CH. 1.4: Il liminale
A riportare a galla la coscienza di Victoir fu un conato che sembrava voler far esplodere la sua povera gola martoriata. Lo lasciò risalire la carotide, sentendo la bocca riempirsi del sapore salato del mare. Tossì acqua e altra acqua, sputando ogni goccia finché le sue vierespiratorie non parvero in fiamme e tutta la parte superiore di corpo fu pervasadi dolori acuti, come se avesse combattuto fino allo sfinimento. In effetti,pensò riavendosi, ricordava di essersi dibattuto fino a svenire mentre ilportale si chiudeva su di lui...
Una realizzazione lo colpì come uno schiaffo.
"Il portale?" Victoir spalancò gli occhi: era dentro il Sidh?
Ancora una volta, però, la fortuna non aveva nessuna voglia di collaborare quel giorno. Il suo ritorno alla realtà fu accolto da uno scenario dai tratti nebulosi e indistinti, che non avrebbe saputo se attribuire alla sua vista annacquata o al mondo circostante.
Batté le palpebre e si strofinò energicamente la faccia con una manica fradicia, schiarendosi il campo visivo: era immerso in una strana penombra dalle forme sfuggevoli, con un bagliore proveniente dal basso che portò a piegare la testa verso sinistra, dove percepiva qualcosa schiacciato contro la sua schiena inclinata.
Gli bastò intravedere con la coda dell'occhio un volto scarnificato accanto al proprio per scattare in piedi come una molla, ignorando il capogiro e le gambe cedevoli, che per un secondo tentarono di trascinarlo verso terra. Dischiuse le labbra per dire qualcosa, ma era chiaro che non ci fosse niente da fare per il fear sidhe, o quel che ne rimaneva.
Il sangue del pathos aveva corroso e, insaziabile, continuava a corrodergli il cranio da cui si levavano una penetrante puzza di bruciato e dei sottili fili di fumo. La carne di metà viso penzolava, sfilacciata, attorno alle ossa bianche e sporgenti, sulle quali era colata una poltiglia densa che doveva essere stata l'occhio sinistro. Un grumo di pelle sciolta si staccò dai lembi frastagliati che facevano da cornice allo scheletro esposto, gocciolando per terra con un suono che riecheggiò a lungo assieme al fiato tremulo del cacciatore.
La cosa peggiore era però l'espressione di eterno dolore impressa nella bocca e nell'unico occhio rimasto, entrambi spalancati in cerca di un aiuto che non era arrivato perché il cacciatore Evans aveva fallito.
Di scene raccapriccianti Victoir ne aveva viste diverse nella sua vita, ma sapere che quella avrebbe potuto essere evitata se fosse stato più capace colpì quel nervo scoperto già pungolato dal pathos. Era colpa sua sotto così tanti punti di vista che non sapeva se rimproverarsi per essere stato inefficiente, per non aver lasciato parlare Lorraine o per essersi fatto proteggere da colui che avrebbe dovuto salvare.
Non era mai successo che qualcuno morisse per lui. E non sarebbe mai dovuto succedere.
Quella consapevolezza gli si abbatté addosso come un macigno, ancor più invincibile del mare che l'aveva appena inghiottito e freddo degli abiti zuppi che aderivano alla pelle, spazzando via la sua apatia per farlo piombare in una disperazione senza precedenti.
Victoir restò ad annaspare in cerca di aria, ma tutto quel che trovò fu il pavimento su cui si piegò per vomitare, stavolta non acqua. Piantò una mano per terra e ghermì lo stomaco con l'altra, perdendosi in un bombardamento di stimoli da cui riuscì a trovare la strada per tornare in sé, stordito, chissà quanti minuti più tardi.
Quando la vista tornò a schiarirsi, distolse lo sguardo dalla pozzanghera dei suoi succhi gastrici e lo riportò con lentezza sul fear sidhe; era ancora lì, accartocciato e rigido, con la più atroce sofferenza dipinta su quel poco di faccia non liquefatta.
