Alain Jeremy Campbell
#1
Reuven portò due dita sotto il mento del suo paziente, invitandolo ad alzare il capo. Il bambino non sembrava volerlo guardare in faccia, e non appena ricevette quello stimolo chiuse gli occhi e sollevò il mento senza protestare.
L'uomo in camice interruppe il discorso della madre 《La prego, mi ripeta con più calma quello che è successo》.
Marie si fermò, interdetta ma improvvisamente consapevole del fatto che stava balbettando nel raccontare gli eventi della sera prima. Sospirò, mentre il desiderio di sedersi sulla barella su cui sostava il figlioletto, immobile e silenzioso come una statua, aumentava in lei.
Renier si fece avanti《Alain sembrava... molto stanco ieri sera》ricominciò il racconto della moglie dall'inizio, per evitare di confondere in qualsiasi modo lo specialista《Stavamo salutando i nostri parenti quando è caduto a terra e ha cominciato a... fare dei versi... come se fosse...》il padre si interruppe, con un verso frustrato di preoccupazione: era evidente che non era nella posizione emotiva adatta per dare ulteriori spiegazioni, e il medico fece un cenno con la testa per far intendere che non c'era bisogno di dilungarsi. Alain non sembrò avere reazione, ma il dottore poté notare uno scatto improvviso degli occhi del ragazzo, che tornarono immediatamente a guardare a terra《Quando lo abbiamo posato sul divano, ha cominciato ad andare in iperventilazione》.
Una bella storia. Il bambino non sembrava di certo ferito in nessun modo, i genitori erano stati abbastanza svelti da chiamare un'ambulanza senza indugio e avevano eseguito con perizia le manovre descritte dall'inserviente al telefono; Alain Jeremy Campbell, questo era il suo nome completo secondo lo schedario che Reuven teneva in mano, era solo andato molto vicino a un pericoloso svenimento.
Alzò lo sguardo verso i genitori. Renier Campbell poteva essere sulla quarantina, nonostante i suoi capelli biondi e occhi azzurri camuffassero il suo volto con un'espressione più stoica. Marie era evidentemente più giovane, dal volto ovale e occhi lucidi che ispiravano simpatia... e a differenza di tanti parenti lì dentro era riuscita a mantenere il sangue freddo- più o meno. Era comunque più calma di quanto ci si potesse aspettare.
Sul corpo del piccolo non c'erano segni di maltrattamenti fisici e anche se appariva davvero intimidito dall'ambiente ospedaliero aveva conversato sommessamente con qualche infermiera e risposto alle domande preoccupate dei genitori. Più che intimidito, sembrava che si vergognasse. Come se avesse fallito in un compito che molti, o lui stesso, consideravano fondamentale.
L'uomo in camice si chinò《Alain》richiamó l'attenzione del piccolo, ormai costretto ad osservarlo《Ti fa male qui?》gli domandò, posando le punte di indice e medio sul petto del bambino, che annuì senza proferir parola. Mentre il padre si allontanava da suo figlio per permettere al medico di continuare la sua diagnosi, Reuven assunse un'espressione confusa, lasciando che egli continuasse《E invece qui?》preso da un'improvviso sospetto, Reuven si chinó e posó entrambe le mani sulle spalle del giovane paziente, provocando immediatamente un fremito lungo tutto il suo corpo. Poteva ben considerarlo un sì.
A quel punto, il dottore fece un cenno al padre del bambino, per invitarlo a tornare vicino. Una volta rialzatosi dalla scomoda posizione ordinò 《Lo carezzi》.
Renier non poteva capire cosa stesse succedendo -anzi, condivideva l'evidente scetticismo di sua moglie davanti all'intera situazione- ma fece come gli fu richiesto. Alain non alzò il capo alla gentile pacca di suo padre, ma quando il medico gli domandò se provasse dolore anche così, dalla sua si poté udire la traccia un pianto represso, mentre confermava di nuovo con flebile "sì".
Reuven guardò i due genitori, evidentemente pietrificati dalla sorpresa, tanto che il padre non aveva nemmeno scostato la mano dalla spalla del figlio.
《Se le mie supposizioni sono esatte, Alain potrebbe dover passare qualche altro giorno da noi. Lo faremo spostare nella sezione psichiatrica infantile》.
