CH. 3.1: Le Morrigan e l'Abhartach

A ogni passo che imprimeva un'impronta sul fondale sabbioso, Victoir si affannava a catturare con lo sguardo quanti più dettagli dello scenario impossibile che lo circondava.

Con la sua architettura stondata, le gabbie ferrose che ne cingevano le pareti, gli instancabili canti in sottofondo e l'intenso profumo dei fiori, il Sidh lo faceva sentire immerso in una certa fiaba di Andersen narratagli decine di volte da suo padre, un sognatore che aveva tentato di tutto per far germogliare anche in lui il seme della creatività.

Ma Victoir non era un sognatore: era un esule in una terra straniera e ostile e, seguendo i profili delle strutture più alte fino alla superficie del mare, non poteva fare a meno di sentirsi affine alla sfortunata protagonista di quel racconto. Se solo fosse bastato allungare una mano per uscire dall'acqua...

Probabilmente si sarebbe ritrovato in mezzo a un oceano sconosciuto.

Per quanto simile a un sogno, quella era la gelida realtà e lui era disarmato, analfabeta e causa della morte di un membro della comunità. Stavolta le sue abilità non sarebbero bastate a salvargli la pelle, doveva agire con cautela.

La strada dalla grotta alla città era breve e in discesa, un istmo di sabbia ai cui lati prosperavano formazioni coralline tanto fitte da formare cespugli bioluminescenti. Il loro tenue bagliore screziato d'azzurro indicava la via per il Sidh e rischiarava qualche metro dell'immensa oscurità oceanica.

Adesso che aveva la guida dei coralli, una minima idea della geografia del Sidh e un obiettivo ben definito da raggiungere, Victoir si rendeva conto di aver finora vagato su un abisso nero che poteva ingoiarlo in qualunque momento.

Si sfilò l'auricolare dall'orecchio, conservandolo in tasca assieme al coltellino svizzero. L'umidità continuava a gelare le ossa e fare da collante tra il sudore che imperlava la fronte e i capelli ancora bagnati, la ricetta perfetta per una settimana di febbre.

I canti si acquietarono, conducendo il Sidh a un silenzio alienante.

L'acqua era immobile, l'aria era immobile.

L'intera persona di Victoir Evans non era altro che un parassita di dimensioni infinitesimali.

Mancavano pochi metri all'aprirsi del sentiero su una piattaforma sabbiosa, ma le prime file di case erano ancora lontane. Le dimensioni colossali del regno marino, sul cui esoscheletro erano adesso visibili bulloni arrugginiti e filamenti di alghe, erano davvero esagerate se comparate all'esiguo numero di abitazioni ammassate le une sopra le altre, a formare una composizione di edifici alti ed esili. Come se tutto il Sidh fosse proteso verso la superficie.

Tormentato da un'inusuale pressione al petto, Victoir inarcò un angolo della bocca e buttò fuori l'ansia in un soffio stizzito.

All'ingresso della città si trovava una specie di porta: un sottile strato d'acqua, che i suoi occhi guardinghi colsero quando una piccola increspatura generò una coreografia di cerchi concentrici a mezz'aria, là dove avrebbe potuto trovarsi una maniglia.

Il cacciatore l'osservò attentamente, senza però indugiare in inutili domande. Dopotutto, la sua unica alternativa continua a essere tornare indietro e aspettare che accadesse qualcosa. Inspirò abbastanza aria da riempirsi i polmoni e con un passo solo attraversò lo specchio d'acqua verticale.

Gocce gelide gli accarezzarono la pelle, ben più delicate dell'implacabile furia del mare che l'aveva travolto prima, inzuppandolo di nuovo da capo a piedi, ma non opponendo alcuna resistenza al suo ingresso. Fu accolto da una ventata d'aria tiepida, che gli strappò un sussulto: la temperatura era assai più gradevole là dentro.

Con una modesta dose di sorpresa ─ finalmente qualcosa che non voleva ucciderlo ─, Victoir fu dentro il Sidh. Quello vero, la boccia per le sirene-vampiro. Si sarebbe detto euforico, se avesse conosciuto l'euforia.

Adesso doveva evitare di farsi ammazzare a vista, trovare qualcuno e condurlo alla salma del suo salvatore, poi... l'avrebbe scoperto poi. Peccato che avesse la sensazione che niente di tutto quello sarebbe stato facile, in primis perché quel posto era un dannato deserto sott'acqua.

Dove erano tutti? Era arrivato durante l'ora d'aria?

Victoir dardeggiò con lo sguardo fin dove i suoi occhi potevano giungere, alla ricerca di sagome umanoidi tra gli edifici dalle forme sinuose e i colori vivaci, sui balconi cinti da ringhiere in ferro battuto e dietro le alte vetrate dai motivi floreali. Più li guardava, più quegli elementi gli riportavano alla mente lo stile architettonico che da inizio secolo spopolava a Parigi e in Italia... liberty, o qualcosa del genere. Il liberty in fondo al mare, a Lorraine sarebbe scoppiato il cervello quando l'avrebbe saputo.

