14 - La finestra - 🖤

(POV Blake)

Mia madre mi fissa senza l'ombra di un'espressione sul viso, l'altro genitore nasconde male una risata dietro le mani.

«Non ti bastava avere una media bassa, dovevi farti pure sospendere.» Forse c'è un punto interrogativo alla fine della frase, ma io non lo sento, o forse colei che mi ha partorita con gran dolore ha smesso di farsi domande su di me.

«Era solo uno stupido film, non ha rapinato una banca.» Mi pare di sentirle le unghie di mio padre che si arrampicano sullo specchio al posto mio.

«Un porno, Ludwig.» Quando lo chiama per nome non è buon segno e, Diavolo, come ha scandito bene la parola porno. Mancava poco che ci facesse lo spelling.

«Li vedono tutti, i porno. Se fosse stata un maschio non staremmo nemmeno qui a discuterne.» Mio padre non capisce proprio perché ne stiamo parlando e tutto sommato nemmeno io. Vorrei solo farmi una canna e mettermi a dormire.

«Non era mio.» Lo dico, ma da come mia madre scuote la testa capisco che credermi non è nelle sue intenzioni.

«Ah no?»

«L'ho trovato per terra in una custodia dei Doors e ho provato a metterlo nel lettore, però non si sentiva.»

Mio padre sbuffa. «Vedi Clare, se tu non facessi la stronza nostra figlia non ci direbbe cazzate!»

Mia madre sbotta in una risata che non ha nulla di divertente. «Quindi sono io il problema?» Le sue mani si stringono a pugno sul tavolo, sopra alla tovaglia ricamata all'uncinetto. «Io, Ludwig?» Sgrana gli occhi. «Non tu, che le hai insegnato come si gira uno spinello?»

«Mi pare che il problema fosse di natura diversa.» Papà socchiude gli occhi.

«Il rispetto delle regole, ecco la natura del problema.» Mamma guarda me e poi di nuovo suo marito.

«È adulta e vaccinata, se vuole farsi una canna o guardare un porno non credo morirà nessuno.» Papà deglutisce. «E sai che ti dico?»

«No, che mi dici?»

Mi incanto a fissare i tulipani gialli al centro del tavolo, così belli da sembrare finti. Gli steli verdi, perfetti, affogano nell'acqua limpida. Vorrei affogare anch'io, ficcare la testa in una pozza d'acqua e smettere di sentire le loro voci.

«Andrò a scuola e mi incazzerò.»

Lei lo guarda, inclina la testa: «Ti incazzerai...»

«Certo, perché questa è stata una violazione della privacy bella e buona.» Mio padre si blocca, si volta verso di me e continua: «C'era il tuo nome sul lettore, giusto?»

Annuisco.

«L'unica cosa che doveva fare quel Mike era riconsegnarle il lettore, non mettersi a frugare nella sua roba.» Deglutisce. «E poi non capisco perché abbiano chiamato te e non me quando è successo. Che c'è, un padre non ha il diritto di sapere cosa succede a sua figlia?»

Mia madre si alza, prende la caraffa piena di caffè alle sue spalle e se ne versa un po' in una tazza, è sbeccata, ma lei non la butta, ce l'ha da sempre, da prima che io nascessi. «Te lo chiedi pure, il perché?» Parla nella ceramica, con gli occhi persi nel fondo della tazza. «Tua figlia si porta i porno a scuola e tu ti metti a fare l'avvocato delle cause perse.»

Mi alzo, risistemo la sedia a ridosso del tavolo, la luce del sole mi sfiora le mani, fa brillare gli anelli.

«Dove vai?» Mia madre mi ringhia contro.

«Mi metto in punizione, visto che non riuscite a decidere lo faccio io al posto vostro.» Cammino, attraverso la cucina, nel disimpegno a ridosso delle scale la luce sparisce, mi ritrovo immersa nell'ombra. Con un piede sul gradino, ci riprovo: «Ho due grammi di fumo nella tasca dei jeans, ma i porno non me li vedo, perciò mi dispiace, ma avete torto tutti e due.»

«Vattene in camera e restaci, Blake!»

«Sì, mamma, l'idea era proprio quella.»

«E dammi il tuo telefono.»

Chiudo gli occhi e una rabbia apatica mi si spalma addosso. Ecco cosa mi provoca la sua voce fatta di ortiche. Infilo la mano nella tasca, tiro fuori il cellulare e lo lascio sul mobile dell'ingresso, tra le chiavi di casa e i gattini di ceramica fatti a mano da mia madre. Cristo, se vorrei buttarglieli tutti per terra.

Mi volto, sotto l'arco c'è mio padre illuminato di taglio dalla lampadina gialla del salotto, dietro di lui il fuoco del camino scoppietta. Mi guarda e sembra dirmi ti credo. Fa un cenno con la testa, ricambio e mi levo di torno, lo lascio di sotto a prendersi gli imprechi di mia madre, l'elenco delle sue motivazioni feroci. La lista degli errori che ha fatto, tutto ciò che lo rende un padre di merda.

Io e lui sappiamo che non è così, eppure non riusciamo a spiegarlo alla mamma.

