44 - Ritirata -

(POV Blake)

La porta di casa di Jonas si chiude con un tonfo sordo alle mie spalle. Il vento freddo mi colpisce in pieno volto, cristallizza le lacrime sulle mie guance solo per un istante prima che ricomincino a scendere, senza sosta. Non riesco a fermarle, nemmeno ci provo. Ogni respiro è un singhiozzo soffocato, il cuore batte troppo forte nel petto. Victor è lì, per colpa mia, e io posso fare nulla. Non posso salvarlo.

Una voce che somiglia alla sua mi ripete che ho fatto fin troppo, che se non fosse per me lui non starebbe lì dentro.

Quella voce ha tutte le ragioni del mondo.

Attraverso le strade deserte di Londra con la mente annebbiata, i miei passi lenti e costanti sull'asfalto nero che ingoia lo sguardo. Attraverso il pianto tutto trema. Un terremoto si annida dietro il mio sguardo. Le strade sono vuote, illuminate da qualche lampione che proietta ombre lunghe e tetre sui muri delle case. Hampstead Heath diventa un incubo di siepi curate e lance di metallo appuntite in cima alle ringhiere, piume di corvo sui muri di mattoni e incastrate tra le foglie. Pipistrelli impazziti e intermittenti nel fascio dorato che dall'alto delle lampadine finisce per schiantarsi al suolo e rischiara i sassi.

Lì dovrei stare. Per terra. Morta. Impietrita. Mi volto, a destra e a sinistra, una scia abbagliante come quella di una cometa svanisce in una strada secondaria.

Da quanto sto camminando? Tiro fuori il cellulare dalla tasca per controllare l'ora, ma lo schermo è nero. Cazzo.

Gli anfibi cominciano a ferirmi i piedi, e arriva il bruciore delle vesciche che iniziano a formarsi sotto la pelle, eppure il dolore fisico è niente rispetto a quello che se ne sta nascosto dentro e consuma, soffoca.

Tiro un lungo sospiro tremolante. Mi porto dentro il ghiaccio di gennaio. Divento un racconto d'inverno, una creatura che vive nelle fiabe più tetre.

Una principessa vampiro. La maledizione che striscia sulla terra e si annida nei corpi che tocca.

Carestia e pestilenza.

Ogni più misera cosa.

Che ci ha visto Jonas in una come me? Una persona buona come lui, una persona così amabile, una persona che ha tutto e può avere tutto ciò che desidera... Perché non mi butta via come si fa con gli scarti?

I lampioni tremolano, come se anche loro stessero per spegnersi da un momento all'altro. Ogni tanto, una macchina passa, illumina per un istante la strada buia e poi tutto ritorna nell'ombra. C'è un silenzio spettrale, interrotto solo dal rumore dei miei passi e dai miei singhiozzi. Ogni suono si amplifica e diventa minaccia, così come l'ombra che mi segue e si adagia sul muro al mio fianco.

Ho il terrore di voltarmi e vederci una faccia nella sagoma scura che mi cammina accanto.

Rallento fino a fermarmi, strofino le braccia e provo a scacciare il gelo, un brivido mi fa battere i denti. Le dita dei piedi sono così fredde che ormai non le sento più. Devo continuare a camminare. Allontanarmi da qui.

Tornare a casa. Quella casa identica alla sua. Alla mia finestra identica alla sua. Affacciarmi, guardare fuori e sapere che lui non c'è. Non c'è per colpa mia. Più cammino, più il dolore cresce.

Un'auto si avvicina, il motore ronza basso e risuona tra le mie costole, tra gli organi che adesso sembrano fatti di neve, pronti a sbriciolarsi a ogni vibrazione. Mi supera di poco, rallenta, la sensazione di avere gli occhi di qualcuno puntato addosso. Il vetro del finestrino si abbassa, e un fischio trafigge l'aria. Trafigge anche me. Una manciata di spilli lanciata sul mio petto.

