CH. 1.2: Il liminale
Victoir si sentiva esattamente come il tempo in quelle ore: uno schifo.
Da quando un muro d'acqua aveva cominciato a riversarsi su Londra, accompagnando verso casa i pochi cittadini ancora per strada al ritmo di tuoni e raffiche di vento, i suoi già indomabili capelli si erano trasformati in un coacervo di ricci che a ogni spazzata invadevano il suo campo visivo con curve nere bagnate di pioggia. Nonostante la divisa e il mantello che lo cingevano in un abbraccio caldo ─ la Black Court non badava a spese nel fornire ai dipendenti gli equipaggiamenti più efficienti ─, il cacciatore aveva la pelle d'oca sulle braccia e il viso tanto gelido da sembrare lambito da fiamme.
Il freddo era intenso e pungente, l'aria carica di elettricità e la visibilità scarsa oltre il raccomandabile. Molti avrebbero preso la saggia decisione di ritardare l'operazione a un momento più favorevole, invece Victoir fendeva l'oscurità della notte e il biancore soffuso del banco di nebbia con la sua prodigiosa vista da mezzo vampiro. Essere un liminale tra i liminali, un umano con caratteristiche vampiresche ancora acerbe, era un complesso sistema di pregi e difetti che aveva imparato a sfruttare a proprio vantaggio sul lavoro. Sperava che lo stesso facesse anche Alaric, che da meno di un anno aveva abbracciato la sua natura di medium e cominciato a studiare i poteri che per tutta la vita l'avevano terrorizzato.
Vagò con lo sguardo su Lorraine, appoggiata alla balaustra su cui lui era seduto sui talloni e coi gomiti che puntellavano sulle ginocchia, al riparo dalle intemperie sotto il portico al terzo piano di una fabbrica in disuso. L'espressione della caposquadra era granitica quanto la pietra del parapetto, le dita sfioravano con delicatezza l'auricolare a forma di ala di farfalla dorata che si abbarbicava lungo il suo orecchio sinistro.
Victoir la imitò, insinuando il polpastrello dell'indice tra i capelli umidi per schiacciare l'auricolare contro la testa. Aveva sperato di sentire l'accento del nord di Alaric annunciare che la prima parte del piano era filata liscia come l'olio, ma tutto ciò che udì fu lo scroscio del nubifragio ovattato del temporale. Trasse un breve sospiro, stanco di quell'attesa eterna.
«Sembri tranquilla.» mugugnò reclinando il capo verso Lorraine, la quale gli restituì lo sguardo in silenzio; nella fermezza dei suoi grandi occhi scuri, immersi nelle ombre dure sotto la linea delle sopracciglia, Victoir notò un guizzo che interpretò senza difficoltà. «Ma non lo sei.»
Lorraine gli sorrise mesta e tornò a guardare le caratteristiche facciate gialle dei palazzi di Camden. «Sono fiduciosa... o almeno voglio esserlo.»
«Qual è il problema?» incalzò il cacciatore, che non era mai stato un campione di pazienza.
«È che...» la giovane donna esitò, un'abitudine di solito aliena al suo carattere deciso. «Ho un brutto presentimento.»
Lo sbuffo di una risata si infranse contro le labbra di Victoir prima che potesse reprimerlo.
«Grazie tante per prendermi sul serio!» nonostante le parole piccate, anche Lorraine si abbandonò a una breve risata. «Ma sono d'accordo con te: lavoro con un cacciatore dai sensi di pantera e un medium, ironico che sia proprio io, quella razionale, a dare tanto peso ai presentimenti...»
Come spesso accadeva, Lorraine riusciva a leggerlo come se fosse stato un libro aperto; come altrettanto spesso accadeva, Victoir non sapeva rispondere se non attraverso gesti e fatti concreti. Insinuò la mano tra le pieghe del mantello, in cerca di una cosa che aveva fissato alla cintura e che gli penzolava contro il fianco a ogni movimento. Quando lo trovò, ne sciolse il nodo e lo porse all'amica: un uccellino meccanico, i cui occhi di zaffiro esplorarono i dintorni prima che, con una fitta vibrazione delle ali di ferro, si levasse a mezz'aria per posarsi sulla spalla familiare di Lorraine.