Il cacciatore si morse le labbra, sforzandosi di sedersi nonostante il corpo in fibrillazione. «Se ci fosse un modo per riportare indietro il tempo...» si rese conto di aver parlato da solo unicamente quando a rispondere fu la sua stessa voce spezzata. «Deve esserci un modo per...»
Socchiuse gli occhi e si massaggiò una tempia, cercando di ragionare con lucidità. Per quanto ne sapeva non era possibile far tornare in vita qualcuno, ma lui di magia non ne capiva niente... a differenza dei fear sidhe, che in linea teorica dovevano abitare nei paraggi. Magari loro potevano fare qualcosa. Anzi, loro potevano sicuramente fare qualcosa!
Non sarebbe stato semplice, considerando che non parlavano la stessa lingua e che i fear sidhe erano particolarmente aggressivi con gli estranei che entravano nel Sidh, ma avrebbe comunque tentato. Lo doveva all'impavido di cui non sapeva neanche il nome.
Un brivido gli ricordò quanto intensa fosse la morsa del freddo là sotto, e solo allora notò che il fear sidhe e i suoi abiti fossero perfettamente asciutti, a differenza di lui. Strano, molto strano. Comprensibile solo nel caso in cui il Sidh stesso avesse avuto la facoltà di distinguere i suoi abitanti dagli estranei, ma nessun oggetto artificiale, neanche il futuristico Ikaros, poteva essere tanto intelligente...
Victoir si guardò intorno, lasciando defluire la propria concentrazione dalla salma allo scenario. Aveva finora ignorato il lieve bagliore proveniente dal basso, dando per scontato che si trattasse di un normale sistema d'illuminazione, ma dovette ricredersi. La luce dorata che scaldava i suoi palmi scorreva e pulsava sotto il pavimento levigato e traslucido come se fosse stata incanalata in una vena, tracciando una strada che si addentrava nell'oscurità verso... impossibile definire di che direzione si trattasse.
Tutto intorno era buio, un buio così assoluto da instillare persino in lui un sentore di disagio. Il mezzo vampiro si alzò in piedi e provò ad allontanarsi dal sentiero stendendo le braccia: ben presto le sue mani si scontrarono con un muro invisibile oltre il quale non v'era altro che oscurità. Quindi si trovava in una galleria, forse un vero e proprio ingresso... quel posto non avrebbe potuto essere più diverso dalle aeronavi che frequentava da tutta la vita.
Nemmeno una traccia del pathos del sangue, nemmeno una nota di vita all'auricolare.
Con poche falcate tornò al punto di partenza, dove si chinò sul suo salvatore senza nome. Gli effetti della corrosione sembravano essersi finalmente arrestati, concedendogli di mantenere quel poco di tratti che sarebbero serviti alla sua gente per identificarlo.
Con un gesto delicato, Victoir gli chiuse l'unica palpebra e la bocca, per poi slacciarsi il mantello zuppo e adagiarlo su di lui come un telo. Infine, si inginocchiò e chinò la testa. «Grazie per il tuo sacrificio, non lo sprecherò.»
La sua voce era piatta, ma sperò che il liminale, se avesse potuto udirlo per mezzo di qualche astrusità magica, avrebbe riconosciuto la sua sincera gratitudine.
Non c'era più niente da fare lì, dunque non gli restava che proseguire e sperare che i fear sidhe non lo attaccassero a vista. Con sé non aveva che il coltellino svizzero di Lorraine, tuttavia non aveva paura. Traendo un profondo respiro preparatorio, si rimise dritto e risalì con gli occhi il filo dorato che era il suo solo punto di riferimento.
Aveva due direzioni tra cui scegliere e neanche la più pallida idea di quale conducesse a cosa, ma, mentre si arrovellava su quale imboccare, un suggerimento inaspettato giunse al suo orecchio sinistro: una lievissima vibrazione cominciò a propagarsi nel silenzio, troppo distante per associarla a un suono preciso.
Victoir decise che si sarebbe fatto bastare la consapevolezza che di lì ci fosse qualcosa. Senza alcuna traccia di esitazione nel passo risoluto, affiancò la scia magica e la seguì per un tempo inquantificabile, fino a perdere di vista il cadavere e brancolare in un buio vorace.
