34 - Pranzo di Natale - 🎄
Victor mi stringe più forte, il calore del suo respiro sulla pelle mi da i brividi. Ogni fibra del mio essere è consapevole della sua presenza, dei suoi muscoli che si tendono contro i miei seni, attorno alle mie ossa. Il battito del suo cuore, rapido e irregolare, risuona all'unisono con il mio. Mai stati sincroni, prima d'ora, noi due.
Mi volto verso di lui, cerco i suoi occhi. C'è una fame lì, un desiderio sporco e rosso che mi lascia senza fiato. Incespico nelle sillabe, balbetto suoni che non esistono.
«Smettila di pensare» risponde, anche se non ho detto nulla che avesse un senso.
Prima che io possa reagire, si avventa ancora su di me, le sue labbra si schiacciano sulle mie con una passione brutale. Un bacio feroce come il morso di un cane. Sto per andare a fuoco e lui lo sa, ha imparato a farlo accadere e poi trova il modo di spegnermi, sempre nel modo peggiore.
Lo accolgo, mi perdo, finisco nella corrente di quei baci. Come una stupida. Ma una parte di me è furiosa, arrabbiata per quello che sta facendo, e per quello che ha già fatto. Per la mancanza di rispetto verso Jonas, che ci osserva senza aprire bocca. Arrabbiata con la parte di me che glielo lascia fare, che si spera. Che venderebbe sua madre per sentirselo addosso ogni notte.
Mi tiro indietro, rompo il contatto di colpo.
«Che cazzo stai facendo?» urlo, sembra sabbia che si incastra in gola la mia voce e quasi tossisco. Il suo sguardo incrocia il mio, i suoi occhi brillano di una luce selvaggia. Non riesco a trattenere la mia mano, che si alza e lo colpisce con uno schiaffo. Il palmo brucia, la guancia di Victor diventa subito rossa.
Resta inebetito, come se non credesse a ciò che è appena successo. Apre bocca, ma lo interrompo. «Vattene. Non ti importa niente di me.» Prendo fiato e mi pare di affogare. «È per Jonas che lo stai facendo?»
Victor scoppia a ridere, una risata amara e cruda. «Fai come ti pare, B.» la sua voce sputa disprezzo. «D'altronde l'hai sempre fatto.»
Abbassa lo sguardo, tra le mie gambe, una specie di risata gli risuona nel torace e lo fa vibrare come le cicale. Allunga una mano verso di me, l'indice scorre sulla mia pancia, sgrano gli occhi e lui finisce tra le mie cosce, proprio al centro. Scivola dove nessuno mi ha mai toccata. Mi mostra il polpastrello umido.
«Gliel'hai detto?» Inclina la testa.
Sgrano gli occhi e azzanno le labbra, sperando che chiuda la bocca.
«Che mi hai implorato di scoparti, glielo hai detto?»
La sabbia che sentivo in gola si trasforma in una tempesta nel deserto. La testa si svuota. Victor quel dito se lo infila in bocca e io vedo rosso.
«Che ti bagni appena ti tocco...»
Si massaggia la guancia arrossata, si china per raccogliere i suoi vestiti. Ogni movimento è lento, controllato, come se stesse trattenendo la rabbia che ribolle sotto la superficie della pelle. Mi guarda un'ultima volta e si riveste. Io resto nuda, vulnerabile, sotto lo sguardo attonito di Jonas che ha le labbra sigillate.
Finalmente si muove, posa il pennello e si avvicina a me. Raccoglie un telo poggiato su un vecchio cavalletto e mi avvolge, copre lo scempio che sono. Chissà cosa pensa, uno come lui, di una come me.
Una persona che non pensa al sesso, e una che ha implorato per un cazzo.
«Blake, stai bene?» gli esce dalle labbra un sussurro gentile. Quanto vorrei che si incazzasse.
Annuisco, anche se dentro ho una tempesta di sabbia che non riesco a controllare e ogni dannato granello continua a graffiarmi. «Sto bene» mi trema la voce.
Victor esce dalla stanza senza dire altro, il rumore dei suoi passi che si allontanano è l'unico suono che ci regala uscendo. Un pezzo di me è andato via con lui e qualcosa mi dice che non fosse la mia parte migliore.
Non dice niente, Joh, mi aiuta a vestirmi, le sue mani sono gentili proprio come la sua voce, ma il suo tocco non riesce a scaldarmi. Dentro di me c'è un freddo strano, un gelo che non somiglia al candore della neve.