«Ikaros?» la ragazza fece scivolare le dita sulle lamine e la liscia porcellana che ne componevano il corpicino, per poi scrutare interrogativa Victoir.
«Tienilo tu fino alla fine dell'operazione.»
L'idea non dovette sembrare delle migliori a Lorraine, che racchiuse Ikaros nel palmo con l'evidente intenzione di restituirlo al legittimo proprietario. «Cosa? No, Victoir... è un regalo di Arthur e so che ci tieni da morire, non posso─»
Victoir però mise fine a ogni protesta scrollando le spalle con indolenza. «Proprio perché ci tengo da morire non voglio rischiare che si rompa.»
«Ma è la tua Bussola...» tentò ancora la ragazza con un filo di voce.
«Non mi serve una Bussola dove sto andando.» affermò con inoppugnabile certezza lui. «Ma a te servirà compagnia finché non torno.»
Restarono a fissarsi, in silenzio e nel buio di un palazzo abbandonato, finché Lorraine non alzò bandiera bianca per prima con un cenno d'assenso e gli angoli delle labbra incurvati in un sorriso genuino.
«Va bene, me ne prenderò cura.» allentò la presa su Ikaros fino a lasciar scivolare il braccio lungo il fianco, tornando a picchiettare le unghie sul corrimano eroso da anni di abbandono mentre l'uccellino le saltellava sulla spalla. Dardeggiò poi con lo sguardo verso il mare di nebbia, dal quale i fasci di luce dei palazzi circostanti e del freak show emergevano come torce che dal fondale puntavano verso la superficie. Quando tornò a parlare, lo fece col tono risoluto della leader che puntava a diventare. «Mi raccomando, Victoir, ricorda che qualunque altra razza è come veleno per i fear sidhe: cerca di non toccarlo più del necessario e, più di ogni altra cosa, fa' in modo che non entri mai in contatto col tuo sangue. Se accade...»
«Non accadrà.» tagliò corto Victoir, proprio mentre un ronzio gli graffiava un timpano richiamando la sua attenzione.
La voce baritonale di Alaric, distorta fino a sembrare un gracchiare frammentato dalle interferenze, si riversò su di loro sovrastando lo scorrere impetuoso della pioggia: «─ rischiato che mi spaccassero la faccia, fortuna che ci sono abituato. Il terreno è pronto, il fear sidhe è in una gabbia dentro una tenda blu a est dell'arena.»
«Ottimo, ma fa' attenzione. Sei un diversivo, non un'esca.» Lorraine chiuse una mano attorno alla piccola ala che le copriva l'orecchio, come per isolarla dal fracasso esterno.
«Non preoccuparti per me, non posso essere inferiore al nostro gorilla di fiducia.» un lungo silenzio. «Sto parlando di te, Victoir.»
«Ah.» fece il cacciatore, colto alla sprovvista, con la solidale mano di Lorraine che si stringeva attorno alla sua spalla. «Credevo fossi tu il gorilla del gruppo, perciò non capivo...»
Le sue confuse giustificazioni si scontrarono con una distorsione della trasmissione che somigliava vagamente a una risata.
«Ora devo andare, il mangiafuoco non vede l'ora di farsi spennare a poker. Chiudo.» concluse Alaric, portandosi via il fastidioso ronzio che vibrava nell'orecchio del mezzo vampiro e dando inizio alle danze.
