cade, dritta, nel lavandino. Il secondo è più deciso. E poi continuo, senza fermarmi. Ogni ciuffo è un pezzo di me che non voglio più. Le lame si chiudono e portano via tutto. Trevor. Mike. Quel bastardo sulla panchina.
Il viso si riempie di capelli che si attaccano alla pelle umida. Le lacrime scivolano sulle guance, mischiandosi al sudore e alla rabbia. Non so neanche perché sto piangendo. Non voglio farlo. Non devo.
Non c'è un cazzo da piangere.
Quando non c'è più niente da tagliare con le forbici, afferro il rasoio. Le dita lo stringono così forte che la plastica scricchiola appena. Lo accendo e il ronzio riempie il bagno, copre tutto: il respiro, i singhiozzi, anche la mia voce che mormora insulti contro chiunque.
Appoggio il rasoio sulla testa e passo, una, due volte. I capelli cadono giù, si suicidano sul bianco del lavabo. Mi sento vuota e piena allo stesso tempo, come se stessi distruggendo qualcosa ma non sapessi cosa ricostruire al suo posto.
È una morte senza rinascita. Una fine senza inizio. Un cerchio rotto.
A un certo punto, dopo minuti interminabili, spengo il rasoio. Nello specchio, la mia testa è liscia, quasi lucida sotto la luce crudele. Sono ancora io, ma diversa. I miei occhi, gonfi e rossi, sembrano troppo grandi sul viso scarno. Le lacrime continuano a scendere, anche ora che non ho più capelli da tagliare. Il pavimento è un tappeto nero, una distesa di ciocche morte che mi guardano come a chiedere cosa ne sarà di loro.
Cosa ne sarà di me?
Il rumore della porta che si apre mi gela il sangue. Guardo il caos attorno a me: capelli sparsi ovunque, le forbici aperte, il rasoio abbandonato sul lavandino. Respiro, cercando di capire cosa fare, ma non c'è tempo.
«Blake?»
È la voce di Jonas. Non rispondo. Mi stringo al bordo del lavandino, gli occhi fissi sullo specchio, cerco di riprendere il controllo. I suoi passi risuonano nel corridoio. Non gli ci vuole molto per arrivare davanti alla porta del bagno.
«Blake, stai bene?» La sua voce è più vicina, più insistente.
«Sì!» rispondo in fretta, troppo forte. «Sto bene.»
«Sei sicura?» Bussa alla porta, una volta, due. «Apri.»
«Tranquillo, davvero.» La mia voce trema. «Sto... sto bene.»
Lui non si lascia ingannare. «Blake, non farmi perdere la pazienza. Apri la porta.»
«Lascia stare, Joh. Non c'è niente che non va.»
Dall'altra parte, il silenzio dura un istante di troppo. Poi arriva la sua risposta, lenta e calma: «Se non apri, butto giù la porta.»
«Se rompi la porta, Victor si incazza.»
«Se non apri, mi incazzo io. E sarà peggio.»
Respiro forte, stringo le mani sul bordo del lavandino fino a sbiancarmi le nocche. Con un gesto improvviso, giro la chiave e apro.
Lui rimane lì, immobile, pietrificato. I suoi occhi mi attraversano, si fermano sulla mia testa rasata, sulle lacrime che ancora mi rigano le guance, sul pavimento disseminato di capelli e di tutto quello che ho tirato fuori dal cassetto e buttato alla rinfusa.
«Mi guardi come se ti facessi schifo,» sibilo.
Lui scuote la testa, ma i suoi occhi rimangono scuri, profondi. «Non sei tu che mi fai schifo. Quello che fai però mi fa paura.»
La sua mano si tende verso di me, esita per un momento, prima di afferrare la mia. Noto solo allora il sottile taglio rosso sul mio palmo.
«Stai sanguinando.»
Abbasso lo sguardo, cercando di minimizzare. «Mi sono tagliata con una lametta che stava nel cassetto. Non è niente.»
Jonas stringe la mia mano, un gesto fermo, deciso, come se volesse tirarmi fuori da qualcosa. O volesse evitare che io ci cada dentro.
Forse sono già caduta, Joh.
Il suo respiro si mescola al mio. «Non puoi fare così, Blake.»
Abbasso lo sguardo, incapace di rispondergli.
Jonas mi fissa, i suoi occhi di un verde così profondo che mi sembrano inesauribili. Non lascia andare la mia mano, il pollice mi accarezza il palmo mentre parla.
«Perché li hai tagliati?»
Mi si spezza il fiato. Non lo so davvero, ma le parole mi escono lo stesso. «Per essere come nuova, credo.»
La sua reazione mi spiazza. Mi tira verso di sé e mi stringe in un abbraccio così forte che il petto mi si comprime. L'odore di patchouli e tabacco mi invade le narici. Quando mi lascia, le sue mani si posano sulle mie spalle.
«Fallo anche a me,» la sua voce è bassa, quasi un sussurro. «Voglio essere come nuovo anch'io.»
Lo guardo incredula. I capelli di Jonas sono sempre stati la sua cosa più preziosa. Castani, morbidi, lunghi fino alle spalle. Perfetti. Gli scivolano sul viso quando si china a dipingere, lo avvolgono come un velo quando cammina. Non riesco a immaginarlo senza di loro.
«Jonas... non ha senso,» balbetto.
«Sì, invece. Ha senso per me.» Si siede sul bordo della vasca, prende il rasoio dal lavandino e me lo porge.
Le mani mi tremano, ma non posso rifiutare. Prendo le forbici per cominciare. La prima ciocca cade sul pavimento come fanno le foglie gialle degli alberi nel mese di ottobre. Jonas non si muove, ma i suoi occhi brillano. Continuo a tagliare, le ciocche cadono sempre più in fretta, scivolano sulle sue spalle come se non fossero mai appartenute a lui.
Passo al rasoio, faccio attenzione, accarezzo la pelle con il metallo. Ogni passata cancella un pezzo di ciò che era. Alla fine, la sua testa è liscia, proprio come la mia. Mi fermo e lo guardo. Jonas non è mai stato più bello.
Lo vedo, attraverso la porta spalancata. Non ci eravamo accorti di Victor fino a quel momento. È immobile nell'ingresso, con gli occhi sgranati su di noi.
Jonas spezza il silenzio con un sorriso sghembo. «Vieni, che ti offriamo un taglio in omaggio.»
Victor alza un sopracciglio. «Voi siete pazzi.»
Si sfila il cappotto con calma, lo appoggia all'appendiabiti e si avvicina. Quando è a un passo dai miei piedi, si china verso di me. Mi bacia sulla guancia, poi fa lo stesso con Jonas.
Si siede sul bordo della vasca, il gomito appoggiato al ginocchio, e ci guarda. «Siamo diventati un gruppo di Skinhead?» sbatte le palpebre e mi regala mezzo sorriso.
Jonas ride, e quel suono mi fa quasi dimenticare tutto.
Quasi.
SPAZIO AUTRICE: Ciao ragazze, scusate la latitanza, ma occupandomi dell'editing di Sinful Blossoms, che fa parte dello spesso universo narrativo di Burning, mi sono accorta che il finale di questa storia necessitava di alcuni aggiustamenti, perciò ho deciso di dargli (e darmi) più tempo e più parole.
Aggiornerò Burning il martedì e il giovedì, fino alla sua conclusione.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che vi sembri sensato ^^ , come sempre lasciatemi i vostri commenti così che possiamo sclerare insieme!
Se la storia vi piace incoraggiatela con una stellina!
Baci
Will
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