CH. 5.3: Fino all'alba
Victoir si era proibito di rimuginare su quanto di leale ci fosse nelle sue vittorie, i ragionamenti autodistruttivi erano più adatti a scontrarsi con un soffitto bianco nell'attesa del sonno.
Era sicuro che, se avesse indugiato, sarebbe stato risucchiato nell'ennesimo vortice da cui non poteva riemergere: gli ingranaggi che azionavano quella macchina infernale chiamata cervello, nel suo caso, erano oliati a sfiducia in sé stesso e autosabotaggio. Ironico che ciò fosse venuto a galla proprio ora che, per la prima volta dopo tanto tempo, non c'era nessuno a trattarlo come una bestia da tenere a bada.
Tutta l'aria che aveva nei polmoni decise di fare un tuffo verso l'esterno. Mentre il sospiro si perdeva nel baccano circostante, Victoir spinse i polpastrelli contro le tempie pulsanti. Ecco perché odiava pensare: era deprimente persino per un apatico.
«Myosotis!»
Una generosa pacca sulla spalla spezzò il filo dei suoi pensieri prima che potesse stringersi attorno al suo collo. Victoir accettò il bicchiere porto da Paeonia e ne analizzò il contenuto con disinteresse: icore. Tanto per cambiare. Da quando aveva messo piede nel Sidh non aveva ingerito altro: di cibo, nella patria della magia, non ce n'era proprio. Un quantitativo minimo di icore provvedeva al fabbisogno tanto per i fear sidhe quanto per lui, l'unico neo stava nell'accettare di ingerire una sostanza sconosciuta.
Ringraziò con un cenno e bevve un sorso, trovando immediato ristoro nell'ormai familiare sostanza zuccherina e densa così simile al miele. Dopodiché reclinò la testa verso Paeonia, in procinto di prendere posto su quella che ormai era considerabile la loro panchina. «Da dove viene?»
Il ragazzo strabuzzò gli occhi. «Hm? In che senso?»
«Dove l'hai preso?»
«Ehm... dal tizio delle bevande?»
Ma certo, il tizio delle bevande, avrebbe dovuto pensarci. L'icore era ovunque sulle arche, mica tutti i fear sidhe avevano l'hobby di svenarsi per stipulare patti con gli stranieri.
«Comunque, a parte le tue domande strane... come ti senti?»
«Meglio.»
Il fondo levigato del bicchiere aveva un che di rilassante, se comparato al portone oltre il quale l'arena era in febbrile delirio in attesa della finale. Come previsto, Aristea aveva conquistato la cima della graduatoria senza difficoltà, a differenza di Victoir che, pur sbalordendo tutti, si era fatto strada a fatica, a suon di fallaci imitazioni dei maighstir-dannsaidh e cazzotti risolutivi. Un'atroce quantità di calci riecheggiava ancora su tutto il suo corpo indolenzito, ma ciò non gli aveva impedito di diventare il primo esordiente ad arrivare in finale.
L'amara verità era però che nessun fear sidhe, neanche il re del triplo salto mortale con doppio avvitamento, era abbastanza per buttare giù un mezzo vampiro. E questo non solo riaffermava la fondatezza delle preoccupazioni della Black Court e degli Undici sul suo conto, ma lo rendeva indegno degli applausi e dell'ammirazione che gli piovevano addosso ogni volta che metteva piede nell'arena.
Dal fondo dello spogliatoio, il guardiano delle porte, un filiforme clone di qualunque altro fear sidhe, gli fece il suo quinto cenno della nottata. Per la prima volta, Victoir sentì un moto di ansia agitarsi sotto la pelle. Abbassò la testa, inspirando l'aria impregnata dell'odore dolciastro dell'icore.
Paeonia gli prese entrambe le spalle tra le mani. «Hey, hey, cos'è quella faccia da cucciolo di foca che ha perso la mamma? D'accordo, stai andando a farti massacrare da Aristea, ma essere arrivato a questo punto è incredibile! Non so cos'hai fatto finora, ma, credimi, hai sbagliato mestiere!» lo scosse con forza, tempestandolo di pacche. «Capito, amico? Hai spaccato!»