Finalmente era giunto per entrambi il momento di giocare col fuoco. Scandagliò la foschia fin dove i lampioni la ingiallivano, all'ingresso dello spiazzo rettangolare su cui era stato allestito il freak show: un monumento alla schadenfreude* nel cuore di una città dedita all'etichetta, ma segretamente crudele. Tra le poche decine di caravan dalle tinte eccentriche e i tendoni, sotto cui gli artisti erano radunati a cenare e farsi imbrogliare da Alaric, doveva esserci un baluardo solitario a cui nessuno sano di mente si sarebbe avvicinato...
«L'ho visto.» annunciò Victoir, che, in agguato sui talloni e con la schiena protesa in avanti, più che una persona sembrava un rapace in procinto di attaccare.
Lorraine si sporse verso il vuoto finché la pioggia battente non le lambì il naso e la fronte, ma i suoi occhi umani non riuscirono a far altro che vagare sperduti; si arrese con un sospiro e, rapida, portò entrambe le mani alla nuca.
Il cacciatore restò a fissarla mentre si scioglieva i lunghi capelli bruni, che ricaddero sulle sinuose curve delle spalle e della schiena in onde increspate dall'umidità. Un attimo dopo, l'assistente gli porse il fermaglio che aveva finora tenuto a bada la sua folta chioma e che lui afferrò senza pensarci due volte. Ne studiò la peculiare forma: un anello color oro da cui si diramavano tre lamine simili a lancette di un orologio a pendolo, le quali, a un'occhiata più approfondita, rivelarono di contenere qualcosa. Victoir si dilettò a sfilarli con il trasporto di un bambino che scarta il proprio regalo di Natale: forbici, lamette, cacciaviti, punteruoli, coltelli dalle lame variegate... persino un apribottiglie. Quella roba era davvero il suo regalo di Natale.
«Non so come programmavi di aprire una gabbia e va benissimo così.» rise Lorraine. «Ma se non vuoi farti scoprire avrai bisogno di un grimaldello, sir Evans.»
Victoir si scoprì a sorridere senza rendersene conto. «Sempre piena di risorse, la caposquadra.»
«Merito del reparto sviluppo... e di un certo Karl Elsener.» scosse la testa lei, umile. «Prendilo come uno scambio: dove vado io non mi serve un coltellino svizzero.»
Quella che Victoir aveva già eletto invenzione del secolo fu ridotta a tre lancette comodamente sovrapposte e agganciate alla cintura, al posto di Ikaros. Controllò un'ultima volta l'equipaggiamento, con particolare attenzione alla diletta baionetta che, con sommo dispiacere del guerriero caotico che era, in nome della discrezione sarebbe stata relegata al ruolo di scomoda spada lunga.
Si mise in spalla l'arma e guardò un'ultima volta Lorraine. «Vado.»
Ella, stretta nelle spalle come se avesse avuto i brividi, annuì. «Ti aspetto.»
Victoir strinse la mano destra intorno alla cinghia della baionetta e afferrò con la sinistra il bordo grezzo della balaustra, la pioggia non perse tempo a picchiettare insistentemente le dita protette dai guanti. Si affacciò e spinse la vista verso il dipinto impressionista sotto di lui, dove le forme erano alterate dalla nebbia e i colori riflessi sulle pozzanghere più vibranti. Nessuna anima viva circolava da almeno dieci minuti, ma concentrandosi riusciva a udire il fermento esplodere in ogni edificio intorno a loro. Tra la loro posizione e il livello della strada dovevano esserci otto, forse nove metri.
Con uno scatto, il mezzo vampiro scavalcò il bordo e si lanciò nel vuoto.
La caduta libera lo accolse per un brevissimo momento in una bolla di adrenalina e acqua gelida, pervadendolo di una sensazione di libertà e vitalità tanto rade e agognate da stampare sul suo volto un sorriso esaltato.
Atterrò in piedi come un felino, piegando le ginocchia lo stretto indispensabile per attutire il colpo, si rimise dritto e diede una rapida sistemata al cappuccio del mantello, decisamente meno portato di lui per le imprese spericolate.