-
A Marie non sembrava possibile che fossero passati quasi tre mesi da quella strana sera passata all'ospedale. Mai, mai aveva considerato che Alain potesse soffrire di... qualsiasi malattia le preoccupate occhiate dei medici pronosticavano.
Il suo sguardo aleggiava sul figlio, che nella sala d'attesa dello studio giocava, da solo, con un trenino, facendolo fluttuare poco sopra le rotaie di legno. Alain era sempre stato nella sua mente, e in quella di Renier. Entrambi desideravano così tanto una famiglia. Quando finalmente suo figlio era venuto al mondo, Marie era certa che non potesse esserci nulla nella sua vita che avrebbe avuto la stessa importanza che aveva quell'esserino con gli occhi scuri; e adesso sedeva lì, mano nella mano con suo marito, nel silenzio di una camera imbiancata in attesa di capire a cosa quel bambino sarebbe dovuto immeritatamente andare incontro.
Finalmente lo psichiatra che avevano davanti si decise a parlare, attirando l'attenzione della donna dai capelli mori《Signori》cominciò il suo discorso con una solennità inappropriata, distaccata《Fortunatamente, non dovete temere il peggio. Le condizioni di Alain sono- beh, gravi, ma non influenzeranno i suoi... comportamenti》.
Dal momento in cui quella conversazione era cominciata, Marie aveva progressivamente perso colore in volto. Si aspettavano pessime notizie: lo sapevano che tutti gli esami a cui era stato sottoposto Alain non potevano essere semplice routine. Ma sarebbe stata capace di crescere un figlio... beh, di crescere un figlio...
Renier interruppe il flusso dei suoi pensieri, portando avanti il corpo e schiarendosi la voce《Quindi, che cosa ne avete concluso?》domandò impaziente. Solo perché era più pragmatico di sua moglie non significava che fosse a suo agio in quella situazione e Marie notava, nel modo in cui continuava a tenerle la meno, nelle rughe d'espressione prematuramente accentuate dal nervosismo, che anche lui in quel momento era fragile quanto lei.
《Vostro figlio sembra soffrire di una forma afefobia ereditaria》 rispose lo psichiatra, fermo, alternando il suo sguardo fra Renier e Marie《Si tratta di una condizione per cui il bambino prova dolore nel venire toccato, e l'ansia provocatogli può causargli attacchi di panico e forti reazioni fisiologiche》.
Renier, dopo qualche attimo, tornò a poggiare la schiena contro il sedile di plastica blu. Confuso, spezzato. Come sua moglie, non aveva idea di come avrebbe dovuto sentirsi al riguardo. Era una cosa positiva? Che la patologia di Alain si limitasse solo al contatto fisico? Ma rallegrarsi di quel fatto, quella caratteristica così orribile che avrebbe inseguito Alain forse per sempre sembrava crudele. Entrambi avevano notato che Alain era refrattario a qualsiasi tipo di coccola, piagnucolava agli abbracci, e si asteneva dai giochi più fisici in cui i suoi coetanei si dilettavano; eppure nessuno dei due aveva mai pensato di immaginare che loro figlio fosse così ripugnato dal contatto fisico. In fondo, quella specie di capriccio era sorto solo due, forse tre anni prima: poteva benissimo essere il manifestarsi di una voglia di indipendenza, o un accentuarsi della natura fredda del padre. Non c'era motivo di pensare a qualcosa di peggio.
Renier provò nuovamente a parlare, ma si accorse che la sua gola era bloccata da un grumo, la sua mente incapace di trovare qualcosa da dire. Fu Marie, questa volta, a portare avanti la conversazione:《Ed è... è trattabile?》domandò fugace, avvicinando un po' la sedia alla scrivania《Beh, di sicuro Alain dovrà cominciare a frequentare uno psichiatra. Si può anche valutare se provare con degli ansiolitici, ma... ad essere sincero, per la severità della condizione di vostro figlio》lo specialista si interruppe, finalmente facendo trasparire una nota di empatia attraverso le sue sterili corde vocali《E' probabile che non se ne libererà mai completamente》.