Impossibile da trattenere, uno sbuffo di risata scappò dalle labbra di Victoir. Il cacciatore alzò la testa, incontrando lo stupore che sbarrava gli occhi nocciola del fear sidhe.
«... porco squalo, Myosotis, tu sai ridere!»
«La smetterai mai di avercela con la mia faccia?»
Riconsegnato il bicchiere a Paeonia, Victoir si congedò con un cenno d'intesa; non sapeva quale fosse il significato nascosto dietro quel gesto, ma sentiva di averne bisogno. Attraversò lo spogliatoio ormai deserto. Loro due e il custode del portone erano gli unici rimasti tra quelle quattro mura chiare fino a rasentare l'abbagliante. Tutti i Fianna sconfitti avevano preferito godersi lo spettacolo dagli spalti, ma pochi se n'erano andati senza lanciargli uno sguardo incuriosito. Non c'era risentimento negli occhi di quei guerrieri navigati, solo rispetto. L'unico che mai gli aveva concesso qualcosa di diverso dal sospetto era proprio Aristea, a riconferma del fatto che ci fosse qualcosa di speciale in lui.
Era tempo di battere il solo ostacolo che lo separava da Helianthinae.
Per l'ultima volta in quella lunga notte, Victoir saggiò sotto i piedi l'asprezza del pavimento di pietra e la freschezza ristoratrice dell'acqua che lo ricopriva. Socchiuse le palpebre e si lasciò inghiottire dal buio, trovandolo però meno avvolgente rispetto a un'ora prima, quando si era scontrato con Eriogonum.
Alzò la testa, e per la prima volta vide il cielo. O meglio, quello che era il cielo del Sidh: la superficie del mare, pennellate di un artista impressionista che si era divertito a mescolare mille tonalità vibranti di blu e poi a pugnalarle di un tenue rosa.
La voce di Paeonia affondò allo stesso modo nella sua memoria: il torneo sarebbe andato avanti fino all'alba. Aristea non era l'unico avversario da battere per arrivare alla ragazza vestita di onde che, là dove l'aveva lasciata, alzò una mano in un saluto accennato quando incrociarono di nuovo gli sguardi.
Victoir la ignorò e procedette verso colui che già lo aspettava.
Aristea era l'espressione massima del fear sidhe: slanciato e atletico, aristocratico nei lineamenti e militaresco nella postura. La foga del combattimento aveva strappato dalla crocchia alcuni fili dorati, che adesso ricadevano sugli occhi avvelenati da qualcosa che Victoir conosceva fin troppo bene.
Tutto quel fiele, il cacciatore lo sentì piovere su di sé e intorpidirgli gli arti. Che diavolo voleva quel tizio da lui? Impossibile che riuscisse a riconoscere uno straniero attraverso le illusioni di Belladonna, niente nel Sidh era superiore alla magia della Morrigan.
Il brusio che sciamava loro attorno fu zittito da Helianthinae, che, ancora una volta in piedi, dedicò un altro breve discorso ai suoi fiori del Sidh. Victoir non ascoltò neanche una parola, troppo impegnato a guardare in cagnesco quel guerriero che sembrava odiarlo senza motivo.
L'insubordinazione, quella fiamma che aveva imparato a estinguere, sfolgorò nel suo petto e si trasformò in una provocazione pronunciata sul filo di un sorriso tagliente: «Che c'è, Aristea? Per caso la mia presenza ti infastidisce?»
Le sopracciglia del fear sidhe ebbero un fremito. «Mi infastidisce che tu sia ancora in piedi.»
«Allora dovresti prendertela col tuo istruttore, doveva allenarvi meglio.»
A vibrare stavolta furono i muscoli delle braccia, una massa asciutta e definita, spruzzata di blu come una tela. La provocazione gli scivolò addosso, incapace di scalfire la sua barriera di disciplina. Il soldato allineò le punte dei piedi, raddrizzò la schiena e alzò il mento, troneggiando sul mezzo vampiro con la fierezza di un guerriero d'élite.