Non ebbe bisogno di alzare lo sguardo verso Lorraine: poteva sentirne gli occhi incollati alle spalle e la voce commentare con un risolino il solito esibizionista.
La notte di Camden continuava a tacere, rinchiusa all'interno delle case dall'infuriare del temporale in cui Victoir si addentrò. Ogni suo passo era un incontro tra cuoio e asfalto che si innalzava nella melodia della pioggia come tenendo il tempo, infrangendo una dietro l'altra le pozzanghere che tracciavano un ponte tra i due lati della strada.
Continuando a scandagliare con occhiate guardinghe i dintorni, anziché tornare nello spiazzo dove ancora era allestita l'arena proseguì lungo la via fino al primo vicolo, in cui scivolò mescolandosi alle ombre. I due edifici che lo costeggiavano si levavano verso il cielo con architetture pesanti e claustrofobiche, fatte di file di finestre ad arco oltre le quali Victoir vedeva solo drappi ben tirati e luci troppo fioche per non appartenere a un paralume.
La piccola deviazione sfociò a est dell'arena, dove la tenda blu segnalata da Alaric si opponeva solitaria alla furia del vento. Un centinaio di metri più avanti, tra risate e schiamazzi una folla poco nutrita proiettava ammassi di ombre sulla parete di stoffa di un padiglione; ed ecco dove si trovavano Alaric e gli artisti.
Quatto e silenzioso, Victoir sgusciò oltre il termine della fila di palazzi e costeggiò il perimetro dell'accampamento fino a trovarsi abbastanza vicino all'obiettivo da poterlo aggirare ed entrarvi con discrezione. Appena superato l'ingresso, le sue narici si impregnarono dell'odore acido del sudore misto a quello acre dell'urina, rivoltandogli lo stomaco e ricordandogli perché essere per metà vampiro faceva schifo. Adesso avrebbe sentito quel mix rivoltante raschiargli in gola per almeno tre giorni.
Ciò che lo accolse fu un buio solo parziale, in cui forme e colori erano abbastanza distinguibili senza bisogno di una vista prodigiosa. La tenda doveva essere stata montata in fretta e furia, senza grande attenzione per la stabilità della struttura che pendeva pericolosamente verso destra e fremeva a ogni ruggito del vento.
Al centro di quell'angusto ritaglio di mondo, l'uomo-bestia dormiva rannicchiato dentro una gabbia dalle sbarre imporporate da grani di ruggine. A quella distanza ravvicinata, la criticità delle sue condizioni era ancor più evidente: fremeva e sussultava persino nel sonno, avvolto in una misera coperta che non sarebbe mai bastata a schermarlo dal freddo pungente. Il viso, che suggeriva un'età non troppo distante da quella di suo padre, era una tela bianca di malnutrizione imbrattata di lividi viola e graffi carmini.
Victoir avrebbe a breve compiuto diciannove anni, ma aveva già perso il conto di quante volte si era sentito additare con parole come mostro, bastardo o cane. Sebbene l'apatia che congelava il suo spettro emotivo fosse tanto radicata da impedirgli di provare pietà nei confronti dello sciagurato, reputava di essere comunque meno mostro, bastardo e cane di chi l'aveva ridotto così per pura avidità.
Si chinò fino ad affondare un ginocchio nella terra battuta, sfilò il coltellino svizzero di Lorraine dalla cintola e, stretto il lucchetto nella mano libera, fece gracchiare la punta del grimaldello contro il cilindro della serratura. Un pistoncino dietro l'altro, essa cominciò a cedere con una facilità che avrebbe fatto sbiancare chi aveva pensato che un modello robusto e pesante sarebbe bastato a tenere a bada l'uomo-bestia.
