3 - Fiori dalle ferite - 🌼
(POV Jonas)
14 novembre 1999
L'odore dei colori a olio ha impregnato la stanza. Il pennello affonda nella tavolozza, mescola un giallo ocra al bianco e al rosso. Una punta di blu, giusto un accenno. Le setole si espandono e amalgamano il colore, sulla tela le linee di matita si intersecano, oltre, sul letto, il culo di Beth, sul resto del suo corpo ho appiccicato fiori di serra. Orchidee fiorite per sbaglio, ignare che sia novembre. Sembrano farfalle, e sembrano vagine. Rosa, viola e gialle. Spalancate sulla sua pelle ricoperta di efelidi. Ho creato una strana creatura partendo dal suo corpo anonimo. Gli steli si tengono su con i cerotti, come se dalle ferite sbocciasse qualcosa.
Victor ti darebbe del coglione. La vocina nella mia testa sussurra. Deglutisco. So come farla tacere.
Lascio il pennello sul bordo del cavalletto e allungo la mano verso la scrivania. La canna è già girata, chiusa alla perfezione, infilo il filtro in bocca e accendo.
«Fai fumare anche me.»
«Hai un fottuto radar in quella testa.»
«Non serve un genio a riconoscere il rumore dell'accendino.» Ride. I fiori sul suo corpo vibrano come se ci fosse vento.
Mi avvicino a lei, aspiro avido il fumo, mi riempio i polmoni e lo tengo dentro. La luce di mezzogiorno filtra dalle tende di pizzo e disegna ombre che sembrano ricami sui suoi fianchi. Fumo ancora e mi inginocchio davanti al letto.
«Non farmi andare a fuoco le coperte.» Avvicino lo spinello alle sue labbra rosa, le dischiude e aspira. La sua bocca preme contro i miei polpastrelli. Allontano il filtro.
«Dai, fammi fare un altro tiro!»
La accontento. Beth chiude gli occhi, le ciglia si abbassano verso le guance. Il raso blu circonda il suo corpo. Pare fluttuare in mare aperto, nello spazio infinito del cosmo. Torno a dipingerla, rannicchiata in un niente freddo e distante. Il fumo ha reso morbide le cose, il modo in cui il pennello scorre sulla tela bianca, il fluttuare delle ombre, il mio corpo che a intervalli regolari pare risucchiato dal muro alle mie spalle.
Continuo a riempire di colore la tela e un moto ondoso mi riempie la testa. Elizabeth si è addormentata sul letto, coperta di fiori e cerotti. La sua mano ricade oltre il bordo con una morbidezza che non avrebbe da sveglia. Mi concentro sulle sue dita, immortalo il modo in cui le falangi si chiudono senza alcuna tensione. Vorrei tenesse questa posa per sempre. Il sonno la rende libera da tutto, cancella ogni resistenza. La sua gamba si allunga lenta, finché il piede non sfiora il ricamo sulla trapunta. Mi guardo attorno, il sole sta per tramontare oltre le siepi che delimitano il labirinto, ho mezz'ora, forse neanche quella. Poi ci ricopriremo entrambi di ombre. La stanza sprofonderà nel buio, e noi al suo centro. La polaroid sulla mensola, ecco la soluzione al problema. Giro intorno al letto, il respiro regolare muove la sua cassa toracica, la spalla, le sue labbra dischiuse. Un raggio di luce risplende d'oro sulla sua coscia, l'ombra di un fiore sul fianco: questo è l'attimo.
Torno dov'ero. Cerco l'inquadratura perfetta Posiziono il dito sul fottuto pulsante rosso. Il rullino è scaduto da anni, non so che ne verrà fuori, ma cazzo, ci spero. Lo schiaccio. Quel rumore meccanico e strano riempie la stanza e Beth si muove. Infilo la foto nera in un quaderno e lo chiudo. Mi avvicino di fretta, inquadro quella mano che spunta dal blu, ripeto l'azione. Lei si volta, gli occhi verdi si spalancano e mi guardano.
«Sei un cazzo di maniaco, ha ragione mio padre.»
«Tuo padre è uno stronzo, e quando beve peggiora.» Sorrido.
Beth allunga la mano verso la foto, la vuole. La sfilo dalle sue falangi e la sistemo tra le pagine di Fight club.
«Deve stare al buio per potersi sviluppare.»
Ha l'espressione ancora mezzo addormentata. «Come i semi?»
«Come i semi.»
Mi piace il modo in cui parla, come sceglie le parole.
«Hai finito il dipinto?»
