45 - Briciole -

(POV Jonas)

La mensa scolastica è un mare di teste oscillanti che confondono la linea dell'orizzonte, un'onda confusa di gente accalcata davanti ai banconi in attesa del cibo. Le voci si mescolano, si accavallano, il brusio costante si spezza solo quando qualcuno ride o urla troppo forte e altri lo seguono a ruota. Qualcosa cade da un vassoio e rotola lontano. Una mela verde. Qualcuno le dà un calcio e quella schizza via, impazzita, sul pavimento appiccicoso, macchiato da schizzi di bibite e chissà che altro. Le luci al neon risplendono stanche sopra di noi, illuminano tutto con una freddezza irritante.

Blake è davanti a me, ferma. Fissa il cibo, ma non si muove. Hamburger troppo cotti, patatine unte che galleggiano nel loro stesso olio, mele opache e yogurt scadenti in vasetti di plastica trasparente. Non riesce a prendere nulla. I capelli scuri le cadono sugli occhi, in disordine, e il suo viso sembra svuotato di qualsiasi espressione.

«È tutto il giorno che mi eviti.» La mia voce si perde nel caos intorno, ma lei mi sente lo stesso. Non si volta, non si scompone. Solo una leggera inclinazione della testa.

«Sbagli.» Una risposta secca, breve, come se fosse già stufa della conversazione prima ancora che inizi.

Le mensole di metallo al di là del bancone riflettono la luce, oltre il vetro, il volto del cuoco che ci osserva, impaziente. Afferro un vassoio e prendo un hamburger e delle patatine. Le piazzo davanti a Blake, proprio mentre lei fa per andarsene. «Prendile, non puoi stare a digiuno.»

Mi sbrigo a prendere qualcosa anche per me.

«Non hai capito quello che ho detto?» una voce piatta, con un'ombra di fastidio sciolta sopra.

«Certo che ho capito.» Prendo un morso del mio panino. Le patatine unte brillano sotto la luce azzurrognola. «Solo che non sono d'accordo.»

Blake sospira, un gesto che non emette suono. Si dirige verso il tavolo in fondo, quello vicino alla finestra. La seguo col vassoio in mano.

Fuori, la pioggia batte con forza sui vetri, disegna strisce d'acqua che scendono lente. Il giardino fuori è una distesa fangosa, gli alberi spogli tremano sotto le folate di vento. Ci sediamo accanto alla tempesta.

Blake non tocca cibo. Lo sminuzza con la forchetta, trasforma l'hamburger in pezzi sempre più piccoli, ma non porta nulla alla bocca. Resta tutto lì, anche se non è più intatto. Poi si ferma in una scena congelata.

«Mi dici che succede?» Allungo la mano verso la sua, fino a toccarla.

Lei si limita ad alzare le spalle, lo sguardo fisso fuori, sulle gocce di pioggia che continuano a scendere.

«Niente, ho solo mal di pancia.»

«Giura.»

Un altro pezzo di hamburger si sfalda sotto la sua forchetta, e lei ancora non mi guarda. «Giuro.»

Resto un attimo in silenzio, il casino che c'è intorno mi riempie le orecchie, ma dentro di me è tutto calmo, immobile, come se aspettassi qualcosa per innescarmi. Mi appoggio allo schienale della sedia, le mani stringono il vassoio. Inclino la testa e attendo.

«Com'è andato il workshop?» chiede, lo fa solo per cambiare discorso. La sua voce è distante, meccanica. Quella di qualcuno a cui non frega un cazzo di quello che ha davanti.

E lei davanti ha solo me.

Che è successo, B.?

«Interessante.» Passo una mano tra i capelli. Sì, interessante, ma ora mi interessa altro. Voglio sapere dov'é lui e perché tu sei strana. Perché sembri a pezzi.

Tutti possono vedere un volto, ma la bellezza della pittura è far vedere agli altri quello che vedi tu. Mi risuona in testa la frase del docente. Ecco cosa ho fatto in tutti questi anni, Blake. Ho dipinto voi due, in modo che vi vedessero come vi vedo io.

Forse, l'unica cosa che volevo era che ognuno vi amasse quanto vi amo io.