Un sospiro spezzato irruppe nei pensieri del mezzo vampiro, seguito da uno sbuffo soffocato. Il liminale fu ricondotto alla veglia da un eccesso di tosse, al termine del quale gli occhi socchiusi vagarono nel vuoto fino a soffermarsi sulla sua figura. Sobbalzò come un gatto, la bocca già spalancata in una smorfia deforme e nera, ma prima che potesse allertare tutto l'accampamento con un urlo, Victoir si portò un dito alle labbra.
«Sono qui per salvarti, ho sentito la tua richiesta d'aiuto.» disse sottovoce. «Ti porto alla Black Court.»
L'unica cosa che il fear sidhe sembrò comprendere fu il nome della corte di giustizia, il cui suono ravvivò i suoi occhi di brillantezza e le gote di rossore. «Bleccoot?»
Il cacciatore annuì e, ignorando le lacrime copiose e il sorriso fanciullesco che avrebbero spezzato il cuore a qualunque persona normale, tornò ad armeggiare con il lucchetto finché non cadde per terra con uno scatto, restituendo la libertà al fear sidhe.
Nonostante l'attenzione messa da Victoir nell'aprire con lentezza lo sportello, i cardini arrugginiti stridettero strillandogli nelle orecchie come infanti. Dovette ringraziare il temporale, che ne soffocarono i lamenti col rombo di un tuono, se nessuno si precipitò a controllare.
Il liminale si aggrappò alle sbarre e con un rantolo affaticato si mise in piedi. Probabilmente non aveva avuto molte occasioni per camminare, a giudicare dall'aspetto delle stecche ossute che si ritrovava al posto delle gambe. La coperta gli scivolò di dosso senza che lui tentasse di trattenerla, lasciando il corpo denutrito alla mercé del freddo.
In quelle condizioni non sarebbe mai riuscito a fronteggiare quella pioggia torrenziale. Non volendo altri morti sulla coscienza, Victoir raccolse da terra il panno lurido e glielo avvoltolò alla bell'e meglio attorno alle spalle, ignorando il passo indietro con cui l'altro cercò istintivamente di mettere distanza.
Un contatto visivo di un secondo bastò per accordarsi sul fare meno rumore possibile, allorché, dopo aver dato una spazzata con lo sguardo ai dintorni, il cacciatore sgattaiolò fuori dalla tenda con al seguito il fuggitivo claudicante.
L'infuriare del temporale riverberò in ogni suo senso: mentre l'udito coglieva con precisione matematica la provenienza di ogni suono, le narici furono intasate da un pot-pourri reso ancor più nauseabondo dall'odore delle polveri sollevate dalla pioggia. Persino gli occhi faticavano a ricondurre le forme sfumate a ciò che pochi minuti prima avevano visto nitidamente. Il tempo stava peggiorando di minuto in minuto, dovevano sbrigarsi.
Con una mano adunca attorno all'avambraccio del liminale, il cacciatore fece strada affidandosi più alla memoria che alla realtà. La nebbia che aveva ingolfato Camden non era solo terribilmente fitta, ma anche tanto infida da pungolare la lingua col suo sapore acre a ogni respiro.
Approfittare della guida dei lampioni, come se fossero stati dei fari in mezzo alla caligo mattutina, divenne un'esigenza. Sotto la luce giallastra di uno di questi, a neanche metà strada rispetto alla posizione di Lorraine, le gambe del fear sidhe cedettero e Victoir si ritrovò a scattare in avanti per evitare che cadesse di faccia sull'asfalto pietroso.
Lo aiutò a rimettersi in piedi tenendolo stretto per le spalle. «Hey, la strada per la Black Court è lunga, non morirmi ora.»
L'unica risposta che ricevette furono però due occhi confusi, troppo gravidi di sofferenza per affrontarne altra.
Il seme del dubbio germogliò nella mente razionale del mezzo vampiro: e se non ce l'avesse fatta? Se fosse stato troppo tardi già mentre assistevano allo spettacolo del freak show? Victoir sapeva troppo poco di quella razza praticamente leggendaria per non tentennare. Portarlo alla Black Court, la città volante in quel momento invisibile nel cuore della tempesta, sarebbe di certo stata la cosa più giusta da fare, ma l'istinto gli suggeriva che non fosse la migliore.