Scuoto la testa. «Però ti ho fatto una foto, così posso continuare anche quando te ne sarai andata.»
«Che ore sono?»
«Le quattro.»
Beth si sistema sul letto. «Devo andare a studiare per il compito di matematica.» Sbadiglia. «Toglimi questi cosi di dosso.»
Mi siedo accanto a lei, mi da la schiena. Si stiracchia. Allungo le dita e distruggo quello che ho creato. Stacco i cerotti, uno dopo l'altro. Porto via tutti quei fiori colorati e la lascio nuda. Tolto l'ultimo stelo, Beth torna ad essere Beth. Non più l'essere su cui sbocciano i fiori. Non la modella. Solo l'amica. La ragazza che si fida così tanto di quello che faccio da togliersi tutto e lasciarsi manipolare fino a diventare tutt'altro.
«Torni martedì?»
«Lo sai che ho teatro.» Inclina la testa. «Dovresti provare.»
«Non sono un attore.»
Si infila la maglietta bianca e poi subito il maglione dello stesso colore. «Forse no, però sei un artista.» Sembra pensarci prima di aprire di nuovo bocca, ma poi lo fa: «Ogni artista dovrebbe sapere cosa si prova a essere qualcun altro.» Sorride.
«Dici?»
Si alza, gli occhi mi finiscono tra le sue gambe.
«Se lo sapessi, eviteresti di fissarmi la fica.»
«È solo una parte del corpo. Un pezzo di carne.»
Recupera le mutande appese al pomello del mio comò e se le infila. «Siamo tutti pezzi di carne, però siamo pure altro, no?»
«Sì.» Abbasso lo sguardo e le sue gambe spariscono nei Levis.
«Ti sto facendo un favore, Jonas. Non farmi cambiare idea.»
Sbuffo. Lei raccoglie la sua roba, infila il lettore CD nello zaino e se lo infila sulle spalle. Una linea di luce fa risplendere i suoi occhi verdi, poi la stanza finisce nella penombra grigia. Beth si avvicina, le sue labbra premono sulla mia guancia.
«Sei un coglione.»
«Sei una stronza.»
Ride. La sua mano afferra la maniglia della porta.
«Aspetta, ti lascio una canna.»
«Se fumo a casa mio padre mi ammazza.» Si gira e sorride amarissima.
«Esiste il veleno per topi, fanne buon uso.»
Scompare oltre la porta, la sua voce mi arriva ovattata: «Ce la fumiamo lunedì a scuola.»
«Va bene.»
Il tlack metallico e lontano del portone che si chiude tarda ad arrivare. Mi schiaccio contro la finestra e il mio fiato appanna il vetro. Nessuno esce. L'auto di mio padre è parcheggiata nel viale. Il maggiordomo trascina i bagagli sotto il portico.
Cazzo.
Mi precipito fuori, attraverso il corridoio avvolto nel blu che segue il tramonto e raggiungo l'uscita. Lei è in piedi davanti a loro. La squadrano come se fosse un ratto sorpreso a rovistare nei loro avanzi.
Ecco, Beth, per loro sì, sei solo un pezzo di carne e non della migliore qualità.
Vorrei dirglielo, invece deglutisco e mi faccio avanti, sorrido e do una pacca sulla spalla dello stronzo con cui divido metà del corredo genetico.
«Elizabeth se ne stava andando, mi ha dato una mano a studiare.»
Le narici del bastardo si muovono, annusano l'aria. Annusano me.
«Si, come no...»
Beth sguscia via.
«È stato un piacere, scusate ma i miei mi stanno aspettando.» Attraversa il viale, il suo zaino sobbalza sulla schiena, sparisce oltre il cancello. Restiamo noi tre. Mia madre è annebbiata, gli occhi spenti di chi non dorme da giorni, le labbra dipinte di un rosso perfetto. Lui odora di tabacco. Sigari arrotolati a mano, che costano un occhio.
«Hai due occhi che fanno spavento.» Mi dice.
Lei invece sta zitta.
«Anch'io vi trovo bene.»
Gli do le spalle e torno indietro. L'unica cosa che so fare quando ce li ho davanti.
Andare indietro.
Il contrario dell'evoluzione.
Me ne torno al buio, Beth, come fanno i semi. Così, magari, un giorno qualche cosa sboccia.
Grazie per avermi detto che sono un artista.
SPAZIO AUTRICE: Ciao amori, come state?
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. ^^ Cosa ne pensate di Jonas e del suo POV? Ora che cominciate ad avere una piccola panoramica sui due personaggi maschili, preferite Jonas o Victor?
Vi abbraccio forte
Will
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