Beh, questa sentenza almeno decretava come Marie avrebbe dovuto sentirsi: senza speranza. Alain era destinato a una vita faticosissima. Vedere suo figlio designato a un'esistenza di panico e incertezza le fece venir voglia di scoppiare in lacrime in quel momento. Non era la sua condizione in sé a disperarla, quanto l'idea che non si potesse fare nulla: avrebbe volentieri preso lei stessa il fardello di quella malattia, se avesse potuto. Il peso di non poter garantire un'esistenza serena a suo figlio sembrava volerla consumare.
Nemmeno Renier era immune alla devastazione che quella notizia portava. Lasciò la mano di sua moglie, per portare un appoggio ala sua testa, stanca e distrutta, accogliendola con due dita sul ponte del naso. Per un attimo, voleva rimanere solo nel loro dolore. Impedirsi di disperdersi nel mare di emozioni che sembrava annegarlo. Se era certo che sua moglie avrebbe affrontato la situazione con decisione, con infinito affetto e delicatezza, con una forza d'animo che lo avrebbe sempre stupito, non era certo che sarebbe stato lo stesso per lui. Doveva prima ritrovare stabilità, capire la situazione. Ma come poteva? Come poteva comprendere a fondo come suo figlio si sentiva? Portava rancore per loro, che insistentemente lo ricoprivano di carezze, baci, abbracci che per lui dovevano sembrare interminabili sessioni di dolore quotidiano? Ne avrebbe avuto tutto il diritto, ma allora perché non parlare? Perché non dirglielo?
Mentre Renier si domandava ciò, Marie rivolse nuovamente lo sguardo verso la sala d'attesa. Scorse Alain, questa volta intento a sistemare le rotaie della ferrovia giocattolo. Per un momento, la prospettiva che non avrebbe dovuto più stringere suo figlio la stravolse: ma quando Alain alzò gli occhi e la salutò con la mano, il tempo sembrò cristallizzarsi, per un poco, in quell'atto gioioso.
#2
Judas e Alain erano seduti entrambi sul divano scuro dell'appartamento del più piccolo. Per una serata, finalmente, Ikaiaka gli aveva detto in anticipo che sarebbe stato via quella sera -come se non fosse già la norma- e Alain si era finalmente deciso a invitare il suo ragazzo. Lui forniva l'appartamento, Judas le birre, dato che sfortunatamente i due proprietari non avevano ancora ventun anni. Dannato Canada.
In realtà l'appartamento in sè non era sta gran bellezza, considerato che ci vivevano un universitario e un bartender. All'ultimo Al si era pentito dell'invito, ma si sentiva ancora più a disagio continuando a sfruttare la casa di Judas che aveva già usurpato abbastanza: in ogni caso aveva riordinato cucina e soggiorno, dato che dubitava sarebbero entrati in camera sua. Quella di Ikaiaka l'aveva semplicemente chiusa e sapeva che Judas non avrebbe curiosato in giro, per il suo bene.
Così adesso se ne stavano stesi sul divano in silenzio, con un paio di lattine già vuote davanti a loro. Faceva caldo, tanto caldo, e nonostante avessero aperto tutte le finestre l'afa di Toronto si attaccava ai loro corpi come colla e lasciava una spiacevole sensazione di sporco, simile a quella che produce sfogliare vecchi album le cui foto erano state attaccate con la coccoina che si scioglie sulle tue mani. In pochi giorni sarebbe stato il loro anniversario. Il 29 di Giugno. Nessuno dei due ne aveva ancora parlato. L'anno prima, sì, erano già tornati insieme a quell'epoca, ma era tutto troppo strano, il senso di intima complicità doveva ancora essere recuperato, e alla fine, anche perché Alain era un po' preso dalle sue ultime vacanze estive prima dell'università, non avevano festeggiato un bel niente. Forse avrebbero fatto così anche adesso? Però quasi non ci poteva credere che erano passati due anni da quando si erano messi insieme. Era surreale. Così come durante quella serata, il tempo non sembrava essere passato, tutto preso com'era, intrappolato in una specie di malefica retina di routine e momenti come quelli, adorabili e insignificanti. Alain ne godeva sempre, lo aveva imparato dai libri, e da quella convivenza fallita poco meno di un anno fa che invece sembrava così lontana; era proprio vero che il passato era una terra straniera. Però la sua relazione con Judas non era cambiata dopo quei tre mesi di separazione; ci aveva messo tempo, avevano dovuto nuovamente abituarsi l'uno all'altro, a sentirsi fidanzati, avevano dovuto convivere con la consapevolezza di quella separazione e l'astio dei genitori di Alain, ma alla fine perfino quello si era attenuato e loro due avevano continuato la loro relazione, questa volta in una normalità relativa, a parte per quando gli capitava di dover chiarire le loro età in pubblico. Inizialmente Al ne era mortificato, ma dopo aver capito quanto gli costasse stare lontano da Judas, avrebbe preferito urlarlo piuttosto che rischiare di perderlo.