Lei annuisce, con lo sguardo perso fuori dalla finestra. Le patatine intatte nel lato destro del suo piatto.

Non ho bisogno di chiederle niente, lo vedo. Blake non sta bene. Oggi è il contrario del bene. Pare che le abbiano scavato una fossa nel petto fino a svuotarla del tutto.

L'espressione che ha addosso ha il nome di Victor. Per quanto lei possa amarmi, lui è l'unico capace di ridurla così. E mi va bene non avere questo potere di merda.

Le gocce di pioggia sbattono e scivolano ancora sul vetro, lente, come tante lacrime stanche. Il vento le fa schiantare contro la finestra. Tanti spilli diretti verso di noi, pronti a infilzarci come bambole voodoo.

Non mangia niente. Si limita a spezzettare quello che ha davanti, come se tutto quel movimento nel piatto potesse essere confuso con un pasto normale. Per quanto tempo può portarla avanti questa autopsia? Dovrei dirle qualcosa? Vorrei prenderle la mano, bloccarla, raccogliere con la forchetta quelle briciole di cibo e imboccarla.

Nel mondo c'è gente che muore di fame, lo sai? Vorrei dirle, invece le chiedo: «Non sei preoccupata?»

«Per cosa?»

Il suo nome si ferma sulla mia lingua, ma alla fine non riesco a trattenerlo. «Per Victor.»

Si irrigidisce, anche se cerca di non darlo a vedere, le sue pupille vagano oltre la mia testa, nei tavoli accanto. Il suo respiro si blocca per un secondo, abbastanza perché me ne accorga. Fingo di non notarlo, ma qualcosa cambia nell'aria. Un freddo strano si insinua nel caldo della stanza.

«Ho sentito che manca da una settimana.» Le mie parole scivolano lente, come la pioggia che scende sul vetro. Cerco le sue iridi azzurre e quelle mi sfuggono. «Che cazzo è successo, B.? Perché non mi hai scritto per dirmelo?»

Si blocca, lo sguardo incollato al piatto si alza piano verso di me, le mani tremano appena. Il suo viso è immobile, ma c'è qualcosa che si spezza dietro i suoi occhi.

«Non volevo farti preoccupare.»

Eccola la fitta al petto. Il rumore che riempie lo spazio sembra più distante ora, più ovattato. Il silenzio che segue mi si incolla addosso. Perché avrei dovuto preoccuparmi, B.?

E comunque, «adesso sono preoccupato lo stesso.»

Blake non sembra lei. Mi porto gli indici sulle sopracciglia e le percorro più volte.

Se ne sta immobile, con la forchetta sospesa a mezz'aria. Una patatina affondata nel ketchup rosso brillante resta appesa, tremolante, come se fosse viva. Non apre la bocca nemmeno per sbaglio. Il suo sguardo è fisso nel vuoto, perso in qualcosa che non posso vedere, né posso immaginare. Non si accorge nemmeno di me.

Mi sistemo meglio sulla sedia, sposto il vassoio sul tavolo, e lancio la bomba. «Dopo scuola passo a casa sua.» La mia voce è neutra eppure ha l'effetto di uno tsunami.

Me lo devi dire, qualsiasi cosa sia.

Ferma. Cristallizzata, una statua. Solo un lieve tremore alla mano che impugna la posata, la patatina si stacca e finisce nel patto a coprire le altre.

«Che fai, vieni?» sorrido. Sorrido e aspetto. Aspetto di capire. Aspetto che dica qualcosa, una cosa qualsiasi.

Sette stronzissimi giorni sono mancato. Dio, Blake, che cazzo avete combinato?

Mi mancherai. Mi hai detto. Non ti sono mancato per niente, vorresti farmi sparire come la polvere sotto il tappeto, le zanzare nel mese di luglio.

Perché?

Alla fine si muove, lo sguardo è vacuo, come se stesse cercando di riordinare i pensieri, senza riuscirci. «Vuoi andare da lui?» Fa una pausa, e le sue spalle si irrigidiscono. «Dopo quello che è successo?»

Che è successo? Ci siamo punzecchiati come al solito. Lo facciamo da sempre, da anni.