Sono ghiaccio sporco, che alla fine si scioglie e diventa una pozzanghera.
Victor, il suo bacio, la sua risata crudele.
Mi siedo sul cubo, tiro la maglietta che Jonas mi ha appena infilato e la spingo verso i fianchi. Il drappo blu sotto le mie cosce bianche sembra un dettaglio fuori posto.
Il blu non è il mio colore.
C'è una storia in queste tele che non sono sicura di voler conoscere fino in fondo.
Il Taglio. Il coltello. Il cerotto.
Il silenzio tra me e Jonas si amplifica. Porto una mano sugli occhi, cerco di scacciare via il dolore che pulsa nella mia testa, di sciogliere i nodi che sembrano formarsi sotto la pelle, nei muscoli e nei pensieri.
Alzo lo sguardo, lui si accende una sigaretta e torna dietro alla sua tela. Il fumo si spande lento nell'aria, disegna spirali pigre che danzano nello spazio che ci divide. Mi mordo le labbra, le parole mi si accalcano in gola, la pressione delle sillabe cresce fino a diventare insopportabile: «Non gli hai detto niente, Joh...» mi esce una specie di lamento. «Mi è saltato addosso davanti a te e tu non gli hai detto niente.»
Jonas alza la testa dal dipinto che sta ancora osservando, i suoi occhi sono distanti.
«Mi sembra che tu sia perfettamente in grado di farti valere, o no?» cicca la sigaretta per terra. Butto un'occhiata al pavimento, dove i mozziconi giacciono come se fossimo per strada.
Mi mordo di nuovo le labbra, fino a sentire il sapore del sangue. «Ti sta bene?» deglutisco, il nodo in gola è quasi insopportabile. «Che lui mi tocchi, a te sta bene?»
Jonas si tira indietro i capelli spettinati con la mano libera, il suo sguardo è strano, le guance gli diventano rosse. «Sì, mi starebbe bene, se lo volessi tu.»
La sua risposta arriva come un pugno allo stomaco. Non so cosa dovevo aspettarmi, ma di certo non questa freddezza, questa specie di indifferenza mascherata da comprensione. Mi alzo, il drappo blu cade a terra. Mi avvicino a Jonas, col respiro irregolare e le mani che tremano.
«Che stronzo...» inizio, un singhiozzo mi rimbalza in gola.
Spegne la sigaretta con un gesto distratto, il suo sguardo è fisso su di me, ma sembra guardare oltre, come se cercasse qualcosa che non riesce a trovare. Qualcosa che non è qui, e di certo non sono io.
«Ti capisco più di quanto pensi, Blake» la sua voce è calma, ma c'è una tensione sottile, un filo di rabbia trattenuta. «Non sono cieco. Vi vedo.» Mi indica i quadri intorno a noi. «Quello che non capisco è perché continui a tormentarti, e perché lui sembra fare lo stesso.»
Abbasso lo sguardo, fisso il pavimento sporco. Cenere grigia sul marmo. Ovunque.
Fa un passo verso di me, la sua mano si posa sulla mia spalla con un tocco leggero. «Forse è il momento di smettere di cercare di mettere ordine e accettare il caos.» Alza le spalle: «Certe volte penso che il cervello della gente sia pieno di merda.»
«Che vuoi dire?» Aggrotto le sopracciglia.
«Ognuno dovrebbe prendersi quello che vuole, io volevo il tuo amore e volevo darti il mio, per quello ho fatto uno sforzo.»
«Uno sforzo?»
«Ti ho detto la verità.»
Rido: «Il punto non è quello.» Scuoto la testa. «Potevo sputarci sopra alla tua verità.»
«Puoi farlo adesso.»
Le sue parole mi risuonano dentro come cocci che si frantumano a terra. Mi allontano da lui, cerco di respirare a fondo per calmare il tumulto che mi si agita dentro.
Puoi farlo adesso. Mi sta dicendo che se non mi sta bene com'è, posso lasciarlo? È questo?
Jonas mi segue, annulla la distanza che metto tra noi. «Vuoi che io sia geloso? Che ti tratti come una cosa mia? Tu non sei una cosa e non sei mia.» La sua voce è un sussurro, ma mi raggiunge lo stesso.
Ora che è troppo vicino mi accorgo di avere soltanto una maglietta addosso, chiudo d'istinto le gambe. Non so perché, ma non voglio che lui mi guardi lì, tra le cosce. È un gesto istintivo, una difesa automatica. Eppure, quando Victor mi guarda, quando mi tocca, il mio corpo si scioglie e anche se non vorrei, niente di me vorrebbe chiudersi. Ogni fibra dei miei muscoli si rilassa sotto il suo tocco, come se fossi fatta di cera che si fa morbida al calore del fuoco.