«Ehi, Bambolina, dove vai?» una voce viscida, strascicata, quella di qualcuno che ha bevuto troppo e male. Il terrore mi stringe lo stomaco. Lo stesso terrore che mi ha messo addosso Gideon. Il respiro si blocca, mi guardo attorno, cerco una via d'uscita. Non c'è nessuno. Niente e nessuno fino all'orizzonte.

Cazzo.

Se questo scende sono fottuta.

Affretto il passo, l'auto mi segue, le ruote fanno uno strano rumore andando a passo d'uomo. Il panico cresce come il bianco d'uovo sbattuto dalle fruste, si fa denso e accumula aria, la stessa che si aggrappa ai polmoni e non riesco a buttare fuori. Il beat che ho nel petto va sempre più forte, corro. Corro senza pensare. Corro e basta, come fanno i conigli. Entro in un vicolo, stretta tra i muri di cinta di due case, mi infilo nell'ombra. Sparisco. Sbatto la schiena contro i mattoni della stessa temperatura della notte, il corpo trema, ho il fiato corto. Il mio tallone pulsa.

L'auto passa, lenta, il suono del motore si allontana, ma il terrore resta. Cosa voleva quell'uomo? Cosa avrebbe fatto se fossi rimasta lì? Cosa toccherà a Victor? I pensieri mi travolgono, tutti insieme.

Stringo le braccia attorno al corpo, mi abbraccio da sola, pure se non lo merito.

Chiama Jonas.

Scuoto la testa. Victor non mi perdonerebbe mai. Ha ancora importanza? Probabilmente non smetterà mai di detestarmi. Rido. Un riso che ha il sapore del fiele: il telefono è spento.

Il vento mi brucia la pelle del viso, si insinua nel colletto e nei polsini. Cerca calore di cui nutrirsi e io vorrei dirgli che si sbaglia. Che sono già fredda. Sono già morta.

Vic.

Il suono del suo nome dentro di me si espande, come quello delle campane tibetane.

Trascino le suole sull'asfalto. Gomma nera contro il nero dei sassi. Un rumore secco e monotono riempie il silenzio della notte. Le scarpe mi fanno un male atroce. Me lo merito. Meritavo altro. Di essere al suo posto, suppongo. Ma lui non l'avrebbe mai permesso, perché Victor è così, un eroe del cazzo.

Arrivo davanti a casa mia che ormai è l'alba. Il cielo è tinto di un pallido grigio che sfuma nel rosa, le prime luci del giorno illuminano il mondo che riprende vita. Un rumore secco e monotono riempie il silenzio della notte, uno spazzino accumula le foglie ai margini della strada. Resto incantata a guardare il movimento della sua scopa.

Poi la vedo. Maggie, seduta sui gradini davanti casa di Victor. Mi fermo, il battito arranca, si inceppa.

La mia gelosia ci ha portati qui. Perché saperlo con un'altra era troppo. Immaginare che mi avrebbe dimenticata, inconcepibile.

Quanta pochezza sono stata.

Alza la testa dalla punta delle sue scarpe, e quello sguardo... quello sguardo mi trafigge. C'è accusa nei suoi occhi, un'accusa che mi paralizza, una mano che mi spinge sempre più in basso. Sulla sua faccia c'è una sentenza. Ha ragione. Maggie ha più ragione che mai.

Le parole di Victor mi risuonano in testa.

Forse è di una come lei che ho bisogno. Una che non mi usi come un vibratore.

Abbasso lo sguardo. Non posso reggere il confronto. Non posso affrontarla. So cosa pensa. Che è colpa mia. E ha ragione. Sono io il problema, il motivo per cui Victor non ha pace. Perché non sono mai stata abbastanza sua amica, né sono riuscita a dargli quello che voleva.

Mi allontano, senza dire una parola, senza osare nemmeno un saluto. Cammino verso il retro della casa, i miei passi lenti e pesanti compiono al contrario il percorso. Tutto è identico a prima, solo che ora è giorno e lui non c'è.