Mi mordo l'interno della guancia, il sapore metallico del sangue mi invade la bocca. Oltre Blake, nel caos della mensa quel coglione di Mike sta infastidendo un ragazzino del primo anno, come sempre. Lo spintona, gli lancia contro il panino e i suoi amici di merda gli ridacchiano dietro, sciacalli del cazzo.

Trevor Bennet gli dà una pacca sulla spalla. I coglioni vanno sempre a coppie.

«Non gli diciamo niente?» Blake mormora e la sua voce si accascia nel piatto pieno di cibo sbriciolato. Sempre più piccolo.

«Mi sembra che abbiamo altri problemi.» sorrido e mi esce un'espressione tesa che mi tira le labbra. «E ancora non mi hai risposto. Allora, ci vieni?»

Blake continua a fissare da tutt'altra parte, ovunque ma non me. I suoi occhi restano bloccati sullo spettacolo disgustoso che Mike sta offrendo. Non si concentra su di lui, come non si concentra su di me. «Non lo so.»

Mi sto stancando. Appoggio la forchetta sul vassoio, la tensione cresce nelle vene, non riesco più a trattenermi. «Dimmi cosa cazzo sta succedendo, Blake, o faccio un casino tale che qualsiasi cosa sia successa tra te e lui ti sembrerà una barzelletta.»

Lei si volta di scatto, eccola l'attenzione che cercavo. Il suo gomito colpisce la Coca Cola, che si ribalta sul tavolo con un tonfo sordo. Il liquido nero si sparge in fretta, cade sul pavimento con uno scroscio, crea una piccola pozzanghera che si allarga accanto ai nostri piedi.

Il bicchiere di carta segue il percorso della bevanda.

Blake si china subito per raccoglierlo, cerca di ripulire il disastro con un tovagliolo di carta.

«Lascialo per terra.» La mia voce mi rimbomba in bocca. Il bicchiere rotola vicino al suo piede, non mi interessa. «Dimmi che c'è che non va.»

La situazione esplode dall'altro lato della stanza. Le urla aumentano di volume, una cerchia di studenti si è radunata attorno a Mike e al ragazzino, spettatori idioti, affamati di gossip e di sangue. Le risate di Mike risuonano in un'eco lontana.

Blake si sporge in quella direzione. Sbatto il pugno contro il tavolo, e lei sussulta. La pozzanghera di Coca Cola trema e continua a scivolare oltre il bianco del tavolo.

«Smettila di trattarmi come un coglione, perché non lo sono.» Non la lascerò andare senza una risposta.

Lei mi guarda, e per la prima volta oggi i suoi occhi incrociano davvero i miei. Dentro ci vedo il caos, lo stesso che c'è nel suo piatto e che sto cercando di tirarle fuori.

«Va bene, ci vengo.»

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Il trillo della campanella squarcia il silenzio della classe, spezza il ritmo cadenzato dei nostri respiri trattenuti. Tutti si affrettano a lasciare i loro fogli sulla cattedra del professor Morrison, uno dopo l'altro, come nel rito meccanico di tante piccole formiche meticolose. La verità è che non vediamo l'ora di uscire. Io non vedo l'ora di uscire. Il fruscio della carta è l'unico rumore che riempie la stanza. Gli studenti sgomitano per attraversare la porta e si accalcano davanti all'imbuto del telaio.

Blake resta indietro, ferma, oggi è una cazzo di statua di ghiaccio. Ho l'impressione che se le dessi anche solo una piccola schicchera basterebbe a distruggerla. Tiene lo sguardo chino sul foglio bianco davanti a sé. Non c'è scritto nulla, solo il suo nome, in una grafia storta e tremolante. Non faccio in tempo a chiedere nulla, lei si alza, movimenti automatici, come se fosse programmata. Non mi vede, non vede niente.

È persa. Blake si è persa. E Victor è sparito dai radar. Li ho persi entrambi.

Usciamo insieme, il caos del corridoio ci travolge. Attraversiamo la fiumana di studenti e le nostre spalle si sfiorano, la tengo per il braccio, quasi a volerla trattenere dal flusso che la trascina via. I passi rimbalzano sul pavimento di marmo, il rumore delle voci di tutti rimbomba tra le pareti, ma non la sua.