«Ci hanno insegnato ciò che è necessario. Sarai anche forte, ma è la finezza che ti manca, ed è questo che conta al fianco della Morrigan. La forza bruta non è degna di lei.»
Victoir non avrebbe potuto essere più d'accordo, ma lui non era lì per amalgamarsi a loro, men che meno per legarsi a Helianthinae come un'armonia. Era lì macchiarsi per le mani del suo sangue e salvarli tutti.
«Aristea, Myosotis...»
Persino la voce della memoriale sembrava strana, in un modo incomprensibile alla scarsa empatia di Victoir. Tutti i fear sidhe batterono le mani all'unisono, come un tamburo da guerra. Aristea spazzò via ogni traccia di sprezzo dal volto e si rivolse alla giovane Morrigan con un sentito inchino, al contrario di Victoir, che, sforzandosi di cancellare il baccano provocato dal pubblico e l'incombenza dell'alba, non staccò gli occhi da lui.
«Che le correnti guidino i vostri passi.»
Allo schioccare dei palmi si unirono voci dai mille colori: basse e acute, calde e gelide, delicate come carezze e isteriche al limite del frastornante. Affondarono come chiodi nei timpani del mezzo vampiro, costringendolo a digrignare i denti e strizzare gli occhi. Era a dir poco disorientante. Se quello fosse stato il sottofondo del duello, far affidamento sull'udito era fuori questione.
Aristea non mancò di notare la sua reazione; un angolo della bocca si arcuò in una smorfia prima di stupore, poi di curiosità: «La melodia del Sidh non risuona con te?»
Victoir ne ebbe abbastanza. «Sta' zitto e combatti.»
Gli si lanciò contro come la bestia che in tanti nell'Overworld credevano fosse. Nessuna gabbia a rallentare i suoi scatti fulminei, nessuna catena a limitarlo nei movimenti. Frantumando il ritmo e calpestando ogni nota, incalzò inseguendo il Fianna. La scia lasciata dai suoi passi era dritta e spigolosa, in totale antinomia con le curve raffinate di Aristea.
L'arena brillava, squassata da una danza che pareva più il disastroso tentativo di un gigante di pietra di afferrare l'acqua. Non c'era tempo, e se ce n'era Victoir non lo voleva perdere: ogni pugno che sfiorava il corpo dell'avversario senza toccarlo, ogni calcio che tagliava il vuoto, ogni scivolone sulla pietra alimentava il battito furioso del suo cuore. Lo sentiva palpitare nelle orecchie, sotto la pelle e dentro le ossa. L'oscurità nell'arena cominciò a sbiadire in penombra.
Aristea spariva in un battito di palpebre e ricompariva altrove, tempestandolo di attacchi che non avevano niente a che vedere con quelli di Paeonia. Era forte, veloce, instancabile e soprattutto sfuggente. Inafferrabile.
Accorgendosene quando ormai era troppo tardi per ribaltare la situazione, Victoir realizzò che Aristea non si limitava a seguire il ritmo.
Era lui a dettarlo, a dirigere l'orchestra di voci che minacciava di privarlo dell'udito. Come un fulmine a ciel sereno, il significato delle parole maighstir-dannsaidh gli fu finalmente chiaro: Aristea era un maighstir-dannsaidh. Un maestro della danza.
Si ritrovò ad arrancare, sperduto e disorientato, sotto interminabili scie luminose che di scenico non avevano più niente: erano coperture, esche, trappole. L'acqua pioveva negli occhi e impregnava le ciglia, costringendolo a strizzare le palpebre e regalare preziosi secondi al Fianna per aggirarlo. Aristea era ovunque e al contempo da nessuna parte, un fantasma evanescente che assumeva concretezza solo per colpire.
La paura di qualcosa di sconosciuto, una nuova forma di violenza da cui non sapeva proteggersi, lo paralizzò. Si ritrovò a serrare le braccia attorno al corpo e coprire la testa, a difendersi. La bestia tanto temuta dalla Black Court e dagli Undici stava venendo domata senza sbarre e catene.