Da bambino, galvanizzato dalle pittoresche fiabe di Andersen narrategli ogni sera da suo padre, aveva provato tante volte a immaginare il leggendario Sidh come la dimora della regina delle nevi, abitato da tanti esserini alati come Mignolina e il suo principe delle fate. Quel posto fagocitato dall'oscurità, perso in un tempo e uno spazio a cui Victoir non avrebbe saputo dare una collocazione, era però l'ultima cosa che si sarebbe aspettato dal regno dei detentori della magia.
L'aria cominciò a farsi più pesante di metro in metro, impregnandosi di umidità e fragranze eterogenee ma troppo amalgamate per identificarle singolarmente. La sensazione era la stessa di aggirarsi per una palude senza la presenza fastidiosa di sciami di zanzare impossibili da aggirare, ma col sentore di un costante pericolo alle spalle.
Quasi lo avesse chiamato, il pericolo rispose nella forma di un lamento tanto lungo e stentoreo da far tremare il pavimento. Il cacciatore divaricò le gambe e assecondò il moto oscillatorio, tagliando intanto le tenebre con lo sguardo in cerca della fonte di quell'orribile suono, invano.
Se non fosse stato anormale, avrebbe avuto paura.
Riprese a camminare.
Il passaggio si fece tanto stretto da costringere Victoir ad avanzare lateralmente tra pareti invisibili. Un passo alla volta, mantenendo i nervi saldi e senza lasciarsi suggestionare neanche quando sfiorò il muro con la punta del naso, riuscì a sgusciare attraverso la strettoia senza che questa si trasformasse in un vicolo cieco e finalmente si ritrovò in un luogo dall'aspetto di luogo.
Non aveva mai amato le grotte, ma in quel momento i costoni rocciosi che si chiudevano intorno a lui come uno scrigno erano la visione più rassicurante che potesse desiderare. La galleria era ampia circa una decina di metri e alta almeno il triplo, con un pavimento di terra battuta dal quale la vena dorata, sua fidata guida, si ramificava ricoprendo ogni superficie.
«Luce...» esalò il ragazzo, facendosi aria con una mano per cancellare la soffocante sensazione del busto compresso.
Non ricordava di essere mai stato così sollevato di vedere la luce, forse solo l'alba del giorno della partenza da Alcor East gli aveva dato la stessa scarica di adrenalina. Sperava solo che il comitato di benvenuto si rivelasse migliore di quello dell'ingresso di casa fear sidhe.
Infilò una mano nella tasca dei pantaloni, stringendo come un portafortuna il coltellino svizzero col potere di ricordagli chi lo aspettava fuori di lì, e avanzò ancora un po' seguendo lo stesso suono che l'aveva finora guidato, ora abbastanza vicino da poterlo identificare come una voce maschile che cantava in lingua faerica. Victoir non possedeva alcuna conoscenza specifica per affermarlo con certezza, eppure non aveva dubbi che si trattasse di lingua faerica, armoniosa come lo scorrere dell'acqua che precipitava dalle pareti raccogliendosi in un ruscello vivace.
Il mezzo vampiro interruppe nuovamente la sua peregrinazione per chinarsi sullo specchio d'acqua, cristallina ma impreziosita da un colore aureo che la rendeva simile all'oro fuso. Si astenne dal berla, sperando di non ritrovarsi assetato da un momento all'altro; per ora non avvertiva alcun tipo di bisogno, il suo corpo era come immune alla fame e alla stanchezza.
Significativa, ma non inaspettata, era l'assenza di impronte. Da quanto tempo nessuno passava di lì? Stava davvero facendo la cosa più intelligente? In nome degli Equilibri, quanto avrebbe voluto sentire l'auricolare rianimarsi e le voci rassicuranti dei suoi amici sfondargli un timpano, invece neanche il ronzio fastidioso di un'interferenza... in quell'angolo sconosciuto di mondo era completamente da solo, una condizione che negli ultimi tempi aveva perso quasi tutta la sua attrattiva.