Con la mente tornò all'inverno di un anno prima. La serata era molto simile a quella, nonostante facesse più freddo e fosse già buio alle finestre, un buio non rischiarato da stelle, perché le luci della città tentavano di smentirne la presenza. Okay, forse non era una serata simile a quella, ma la mente effettivamente un po' brilla di Alain le ricollegava come fossero gemelle.
Alain stava completando un tema, nervoso, con la porta di camera sua chiusa, così come la finestra, e nella sua stanza si odorava un buon profumo di libri e caffelatte. Aveva lasciato un punto sulla carta, poi aveva posato nuovamente la penna ad inchiostro nero sul foglio e aveva tracciato una J maiuscola nel suo corsivo elegante. Infine era scoppiato a piangere. Era il 14 di Febbraio.
Ovviamente non lo aveva detto a Judas. Non voleva fargli pensare che fosse stato indifeso davanti a una marea di emozioni, in quel periodo, perchè non lo era stato. Aveva costruito un'immensa diga intorno ad esse per farle tacere. Stanchi com'erano i suoi compagni dello studio, Alain in quel periodo pareva un'instancabile macchina da guerra, concentrata solo e uniamente sui suoi libri e sullo studio- per illudersi, ovviamente, per impedire al suo cervello di autodistruggersi, nonostante poi lo stress si fosse accumulato a tal punto che i suoi genitori avevano dovuto costringerlo a riposarsi per qualche giorno a casa. Quelli erano stati i giorni peggiori. Insieme a San Valentino. E il suo compleanno.
Improvvisamente Judas interruppe il silenzio alzandosi con pigrizia, stirando le gambe che erano rimaste distese e inermi troppo a lungo «Ne vuoi una?» domandò, facendo ondeggiare fra le dita una sigaretta che doveva appena aver tirato fuori dal pacco di Kent. Alain non se ne era nemmeno accorto, e adesso la sigaretta gli pareva ondulare come si faceva con le matite alle elementari. Scosse la testa «No, grazie» rifiutò, non era minimamente abbastanza ansioso per sentire il bisogno di una fumare.Il moro si avvicinò a passo lento alla finestra, tirò fuori un accendino dalla tasca posteriore dei pantaloni e contemporaneamente ci infilò il pacchetto. Dopo un paio di zac, zac, zac, di rito la fiamma finalmente s'innalzò e l'uomo accese la sigaretta, portandosela alla bocca e inspirando. Presto nella stanza si stanziò un lieve odore di nicotina, nonostante Judas stesse espirando verso l'esterno; Alain sperò che a Ikaiaka non dispiacesse dover areare la stanza. Non ricordava se anche lui fumasse o no, ma quando era periodo di esami la stanza di Alain puzzava sempre come una taverna di corsari turchi e lui non se ne era mai lamentato, quindi supponeva che il problema non si ponesse.
Continuando a fissare Judas si rese conto del perchè il ragazzo si era alzato così improvvisamente, era il silenzio, Alain avrebbe dovuto accorgersene prima. Sapeva che per qualche motivo Judas odiava il silenzio. Anche quando studiava a casa sua, non c'era un momento in cui non sentisse, flebilissimo, per non disturbarlo, il rumore di un lettore cd (o più raramente di una radio) che riproduceva qualche pezzo Jazz a lui sconosciuto. Non gli aveva mai spiegato il perché di questa particolare fissazione, ma come molte nevrosi, forse non c'era un vero e proprio motivo.