Un colpo più aggressivo alla base della schiena lo sbilanciò e privò dell'equilibrio. Le gambe cedettero e Victoir si ritrovò in ginocchio, i palmi premuti contro la pietra e scariche di dolore che, come grandine, picchiavano le rotule. Gli strapparono dalle labbra un lamento e dagli occhi un paio di lacrime. Tutto il fiato si riversò fuori di lui con la violenza di conato. Alzò la testa e, tra gli incantevoli cerchi di luce toccati dalle prime luci del sole, riconobbe per un attimo il volto imperlato di preoccupazione di Helianthinae.
La Morrigan scomparve, coperta dal corpo di Aristea. Era sempre stato così, o era la prospettiva dal basso a renderlo più imponente? Il maighstir-dannsaidh non ebbe bisogno di parlare, Victoir gliela lesse negli occhi la sentenza: finalmente sei dove ti spetta.
E aveva ragione, la sua tracotanza era stata punita. Il suo posto era sempre stato lo stesso su cui strisciano i vermi. I fear sidhe continuavano a cantare, incitandolo a rialzarsi e combattere, inconsapevoli di assomigliare sempre di più a chi aveva divorato con gli occhi Jasminium.
Adesso era lui l'uomo-bestia, frastornato da quel mondo incomprensibile e all'improvviso dispotico. Era lui sotto i riflettori, abbagliato da una luce che lo terrorizzava e non aveva mai voluto addosso. Lui non era adatto al palco, quello apparteneva a lei. A lei che splendeva come il sole e che lui aveva rifiutato e allontanato, ma tra le cui braccia avrebbe voluto cercare protezione in quel momento.
Perché per Victoir Evans non c'era spazio da nessuna parte, se non tra quei pochi visi gentili che ora distavano chilometri. Irraggiungibili come un sogno al risveglio. Perciò doveva tornare a casa, e per farlo aveva bisogno di eseguire gli ordini di Belladonna. Se Aristea fosse diventato la guardia del corpo di Helianthinae, la sua missione sarebbe terminata prima di cominciare.
Quella gabbia sarebbe diventata la sua tomba, il mare l'avrebbe sepolto vivo.
Quando tutto è perduto, l'adrenalina cede il posto alla forma più pura di disperazione, un impulso atavico che affonda gli artigli nei meandri della mente, uccide la razionalità e riduce l'uomo a qualcosa che lotta per sopravvivere. Victoir non aveva mai raggiunto quelle profondità. Per un motivo o per un altro, si arrendeva sempre prima. Ma non si sarebbe arreso ora, perché la disperazione l'avrebbe riportato a casa.
Fece perno sulle mani e, con una spinta, si alzò assieme all'intensità dei canti. Il dolore alle ginocchia era atroce, invadeva e intasava ogni sua percezione. Cominciò a battere i denti, e pur di smettere morse l'aria con tanta forza da sentirli stridere. Le gambe tremarono, ma non si piegarono di nuovo. Le lacrime trattenute si gettarono oltre le palpebre, sulle guance gelide, liberando così il campo visivo dal velo annacquato che gli aveva finora impedito di scorgere un barlume di stupore nell'espressione di Aristea.
In un'altra occasione si sarebbe fatto beffe di quella sorpresa con un sorriso malevolo, ma ora aveva a stento abbastanza controllo sulla propria bocca da articolare qualche parola tra un fremito e l'altro.
«Me ne starò buono a terra... quando sarò morto.» ansimò, la voce bassa e rauca che ribolliva come un ringhio.
Per una frazione di secondo sollevò lo sguardo alla superficie del mare, ora trafitta da una foresta di lance arancioni. Ne seguì i contorni sfumati fino agli spalti, abbastanza rischiarati da rivelare file di spettatori in trepida attesa del prossimo atto. La parabola si schiantò infine con il pavimento, uno specchio per il suo volto pallidissimo.
«Accetta la sconfitta con dignità, ragazzino, l'orgoglio e le frasi altisonanti non ti si addicono.»