La luce che arriva da fuori crea ombre morbide che danzano sulle pareti, sui nostri corpi. Le tele intorno a noi ci guardano. I miei occhi e quelli di Victor.
Jonas insiste, si avvicina ancora, allunga una mano fino a sfiorarmi la coscia. Il suo tocco è leggero, ma una scossa mi attraversa lo stesso. Ogni strato di difesa è crollato.
«È per me che lo hai fermato?» Jonas inclina la testa.
Lo guardo, spalanco gli occhi. La sua domanda mi disarma. «Tu mi ami?» la mia voce è un sussurro spezzato e incredulo.
Jonas risponde annuendo, il suo viso è serio.
Le parole si formano lente, ogni suono ha il peso del piombo. «E saresti stato a guardare, mentre lui...»
... ... ...
La cucina è troppo grande e lussuosa per sembrare adatta a riscaldare cibo surgelato. Jonas armeggia con il microonde, il ronzio dell'elettrodomestico è l'unico suono che riempie l'aria. Il pranzo di Natale è un paradosso in questo ambiente, dove ogni dettaglio urla opulenza, tranne quello che metteremo nei piatti. Fuori, la neve continua a cadere, i fiocchi danzano leggeri come cenere, vanno a morire l'uno sull'altro in un cimitero candido.
Victor, come sei tornato a casa, il 25 dicembre, in una Londra sommersa dalla neve. Hai sentito freddo?
Sistemiamo la tavola in silenzio, ci scambiamo qualche occhiata veloce. La discussione che abbiamo appena avuto risuona distorta. Mi chiedo se abbiamo litigato davvero o se è solo la mia mente che amplifica tutto. Deglutisco, qualcosa mi stringe la gola.
Jonas mi passa i piatti, le sue mani sono fredde come la porcellana che stringe, e il suo viso sembra stanco.
«Abbiamo litigato?»
Jonas alza le spalle. «Io non volevo litigare con te.»
Apparecchiamo come due robot, le posate tintinnano contro il legno del tavolo. È surreale, quasi comico, ma nessuno di noi ride.
La verità è che tutti hanno ragione, a parte me. Ho implorato Victor di farlo, di toccarmi, di scoparmi. Di darmi sollievo. Il pensiero mi stringe il petto, un miscuglio di eccitazione e vergogna che non riesco a scrollarmi di dosso.
Jonas posa il coltello e si avvicina. La neve continua a cadere fuori, silenziosa e pura. Il calore della cucina si scioglie nella condensa che riga il vetro. Prende una posata, la sistema accanto al piatto e mi guarda con un'espressione che non so decifrare.
Mangiamo in silenzio, il suono delle stoviglie è l'unica cosa che riecheggia nella stanza. Ogni colpo di forchetta contro il piatto è amplificato, un'eco nel vuoto di un pranzo di Natale che di natalizio non ha niente. Lui è seduto dall'altro lato di un tavolo troppo lungo, in un salone troppo elegante per il cibo surgelato che stiamo consumando e per gli abiti che abbiamo addosso. Le pareti alte, adornate con ritratti e specchi dorati, ci osservano con una freddezza aristocratica. Da qui non riesco a vedere il giardino. Vorrei sdraiarmi davanti all'ingresso del labirinto finchè il bianco non mi cancella del tutto.
Alzo lo sguardo dal mio piatto e Joh pare incorniciato, un dipinto anche lui e mi guarda come se non riuscisse a mettere insieme le parole che vorrebbe pronunciare. Poso la forchetta e il rumore metallico riempie l'aria. «Avanti, dillo. Ti si legge in faccia che c'è qualcosa.»
Alza la testa, i suoi occhi verdi trovano i miei, un mezzo sorriso appare sulle sue labbra rosa. «Non me ne importa un cazzo, è questa la verità.»
Il mio cuore ha un sussulto.
«Se lui vuole scoparti, se è innamorato di te, non mi importa.» Si morde le labbra, quasi con violenza, poi continua: «Anzi, a me piace. Quello che c'è tra voi, mi piace. E prima per un attimo ci ho sperato.»