Mi fermo davanti alla scala di legno, ancora lì, silenziosa, immobile, proprio come quando Victor l'ha usata poche ore fa. La fisso, mi pare di avercele davanti le sue mani che stringono i lati mentre sale ed entra nella mia stanza. Lui resta nella mia mente e continua ad abitarci. Si muove nelle stanze della mia testa, da una, all'altra, senza bussare.

Immagino come sarebbe stato se non lo avessi trascinato in questa follia. Se avessi fatto quello che il suo corpo mi aveva chiesto e nient'altro. Se mi fossi lasciata usare da lui, in silenzio, senza pretendere nulla, senza volere niente in cambio. Sarebbe stato diverso? Sarebbe stato meglio?

Perché non ho lasciato stare?

Volevo solo ripagare il mio debito. Ecco tutto. Restituirgli qualcosa in cambio di tutto quello che gli ho tolto.

E ho solo continuato a togliere.

Maggie, sembra tutto ciò che io non sono. Colorata. Un'oca perfetta, senza sbavature, senza quel caos che mi porto dentro. Victor ha bisogno di lei. Non di me. Io lo distruggo. Lei lo salverebbe?

Lo salverebbe come lui ha salvato me stanotte?

Perché ci facciamo così male, se ci vogliamo così bene?

I pioli cigolno sotto il mio peso, a ogni movimento il rumore del legno che flette, come se stesse per spezzarsi, si espande nell'aria fredda del giorno agli esordi. Le mie mani tremano, afferrano i lati come se dovessero tenerli assieme, Continuo a salire. Ogni passo è una fitta, un dolore che mi lacera i piedi, le gambe, la schiena.

Victor. Tu come stai?

Il suo nome è una macchia, sangue sulla neve fresca. Il mio pensiero contamina tutto, sporca ciò che era puro tra noi, distrugge quello che pensavo saremmo stati per sempre. L'immagine di lui mi assale mentre compio con difficoltà l'ultimo passo. Di nuovo mi pare di sentire il suo sapore in bocca, il modo in cui mi teneva ferma, come se fossi solo uno strumento, qualcosa da usare.

Una bambola che non prova niente.

Cosa ho provato? Ho la testa vuota e troppo piena insieme.

Una scheggia si infila sotto la pelle dell'indice e una goccia di sangue decora subito il polpastrello bianco.

Le dita intorpidite spingono contro il vetro freddo che si spalanca. Mi intrufolo dentro a fatica, il corpo sembra aver assorbito tutto ciò che ha vissuto. Ogni muscolo grida per lo sforzo, mi lascio cadere sul pavimento della stanza e un brivido si arrampica lungo la schiena. Il pigiama è ancora per terra, appallottolato come un corpo inerte.

Mi trascino fino al letto, le pupille si perdono nel vuoto delle pareti.

Chiudo gli occhi e lui torna.

Lui che mi tiene la mano mentre attraversiamo la strada, il modo in cui si inginocchia e mi allaccia una scarpa. Noi due nella serra, i trucioli di corteccia sotto le nostre dita. La storia di Antares. Il nostro bacio. Quella voglia distorta di averlo. Quella voglia che non riesce a lasciarmi nemmeno per sbaglio.

E poi, lui che mi tiene ferma e si svuota nella mia bocca. Come possono esistere entrambe le versioni di lui? Come possono convivere nella stessa persona?

Sei entrambe le cose? Lo sei. La parte che mi ama è quella che ti ha tenuto lì stanotte. La parte che mi ama è sempre quella che finisce al tappeto. La tua debolezza.

Sono io il tuo tallone d'Achille?

La stanza è piena di lui, anche se non c'è. Ogni angolo è impregnato della sua presenza, ogni respiro che prendo sembra intriso del suo odore, l'aria intorno al mio corpo conserva il suo tocco.

Resto a fissare quel punto buio nel muro dove c'è la nostra foto. So che è ancora lì, anche se non riesco a vederla.

Quella foto esiste ancora, ma noi... noi non esistiamo più.