In cortile, mi accorgo di Mike. Sghignazza. Bennet sta ancora con lui, sapevo che fosse un cretino, ma non un pezzo di merda. Ma ci sta, cervelli come il suo si manipolano con niente. Mike sputa per terra, sulla ghiaia bianca che luccica di pioggia. Il suo sguardo ci trapassa, mi squadra come se fossi solo un fastidio da eliminare. Ma c'è qualcosa nel modo in cui guarda Blake che mi fa rabbrividire. Non è rabbia la sua. Stringe tra i denti un sentimento che mi disgusta. Un brivido mi attraversa la schiena, e per un secondo vorrei che sapesse in che modo penso a lui. Con la testa staccata dal collo, mentre scavo una buca in giardino e ce lo piazzo dentro.

Gente come lui dovrebbe crepare da sola e, tutto sommato, dovrebbe pure viverci.

Non dico niente a Blake, stringo solo più forte il suo braccio e la trascino verso l'auto. La macchina del preside è parcheggiata accanto alla mia, un affare di lusso preso dal garage di mio padre, che sembra fuori posto nel parcheggio della scuola. Apro la portiera a Blake in silenzio, cerco un suo cenno, l'indizio di qualcosa, ma ottengo solo l'ennesimo niente. Non insisto, mi siedo al volante e accendo il motore.

Alla radio risuona malinconica Bitter Sweet Symphony dei Verve. Il testo si intreccia ai miei pensieri. Blake guarda fuori dal finestrino. La pioggia inizia a battere contro il vetro, le gocce si trascinano giù senza pulirlo. Ce ne stiamo zitti tutti e due, ci godiamo la tristezza grigia di Londra che si abbatte sul parabrezza.

La casa di Victor, e dall'altro lato quella di Blake, ci siamo, parcheggio sul bordo della strada. Il muro d'acqua piano piano ci dà tregua. La casa pare un fantasma bianco nel paesaggio desaturato, la luce fioca e gialla filtra dalle finestre che sembrano occhi di gatto. Mi fermo un istante prima di scendere, un peso nello stomaco mi tiene bloccato sul sedile.

Blake apre la portiera e io la imito, insieme ci avviciniamo alla porta d'ingresso, il suo dito smaltato di nero suona il campanello. La madre di Victor ci accoglie, ce l'ha scritto in faccia che qualcosa non va. Ha l'aria stanca, i capelli spettinati, e il suo viso è strano, come se non dormisse da giorni. C'è una preoccupazione incomprensibile nel suo sguardo, un'ombra che somiglia al vuoto nelle iridi azzurre di Blake.

«Buongiorno signora...» faccio uscire la voce, consapevole del fatto che quella di B. è fuori uso.

«Ciao ragazzi.» Sorride, ma i suoi occhi non sorridono per niente. «Victor non sta bene.»

Ci invita a entrare, ma Blake tentenna sull'uscio. Come se l'idea di vederlo la spaventasse a morte.

«Che ha?» cerco di mantenere la voce calma, ma l'ansia monta nel mio petto.

«Ha preso una strana influenza. Vomita spesso.» La sua risposta è piatta, come se l'avesse ripetuta più volte a se stessa.

Blake si porta una mano alla bocca, il suo viso sbianca, gli occhi si spalancano. Ora sembra avere anche lei la stessa malattia di cui parla la signora Black.

«E Maggie?» anche lei ha l'influenza?

La madre di Victor esita, si morde il labbro, prima di rispondere. «Maggie si è trasferita dalla sorella di sua madre.»

Il silenzio che segue è troppo lungo. Blake sbircia dentro attraverso l'ingresso, alza gli occhi fino alle scale. Forse spera di trovarlo. Le sue mani scendono lungo i fianchi, afferrano la stoffa del cappotto e la stringono.

Perché sei spaventata a morte? 

SPAZIO AUTRICE: Ciao ragazze, come state?

Continuiamo a scendere, ma per fortuna Jonas è tornato. Riuscirà a fare la differenza in questo delirio e a fermare la rovina?

Blake ormai sembra immune a tutto, anche a lui, al contempo decide di accontentarlo...

A una decina di capitoli dalla fine, qualcuna di voi si è fatta un'idea di come finirà questa storia?

Ci vediamo mercoledì per un nuovo delirio!

Bacini

Will

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