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Cala la sera, la stanza si riempie di un blu depressione che pare invocare una dose massiccia di fluoxetina. Io vorrei calarmi dalla finestra con una corda. Vorrei calarmi e basta. Butterei in corpo qualsiasi cosa. Mi rigiro nel letto da un'ora, mi ci sono messa che c'era ancora luce nel cielo, abbastanza da rischiarare la carta da parati a fiori, troppo rosa. Il buio appiattisce i colori e alla fine li ingoia, puoi essere qualsiasi cosa, pure una peonia bellissima, un tripudio di petali, quando il nero ti prende smetti di esistere. C'è democrazia nella notte, la stessa che c'è nella morte.

Diventa nero fuori, non faccio lo sforzo di alzarmi per chiudere le tapparelle. Resto immobile, eppure la testa va veloce, corre verso l'abbraccio di Jonas sotto l'albero del parco, davanti al bus, sulla panchina nel giardino dismesso della scuola.

Ti faccio schifo?

Quella domanda mi riecheggia dentro. Nella testa, nel torace, in ogni parte nascosta del corpo. A ogni eco distorta rispondo di no. E, se è vero che non ho mai guardato un porno, ora vorrei vedere quello. Sapere cosa gli accende la testa, davanti a cosa si masturba. Deglutisco. Avrei voluto chiederglielo. Sei gay, Joh? Ti piacciono i ragazzi, o questa è solo una cosa che fai, un esperimento per capire chi sei? Chi sei, Joh, l'hai capito alla fine?

Qualcosa batte sul vetro, forse un ramo del salice mosso dal vento. Di nuovo, una specie di ticchettio insistente, apro gli occhi e una sagoma più scura della notte si disegna oltre il vetro. trattengo un grido e mi ripeto che i ladri non bussano. Mi separo dal piumone e raggiungo la finestra, la apro e il gelo invade la stanza, seguito da Victor.

«Ti ho chiamata duecento volte.»

«Madre mi ha tolto il telefono.»

«Potevi spegnerlo prima di darglielo, evitavo di pensare che non volessi rispondermi.»

Mi butto sul letto a peso morto, mi copro. Lui non mi ha risposto per due giorni nonostante avesse il cellulare, ma fa lo stesso.

«Mia madre dice che devi smettere di usare la scala del capanno: è vecchia, rischi di sfracellarti.» Sbuffo contro il cuscino.

Victor si toglie il cappotto, lo lascia sulla spalliera della sedia e si toglie anche il resto. Piega le sue cose e le sistema con ordine. Anche al buio riesco a percepire quel modo ossessivo di fare ogni cosa.

Si infila sotto le coperte e mi abbraccia.

«Sei gelato.»

I suoi polpastrelli mi sfiorano la vita scoperta, mi risistema la maglia del pigiama, incastriamo i corpi sotto le lenzuola.

«Adesso mi scaldo.»

Respiro il suo alito. Chiudo gli occhi e mi sembra di sentire la calma entrarmi nella pelle attraverso il suo tocco.

«Era tuo il CD?»

«Perché vuoi saperlo?»

Victor deglutisce. Il suo respiro diventa strano. Mi si stringe addosso così forte che mi manca l'aria. «Dimmelo e basta.»

«No, che non era mio.» Un filo di rabbia mi si insinua nella voce.

«Allora perché non hai insistito?»

Rido. «Perché non mi avrebbe creduto nessuno?»

«Se non avessi fatto quel numero da pazza io ti avrei difesa.»

Indietreggio, ma le sue mani mi bloccano. «Potevi difendermi lo stesso.»

«Sì?»

«Sì.»

«Devi imparare a vivere B. La devi smettere di fare cazzate.» La sua voce è un sussurro imbevuto di rabbia.

«Quali cazzate, avrei fatto?» Sbuffo contro la sua guancia.

Victor ride, una risata rassegnata che gli fa tremare il petto. «Parlare delle mie poesie?» Si ferma. «Ficcarmi la lingua in bocca davanti a tutta la scuola?»

Provo a spostare il suo corpo che pare un macigno. «Stavo giocando l'altro giorno.»

«Già.» Una sola parola gli esce dalle labbra. Questo letto è diventato troppo piccolo, la stanza troppo stretta. L'aria troppo poca. La sua erezione preme contro la mia gamba.

«Lasciami, Vic.»

«No.»

«Cazzo, lasciami, mi manca l'aria.» Il cuore mi rimbomba dentro, nel petto e nella gola.

«Sto giocando anch'io.» Il suo tono svuotato mi fa scorrere un brivido addosso, più delle dita gelide che pochi minuti fà mi ha posato sulla pelle.

«Mi fai paura.»

Quella morsa di carne si apre e il mio corpo rifiata. Tiro un sospiro, mi stringo le mani al petto, forse solo per mettere uno strato tra noi due.

«Mi fai paura anche tu, Blake.»              

SPAZIO AUTRICE: Qui mi sa che c'è parecchio da dire e da chiedere!

Come avrete capito la famiglia di Blake è particolare, che ne pensate dei suoi genitori?

La discussione tra B e V come vi è sembrata? Voi che amate tanto Victor, come vi è parso in questo capitolo? State inquadrando meglio il personaggio?

Lasciatemi tutte le vostre impressioni qui.

Baci

Will

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