Un suono improvviso mise a tacere le sue elucubrazioni.

L'ambiente fu attraversato da un fruscio stentoreo, distante come qualcosa di cui non preoccuparsi, ma al contempo tanto potente da far vibrare il pavimento e risuonare lungo il suo corpo. La sorpresa fu tale da metterlo in allarme, le gambe divaricate pronte a correre e le braccia tese per combattere.

Il suono si ripeté, ma stavolta il cacciatore non perse tempo a far aderire una mano alla parete più vicina in cerca di un appiglio, scoprendo così che essa si restringeva ed espandeva ciclicamente. Sembrava quasi che il Sidh stesse respirando, prigioniero di una gabbia tanto solida da infischiarsene della sua sofferenza.

Victoir scosse con decisione la testa e con essa le sue sinapsi atrofizzate: si stava solo lasciando suggestionare, confuso dall'incomprensibilità di ciò che lo circondava.

La cosa importante era che la causa di quel fenomeno dovesse avere dimensioni titaniche per mutare la forma di una città. E lui se ne sarebbe tenuto a debita distanza.

Lasciò scivolare la mano e riportò lo sguardo sui profili delle case, quando i canti ripresero. Anche se sarebbe stato più corretto dire il canto, un'unica voce femminile incarnazione della speranza di incontrare finalmente qualcuno di vivo. Riprese a camminare.

Ogni passo dentro il Sidh era estraniante, un lento immergersi non più nelle profondità del mare, ma fin dentro il suo cuore. Mentre si addentrava nella città, calcando strade non lastricate e salendo scale trasparenti come il vetro, Victoir cominciò a sentirsi irrequieto: dov'erano finite le persone che aveva sentito cantare? E la voce che stava seguendo era... reale? Quel posto assurdo giocava con le sue percezioni, e non c'era di peggio per qualcuno che in esse aveva sempre trovato una guida infallibile. Non era mai successo che la sua conoscenza del mondo si rivelasse del tutto inutile, ma anzi un impedimento ad analizzare la situazione.

Il suo peregrinare ebbe fine alcuni minuti più tardi, quando il canto terminò dopo averlo condotto a un edificio più alto di quelli circostanti, dalla facciata impreziosita da vetrate che mescolavano oro e nero in disegni simili a quelli delle ali di una farfalla. Riportava alla mente la Black Court e tanto doveva bastargli per ignorare il fatto che, in fondo al patio dalle forme curvilinee, le ante del portone fossero spalancate verso l'interno.

Se non fosse stato disperato, Victoir non avrebbe mai accettato quel gentile invito a entrare senza il gentile accompagnamento di un fucile.

Ad accoglierlo non trovò la proprietaria della voce che l'aveva guidato, ma una stanza dalle sobrie pareti bianche che non avrebbe saputo descrivere in altro modo se non biblioteca. Niente a che vedere con quella labirintica della Black Court però, sembrava più una ricca collezione privata di incunaboli risalenti a un'altra epoca, dalle dimensioni ragguardevoli e le copertine sobrie. Incassate tra le librerie, le stesse finestre che da fuori celavano l'interno con la loro tonalità cupa, da dentro regalavano una vista perfetta del vicinato. Bel trucchetto di prestigio.

Bene, adesso cos'avrebbe dovuto fare? Annunciarsi con una frase spiritosa, tipo "Buonasera, sono il braccio intorpidito della legge e vengo in pace", mettendo subito in chiaro le sue intenzioni? Considerato però lo strano effetto che il suo senso dell'umorismo aveva sulla maggior parte delle persone, era meglio non rischiare e salire le scale.

"Non credevo che sarebbe giunto il giorno in cui avrei rimpianto il comitato di benvenuto di Alcor East, e invece..."

E invece neanche quegli stupidi tentativi di sdrammatizzare avrebbero impedito all'ansia di pungere la sua pelle come minuscoli aghi, non senza qualcuno con cui condividerli. Senza indugiare oltre, Victoir salì lentamente al primo piano, sbirciando l'ambiente che andava delineandosi di gradino in gradino: una stanza racchiusa nell'abbraccio di lastre di vetro e delimitata da una struttura ferrosa, proprio come il Sidh stesso.

Il calpestio ritmico dei suoi passi, assordanti nel silenzio irreale, si interruppe quando fu quasi del tutto emerso dalla scalinata. All'altro capo dello spazioso ufficio, oltre una scrivania dagli ornamenti floreali, qualcuno se ne stava dritto in piedi, incombendo sul Sidh.

Quando si voltò a incontrare il suo sguardo, Victoir rabbrividì.

Senza dubbio l'avrebbe definita una delle donne più belle che avesse mai visto, con le forme sinuose di una fata e i boccoli corvini che, lambendo la schiena e il seno florido, sembravano racchiuderla in un quadro. Indossava abiti nati da un inusuale sposalizio tra la moda orientale e quella europea, un kimono niveo con ricami di coralli gialli a impreziosire le maniche e la parte inferiore, stretto in vita da una cintura moderna.