Victoir buttò fuori un sospiro breve ma denso, serrò i pugni e si riscosse, battendo un pugno sulla terra ruvida come un giudice col suo martelletto. Basta esitare. Di nuovo in piedi, di nuovo in marcia.
La canzone, sublime ma incomprensibile al punto da sembrare più un solfeggio, lo condusse oltre il punto in cui il fiume si inabissava sotto le forme squadrate delle rocce, poi su per un pendio polveroso, lungo il quale l'aria si caricava sempre più di umidità e i costoni rocciosi perdevano tridimensionalità, rivelandosi mere immagini proiettate su quelle che probabilmente erano altre pareti trasparenti. Che delusione.
I suoi abiti, ancora zuppi e pesanti, cominciavano a sembrare una seconda pelle, rendendo solo più attraente la luce calda che si diffondeva al culmine della salita. Forse l'uscita, sperò Victoir: dopo tutta quella desolazione e oscurità, aveva davvero bisogno di abbandonarsi al torpore del sole.
Qualcosa però gli diceva che le sue aspettative sarebbero state disattese, e la realtà che infine si stagliò innanzi ai suoi occhi da un lato lo confermò, dall'altro lo travolse come se un'altra onda avesse ribaltato lui e il suo punto di vista.
Raggiunto infine il picco della china, l'intensità della luce lo costrinse a strizzare gli occhi troppo abituati al buio. Il suo campo visivo divenne uno sfondo nero tempestato da folgori simili a stelle che si accavallavano e intrecciavano, lasciandolo per alcuni secondi in balìa dello stordimento. Quando la vista fu ripulita e le nevralgie che gli tempestavano le tempie si acquietarono, Victoir si fece schermo con una mano e divorò con sguardo avido lo scenario.
Nessun resoconto scritto o orale, per quanto dettagliato, avrebbe potuto prepararlo al vero volto del Sidh.
Tutt'intorno a lui si stagliava l'impenetrabile oscurità dei fondali marini, imperlata da agglomerati di edifici ingabbiati in sfere di vetro dalle impalcature ferrose. Il chiarore che dal basso si faceva strada in tutto quel buio non aveva nulla a che fare col fuoco o l'elettricità, era invece emanato dalle venature dorate e da un'incalcolabile quantità di coralli e anemoni bioluminescenti, che solo levando lo sguardo alla superficie del mare ─ od oceano, lago, qualunque cosa fosse ─ cedeva il posto ai tenui raggi del sole.
I punti più esterni della città si restringevano in gallerie dorate che, come ponti, connettevano ad altri insediamenti urbani a stento visibili nelle profondità ingoiate dal nero. Probabilmente lui stesso aveva percorso uno di quei passaggi senza rendersene conto.
Victoir si irrigidì e fece un passo indietro, schiacciato da una sensazione di soggezione mai tanto forte. "Tutto questo è... magia?"
Non avrebbe dovuto stupirsi così, d'altronde sin da bambino era stato tenuto a recarsi una volta al mese sull'aeronave della Black Court, dove le nuvole erano a portata di mano e la gente nasceva, viveva e moriva toccando di rado il suolo. Il Sidh era però su un altro livello, un'utopia architettonica che non si limitava a sfidare le leggi della fisica e della sopravvivenza, ma che incarnava una bellezza che non avrebbe saputo come definire se non onirica.
Dalla libertà del cielo alle gabbie sott'acqua, tuttavia, c'era una cosa di cui l'Overworld non sembrava privarsi mai: il freddo.
Un brivido risalì per intero il corpo del cacciatore, acuito dalla marcata impressione di non appartenere a quel luogo e di non esservi gradito.
Beh, per fortuna anche lui non vedeva l'ora di tornarsene a casa, c'era solo da sperare che i maestri della magia fossero abbastanza saggi da collaborare senza fare tante storie. Magari, per una volta, lo status di cane della Black Court gli sarebbe tornato utile.
Cercando di nuovo il conforto dell'unico filo che lo legava al suo mondo, strinse forte il fermaglio di Lorraine e si incamminò verso il regno sommerso.
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