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Il sole si riversa nella cucina, una luce calda che filtra attraverso le tende giallo pallido e illumina ogni angolo della stanza. Fiori freschi disposti con cura in un vaso al centro del tavolo, i petali aperti in piccole esplosioni di pesca. Il cielo fuori è di un azzurro perfetto e indecente, nemmeno una nuvola, come se qualcuno avesse risucchiato tutto con l'aspirapolvere. È strano come questo spazio ridente strida contro di me, è una scena rubata da un'altra vita quella che ho davanti?

Il piatto che mia madre mi ha piazzato sotto il naso è rimasto intatto. Le uova sode e il pane tostato, il burro di arachidi e la marmellata. Tutto sistemato alla perfezione. Come potrei rompere un simile incanto? Non riesco a toccarli. Il solo pensiero di masticare, di ingoiare, mi provoca una fitta di nausea che risale dallo stomaco.

Il cucchiaio sbatte contro il piatto, il rumore mi trapassa, distorto. Sussulto, il cuore accelera e il rumore continua a rimbombare nella mia testa. I miei genitori sono seduti dall'altra parte del tavolo, mi osservano in silenzio. So che vedono qualcosa. Forse percepiscono qualcosa, il rumore della crepa che si espande, ma non lo dicono. Non chiedono nulla. Sono un'estranea, anche qui, nel mio corpo, nella mia casa. In questa famiglia.

Un turbinio di possibilità mi si agita dentro e si fanno più orribili a ogni secondo che passa. Cosa gli ha fatto? Dov'è lui, adesso? Il pensiero mi toglie ogni forza.

Fisso lo schermo del cellulare accanto al tovagliolo. Uno dei petali si stacca e precipita giù, sfiora il mio dito e resta immobile accanto al mio smalto nero consumato.

Provo a chiamarlo, di nuovo, Victor. Ma non risponde. La linea è morta. E se fosse morto? Se lui fosse morto?

Le mie palpebre si spalancano. Lo farebbe? Gideon farebbe una cosa del genere?

La voce di mia madre interrompe il rumore dei miei pensieri, un suono lontano, ovattato. «Non hai mangiato niente, Blake.»

Non riesco a rispondere. Le parole restano in gola, come briciole di pane che non riesco a tossire via. Lei mi osserva, ma non insiste. Forse non vuole saperlo davvero. Forse ha paura di sapere perché ho questa faccia e lo stomaco chiuso. Perché non sono davvero qui, non più. Sono con Victor, ovunque lui sia.

Il mondo fuori dalla finestra è raggiante. Uno schiaffo di sole a gennaio. Un delirio di luce. Una farsa.

Chiudo gli occhi, cerco Victor dietro le mie palpebre. Il suo viso distorto dal dolore, le sue mani legate, Gideon che lo colpisce.

È colpa mia. Me lo ripeto come un mantra.

Lo umilierà, lo farà soffrire.

Non riesco a immaginare un lieto fine. Non è mai stato previsto un lieto fine. Tutto è logoro.

Uno straccio sporco, come il mio pigiama sul pavimento.

Altre immagini che non voglio vedere, ma da cui non riesco a staccarmi.

Lui a terra, senza vita, il sangue che macchia il pavimento, un rosso scuro che cola sul marmo.

E allora cosa farei?

Il suo corpo piegato, costole rotte. Gideon che lo trascina via.

E se tornassi lì? Se prendessi il telefono e chiamassi Jonas? Lui potrebbe aiutarmi. Lui tornerebbe a casa, e...

Victor non mi perdonerebbe mai.


SPAZIO AUTRICE: Bellezze, come state?

Questo è un capitolo principalmente introspettivo, non succedono grandi cose, se non dentro la testa della protagonista. 

Che successo qualcosa nella sua coscienza? 

L'illuminazione l'ha raggiunta?

Che farà, chiamerà Jonas fregandosene delle pippe mentali sulla reazione di Victor, oppure no?

Sapete che ci stiamo avvicinando al finale? Credo proprio che riusciremo ad arrivarci per la fine del mese!

Sono pronta? Assolutamente no. E Voi?

Baci

Will


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