Se l'obiettivo era salvare il fear sidhe, chi mai sarebbe stato più qualificato dei suoi simili per farlo?
«... Il Sidh.» sussurrò, e stavolta neanche l'impeto vorace della pioggia o la barriera linguistica impedirono al liminale di sentirlo e strabuzzare gli occhi, abbandonandosi poi a un sorriso speranzoso. «Andiamo al Sidh, sì.»
Sperò di aver preso la scelta giusta. Cominciò però a dubitarne quasi subito, perché il fear sidhe, trovando sostegno per le membra esauste nel muro di un edificio decadente, si lanciò in un goffo tentativo di emulare i suoni dell'inglese: «A─ a... gua.»
Victoir non gli risparmiò l'espressione più corrucciata del suo repertorio. «A te e famiglia, qualunque cosa tu abbia detto.»
Nella sua drammatica vita da bilingue, né l'inglese né il francese lo avevano mai messo davanti al termine agua. Si sentì però molto stupido, almeno tanto quanto il suo protetto, quando vide quest'ultimo chiudere le mani a coppa e mostrargli la pioggia raccolta tra i palmi.
Victoir fissò prima l'acqua che traboccava tra le dita, poi la sua espressione da cucciolo di cane. «... Hai sete?»
Il gioco del mimo non era mai stato il suo forte.
Capendo che qualcosa nella comunicazione non stava funzionando, il fear sidhe sospirò e poi mimò l'atto di nuotare con movimenti tanto imbranati da far nascere una punta di imbarazzo in fondo allo stomaco del cacciatore.
«... Vuoi nuotare?» tentò ancora Victoir. «Vuoi andare al mare? È troppo lontano per andarci a piedi.»
Neanche lui sapeva più cosa stesse accadendo. A corto di idee, picchiettò sull'auricolare, sperando che qualunque diavoleria lo connettesse a quello di Lorraine funzionasse nonostante il maltempo.
«Aiuto, la creatura sta cercando di parlarmi.» disse, ma, dato il tono monocorde, il suo sembrò più un commento sardonico che una vera richiesta di soccorso.
Una tempesta di stridii più tardi, la voce distorta della caposquadra riuscì a raggiungerlo. «Vict─... che succede?»
«Credo che il fear sidhe si sia rotto...» tagliò corto lui, tornando a guardare con un'occhiata di sbieco il liminale in penosa attesa. «Appena ho detto la parola Sidh ha cominciato a... nuotare a mezz'aria e mostrarmi... l'acqua.»
«Vuoi portarlo al Sidh?»
«È in condizioni troppo gravi, non sono neanche sicuro che possa usare la magia. A questo punto mi chiedo se la Black Court possa davvero salvarlo...»
Un lungo silenzio lo portò a temere che l'auricolare fosse morto. Fu lì lì per chiamare il nome della collega, quando un fulmine accese il cielo e un tuono si infranse non troppo distante, rimbombando fin dentro la struttura stessa della strada. Victoir strizzò gli occhi, assordato, mentre il fear sidhe si copriva le orecchie e accostava a lui in cerca di protezione.
«─mi senti? Ha bisogno di acqua per aprire il portale!» la lontana voce di Lorraine gli strillò nelle orecchie un messaggio che doveva aver ripetuto fino allo sfinimento. «Portalo al lago di Regent's park!»
«Lago di Regent's park, roger.» ripeté il cacciatore, per poi allungare un braccio e cingere le spalle del protetto, invitandolo a incamminarsi. «Ti aggiorno.»
Se l'assistente rispose qualcosa, Victoir non l'udì.
------------------------------------
[1] "Piacere provocato dalla sofferenza altrui", termine tedesco intraducibile in italiano.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top