Il riflesso di Aristea aprì la bocca e, come in risposta, l'azzurro delle iridi di Victoir aggredì le pupille, riducendole a punte di spilli. Il sé stesso che esisteva solo nell'acqua sorrise.
«Ti ho detto di stare zitto e combattere, vecchio.»
Riluttante, il maighstir-dannsaidh schioccò la lingua e ricominciò a ondeggiare piano, accompagnato dalla litania del pubblico. Victoir approfittò di quei secondi preziosi per recuperare piena percezione di sé: ogni respiro gli imbiancava il campo visivo con nuvolette spettrali, la pelle, scivolosa e ricoperta da una patina simile a brina, era tanto fredda da bruciare, e allo stesso modo le dita delle mani e dei piedi faticavano a piegarsi. La mente implorava riposo dai cori infernali, dai suoi stessi pensieri e, più di ogni altra cosa, dal dolore. Chissà se la magia di Belladonna sarebbe stata in grado di mascherare la montagna di lividi che presto l'avrebbe marchiato.
La danza ricominciò.
Un passo avanti del Fianna, un passo indietro dell'abhartach. Flesse le ginocchia e inclinata la schiena all'indietro, Aristea spazzò l'aria con un calcio che mancò Victoir e si rivelò solo il primo di tanti andati a vuoto. Non era la tecnica del soldato ad aver perso smalto ─ i suoi colpi continuavano a fendere lo spazio con rapidità e precisione ─, era il mezzo vampiro ad aver trovato un modo per inserirsi nell'esibizione senza restarne travolto. Quel modo giaceva ai suoi piedi: i riflessi.
I fear sidhe potevano urlare fino ad assordarlo e Aristea poteva muoversi veloce come una freccia, ma Victoir non avrebbe più perso di vista il Fianna che, speculare a quello reale, scivolava sull'acqua. Su quella superficie riflettente che tutto rivelava, il cacciatore l'avrebbe stanato dietro ogni onda fosforescente. Adesso non era più solo una nota stonata, ma una melodia inserita con la forza in una sinfonia incapace di sovrastarla.
Il tempo divenne alleato e traditore di entrambi: quello scandito dal coro giocava a favore di Aristea, mentre quello segnato dalla salita del sole tirava la corda della sua pazienza. E gli faceva commettere i primi errori.
Aristea piantò le mani per terra e tracciò a mezz'aria una ruota, che fornì a Victoir l'apertura necessaria ad allungarsi e sbilanciarlo con una testata. Il Fianna perse l'equilibrio e scivolò, ma con prontezza si puntellò sui palmi evitando di capitolare. Subito pronto a tornare all'attacco, fece aderire tra loro le gambe e le affondò come una spada. Il mezzo vampiro scartò di lato con un salto sgraziato, e quando i suoi piedi toccarono terra il pubblico esplose in un acuto eccitato.
La soddisfazione si fece strada sul viso pallido di Victoir, uncinando un angolo delle sue labbra in un sorriso rancoroso. «Rosica, stronzo.» sibilò il cacciatore a denti stretti, occhi negli occhi con Aristea che, pur non avendo modo di sentirlo, a giudicare dall'espressione impermalita dovette afferrare il messaggio.
Ora che aveva trovato un modo per combattere ad armi pari, Victoir sentiva farsi strada dentro di sé lo stesso vago divertimento che gli aveva fatto provare Paeonia.
Il maestro si rimise in piedi e richiamò all'ordine la sua orchestra personale, poi tornò alla carica col doppio della foga. Tanti furono i colpi che Victoir si costrinse a sopportare, come un sacco da boxe senza alcuna intenzione di rompersi prima che il sole avesse scaldato il Sidh. Ogni offensiva gli insegnava qualcosa sullo stile unico di Aristea, ogni schivata confermava quanto appreso. Il Fianna aveva intuito in fretta l'origine di quel cambiamento repentino: i loro sguardi glaciali si scontravano più nei riflessi che nella realtà, ma era troppo tardi per elaborare una controffensiva efficace.