Non l'avrebbe giudicata disturbante, se non fosse stato per un particolare: incastonato tra l'occhio sinistro, di un brillante color ametista, e la cascata di ciocche ossidiana, un fiore dorato si riversava dall'orbita destra come se avesse divorato e sostituito il bulbo oculare. Ramificandosi da sotto la corolla, delle radici sottili si avviluppavano attorno al lato destro della testa, cingendola come una corona.

«Abhartach

Tutta quella sorta di teca parve tremare al suono del lemma dal significato sconosciuto; persino i piedi del mezzo vampiro per un attimo sfuggirono alla sua volontà, tentati di far dietrofront.

Ma se era stata davvero lei ad attirarlo fin lì, un motivo doveva pur esserci.

Victoir si umettò le labbra secche, consumando con pochi passi la distanza che lo separava dalla scrivania. «Non ti capisco.»

Ed era convinto che neanche lei lo capisse, convinzione che si rafforzò quando ella allungò le dita affusolate, dall'incarnato tendente al giallo, verso uno dei cassetti della scrivania e ne estrasse un foglio arrotolato, spesso e dalla colorazione non uniforme. Solo quando gli fu porto e l'ebbe stretto tra le mani, Victoir capì che si trattava di papiro. Quindi i fear sidhe sapevano vivere in enormi gabbie subacquee, ma non avevano la carta?

Lo srotolò con attenzione, rilasciando un sospiro quando riconobbe la sua lingua madre nella grafia fine ma impacciata: "Ti aiuterò, ma devi fare una cosa".

Come se vedesse attraverso i suoi stessi occhi, la donna spinse verso di lui un oggetto che non aveva finora notato: un bicchiere stretto e lungo, sul cui fondo si addensava un liquido giallo che sicuramente non era succo di limone.

"Mescola il tuo sangue all'icore e bevi" proseguiva infatti il messaggio, facendo sfiorire tutto il sollievo che lo aveva sfiorato per un istante.

Pur non sapendo cosa fosse l'icore, le traballanti conoscenze di ars magica in suo possesso bastavano a dargli un'idea del senso di quel rito. La magia contenuta nel suo sangue avrebbe in qualche modo dovuto fungere da collante tra le sue capacità comunicatorie e una lingua sconosciuta. Roba che neanche la Black Court sapeva fare, ma dopotutto erano i fear sidhe quelli definiti architetti della magia.

Victoir incrociò di nuovo l'unico occhio della donna, imperturbabile tanto quanto lui. Da quanto tempo lo stava aspettando, e come faceva a sapere che sarebbe stato proprio lui, un anglofono, a varcare i confini del Sidh? Le risposte a quelle domande, ma soprattutto le giuste esequie che spettavano al suo salvatore e la sua via di fuga erano a portata di mano, al modico prezzo di una goccia di sangue. E allora perché gli sembrava un patto col diavolo?

Un soffio stizzito esplose dalle sue labbra.

«Non siete i tipi che amano il libero arbitrio, vero? Mi ricordate i miei datori di lavoro...»

Il cacciatore ripose il papiro sul tavolo e si sfilò il guanto sinistro, esponendo la pelle pallida alla luce soffusa delle lampade appese ai muri. L'espressione della donna, che sorvegliò con la coda dell'occhio, non cambiò neanche quando si portò il polso a contatto con le labbra dischiuse. Era impossibile che sapesse persino di trovarsi davanti un vampiro, tuttavia neanche vedere i canini penetrare senza alcuna difficoltà la carne morbida descrisse una sola ruga nella sua maschera algida.

Un intenso sapore ferroso pizzicò la lingua di Victoir, facendogli arricciare il naso e salire un conato. Il sangue dei vampiri era nauseante, come un cocktail di ingredienti selezionati casualmente da un bartender inesperto. Il suo, ancora contaminato dai geni umani, mancava del retrogusto di marcio che era invece la nota caratterizzante di quello dei suoi simili, ma era ugualmente disgustoso.

Strinse indice e pollice destri attorno allo stelo del calice, ribaltandovi sopra il polso sanguinante senza tante cerimonie. Il liquido rosso si mescolò all'icore con eccezionale semplicità, come se fossero stati fatti della stessa sostanza di due pigmenti diversi, e in pochi secondi divennero un'unica bevanda omogenea.

Victoir poteva già vedere la sua gloriosa carriera da cacciatore terminare in un unico sorso di quel veleno, raggirato come il più imbecille dei novellini.

Sollevò il bicchiere tra sé e la donna, inglobandone la figura nelle decorazioni stilizzate del vetro, e inarcato un angolo della bocca le dedicò il sorriso più amaro del suo repertorio. «Alla salute.»

Mandò giù tutto d'un sorso.

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