Provo a buttare nell'esofago un goccio d'acqua e mi trattengo dall'istinto di mordere il vetro del bicchiere, ma i miei denti continuano a sbattere piano sul bordo. Poso le mani sul tavolo, le mie dita bianche contro il legno scuro, prendo un profondo respiro, cerco di mantenere la calma. «Hai sperato che lui mi scopasse? Perché? Per liberarti dal senso di colpa per non averlo fatto tu?»
La faccia di Jonas si rabbuia, le ombre giocano con le linee del suo volto. «Volevo vederti godere.»
Anche lui beve.
Resto in silenzio. Il cuore mi batte forte nel petto, una rabbia sorda e un desiderio inconfessabile che si mescolano nel tumulto del sangue. Jonas abbassa lo sguardo, poi lo rialza. «Volevo vederti godere,» ripete, come se avesse bisogno di convincersi che è la verità, la sua mano resta sospesa sul tavolo con il calice in mano.
La luce bianca della neve rischiara la stanza in modo surreale. Il calore del fuoco nel camino alle mie spalle si irradia nelle mie vertebre, eppure ho freddo. «E pensi che questo risolva qualcosa? Che vedermi con un altro possa... cosa, renderti felice?»
Jonas scuote la testa, un sorriso triste sulle labbra. «Non è questione di felicità, è questione di accettazione.»
Mi massaggio le tempie, qualcosa di me vorrebbe solo che la notte arrivasse per vederci dormire. Mi guarda, i suoi occhi riflettono una luce simile a quella che gli riempie lo sguardo quando dipinge. «Hai ancora fame? Vuoi finire quello che hai nel piatto?»
Scuoto la testa, il cibo è un peso morto che galleggia nello stomaco. Non riesco a mangiare altro. Lui posa la forchetta con un gesto deciso, quel tintinnio si ripete dentro di me anche quando il suono scompare.
«Vuoi venire con me in camera da letto?»
Lo fisso, cerco di capire le sue intenzioni. «Perché ci vuoi andare?»
Jonas mi risponde senza esitazione, la sua voce è bassa, ma gli occhi no. «Ho ancora voglia di vederti godere.»
Il suo tono mi fa tremare le gambe. Cerco di mantenere la calma e gli chiedo: «Come, se non vuoi toccarmi?»
«Vuoi venire con me?»
Annuisco, mi lascio trascinare dalle sue parole, ancora prima che da lui. Jonas si alza e mi prende per mano. Il contatto delle sue dita mi tranquillizza. Abbandoniamo i piatti sul tavolo, il calore del cibo si disperde nell'aria del salone dietro di noi. Camminiamo verso la sua camera. La porta si apre con un leggero cigolio e sgusciamo dentro. Al track si chiude, isolandoci dal resto del mondo.
Joh si sfila il maglione con un movimento fluido, poi si slaccia la cintura, la fibbia tintinna, metallo contro metallo. La luce lattiginosa che entra dalla finestra disegna ombre morbide sul suo corpo troppo magro. Rimane con addosso soltanto i boxer e la camicia sbottonata, mi guarda con un'espressione indecifrabile. «Ti dispiace se faccio io?»
Non riesco a capirlo, ma annuisco. Lui si avvicina, inizia a sfilarmi i vestiti. Ogni pezzo di stoffa scivola sul pavimento. Le sue mani sono calde e ferme sui miei fianchi. «Posso togliertele?» chiede, riferendosi alle mutandine.
Deglutisco, il cuore mi esplode nel petto. Faccio un cenno di assenso e lui le abbassa piano, lascia che quel leggero strato di cotone finisca per terra con tutto il resto. Si sposta dietro di me, le sue mani cingono il mio corpo con una delicatezza nuova. Poggia le labbra sulla mia nuca e mi bacia, un bacio leggero che si sposta lungo la mia spina dorsale e percorre ogni vertebra. Risale fino alle orecchie, le guance, il collo. Le sue mani sono ferme sulla mia pancia.
Joh sospira, il suo fiato caldo mi accarezza la spalla, provocandomi un brivido.
«Ti prego, toccati per me.»
Spazio Autrice: Amori miei festeggiamo il fatto che nonostante la follia di Blackthorn l'autrice sia riuscita a scrivere il capitolo che vi aveva promesso!
Come sempre fatemi sapere cosa ne pensate, se le cose stanno prendendo la piega che vi aspettavate oppure no.
Giochiamo a indovina il finale?
A chi va di indovinare i prossimi sviluppi?
Vi abbraccio tutte e vi ringrazio tanto, perché Burning esiste solo grazie a voi!
Baci
Will
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