La luce sfavillava sulle loro teste, spegnendo i bagliori che avevano punteggiato l'acqua.
Il ritmo degli attacchi e dei canti crebbe ancora, in sincronia col fiato affannato dei due contendenti. Una gamba fu parata da un braccio, ma l'altra, seguendola a ruota, si scontrò con la spalla sinistra di Victoir con tanta forza da sembrare rimodellarla. Il cacciatore batté i denti e respinse il fear sidhe.
Il chiarore dell'alba li ingolfò entrambi, poi, come un terzo sfidante, proseguì la sua corsa verso l'ultimo lato in ombra dell'arena. Pochi secondi, doveva resistere ancora pochi secondi.
Ma Aristea non avrebbe accettato neanche un pareggio con uno come lui, era leggibile sulla sua faccia mentre esalava nuvolette di condensa e si preparava all'ultimo attacco. Inclinò il torso verso terra e usò la mano destra come punto di appoggio, una mossa di cui Victoir conosceva le tempistiche ormai a menadito. Il cacciatore piegò le ginocchia indolenzite e si abbassò, pronto a vedere un calcio passargli radente la testa, ma si sbagliava. E lo capì troppo tardi, quando le gambe del Fianna si chiusero attorno alle sue come cesoie e lo strattonarono. Le rotule sembrarono esplodere mentre Victoir allungava d'istinto le braccia per attutire la caduta; il dolore gli strappò un lamento, ma non ebbe la meglio sulla sua lucidità.
Quella era l'occasione che stava aspettando.
Dopo averlo messo a tappeto, Aristea ruotò il busto e si preparò ad alzarsi.
Victoir dardeggiò con gli occhi dal riflesso al fear sidhe in carne e ossa davanti a lui. Scattò fulmineo verso di lui e, divorando la distanza, abbatté il filo della mano contro il collo dell'avversario, dove l'orecchio incontrava la mandibola. La botta riverberò per un lungo istante in Aristea, poi il suo sguardo si spense e le palpebre si chiusero sugli occhi vacui.
Il maighstir-dannsaidh si afflosciò a terra, svenuto.
L'arena sprofondò in un silenzio attonito.
Alla fine di quel carnevale isterico, l'unica cosa delicata rimasta fu il torpore dell'alba.
Victoir poté finalmente respirare, ogni boccata d'aria affondò nei suoi polmoni come una coltellata. Non c'era una parte del suo corpo che non strillasse di dolore, un crogiolo di nevralgie pronte a scoppiare a ogni movimento.
Ignorando le vertigini che lo trascinavano di nuovo verso il basso, si mise dritto e ruotò sul posto osservando la folla. Riconobbe Paeonia e gli altri soldati che aveva incrociato sul suo cammino, tutti ugualmente sconvolti. Nessuno pensava che un esordiente avrebbe superato il secondo scontro, figurarsi sconfiggere il migliore dei Fianna. La bestia aveva superato le aspettative e regalato il migliore degli spettacoli. Proseguendo su quella strada silenziosa, Victoir incontrò gli occhi sbarrati di Belladonna, unica a conoscenza del fatto che sarebbe bastato un errore per togliere la vita a un innocente.
Un uomo, in cui Victoir riconobbe con generoso ritardo il custode, si affrettò a raggiungerli e inginocchiò accanto ad Aristea. Lo esaminò e, dopo qualche secondo, sorrise: «Sta schiacciando un bel pisolino.»
Il pubblico si scatenò. Cascate di applausi, grida e cori precipitarono addosso a Victoir, la cui attenzione tornò però a focalizzarsi solo sulle due Morrigan. Non gli importava del riconoscimento, della gloria. Belladonna strinse le mani in grembo ed espresse la sua approvazione con un cenno, austera come non sarebbe mai stata Helianthinae, che invece balzò in piedi e lo fissò come se fosse stato lui stesso la fonte della luce che baciava il Sidh.
Fortuna che Aristea era svenuto, l'umiliazione di sapere che la memoriale avesse avuto un favorito sin dall'inizio sarebbe stata troppo amara da mandar giù.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top