In ogni caso era il momento di rimediare, non poteva accogliere il suo ragazzo a casa sua per farlo sentire a disagio. Alain issò le gambe via dal cuscino del divano e posò i piedi a terra, si alzò e gli si avvicinò, appoggiandosi alla balaustra della finestra. Judas gli sorrise. «Com'è Chicago?» domandò tutt'ad un tratto il più piccolo, alzando gli occhi stralunati verso l'altro. "Stralunati" era un aggettivo che gli aveva attribuito lo stesso Judas «Sembrano un po' quelli di un cerbiatto» gli aveva detto «Quando un auto lo illumina con i fanali».Il ragazzo dagli occhi chiari lo guardò un po' stupito, forse dall'improvvisa domanda, forse dalla stranezza di essa «Non ci sei mai stato?» gli controbattè lui. Alain scosse la testa per negare «Sono stato al Grand Canyon, Los Angeles, Hawaii, ma mai sulla East Coast» confessò «E poi sai, se volevamo vedere le cascate non c'era bisogno di oltrepassare la dogana».Judas annuì ridacchiando e poi tornò a guardare fuori dalla finestra. In realtà entrambi sapevano perché il piccoletto aveva deciso di fare quella domanda, ma nessuno dei due tirò fuori la questione. Era tutto ancora da decidere. Però forse, quel Novembre, era il caso di presentare Alain alla sua "cognata". Judas non gli aveva detto molto di lei, a parte che si chiamava Meredith, aveva sposato suo padre quando lui era ancora piccolo, viveva nella sua casa d'infanzia e non sapeva ancora che era gay. Quindi portarlo al Ringraziamento o a qualsiasi occasione con lui sarebbe risultato in un coming out abbastanza scomodo per tutti. Doveva ammetterlo, la vita di Judas era piena di decisioni e momenti che sembravano presi direttamente da un libro -un libro abbastanza melanconico, fra l'altro- ma forse adesso avrebbe fatto meglio a dire la loro vita, in fondo quella decisione riguardava anche lui. Non che fosse troppo impaziente di presentarsi a Meredith; oltre ad avere un sano terrore di tali incontri in generale, date le passate esperienze con i suoi, di genitori, il suo calcolo dei peggiori casi possibili sembrava essere diventato sempre più lungo e probabile.
«È bella» questa volta interruppe il silenzio Judas, che si era fermato un attimo per pensare «È diversa da Toronto, perchè tutte le luci circolano intorno al porto, hai presente? Se stai un po' in alto rispetto alla città, vedi che le luci vanno proprio a raggio». Entrambi vivevano in parti interne alla città: Alain in una zona universitaria, economica ma sempre rumorosa, mentre Judas stava a Riverdale, un quartiere residenziale ma comunque piuttosto attivo, eppure evidentemente Judas non aveva vissuto proprio in città, ma più lontano, protetto da luci indiscrete. Logico, considerato che c'erano da crescere due ragazzi lì. Logico anche che avesse ricordi più dolci di quella zona, come Alain li aveva della sua casa, fuori rispetto al frenetico viavai del centro cittadino. L'infanzia tirava quegli scherzi lì.
Judas concluse la sua sigaretta e la gettò fuori dalla finestra, senza pensarci molto, e guardò il suo orologio a polso. Mezzanotte meno un quarto? Il tempo era volato, lui avrebbe dovuto andarsene. Alain non aveva un letto grande lì, e lui in cinque ore doveva svegliarsi e andare a lavorare. Non si poteva dire che fosse stato saggio stare così tanto fuori casa, però in fondo era tempo passato con Al. Era infinitamente meglio che andare a dormire presto da solo, avendo solo i suoi messaggi di buona notte.
«Io me ne devo andare» annunciò quindi girandosi verso il suo ragazzo «Ci vediamo domani?». Alain scosse la testa «Manca poco all'esame... devo studiare. Scusa» faceva sempre così, scusarsi per cose anche al di fuori delle sue possibilità, e nonostante fossero passati due anni da quando stavano insieme il suo atteggiamento faticava a cambiare. Non che a Judas desse particolarmente fastidio, ma gli dispiaceva che Alain si sentisse obbligato a scusarsi per qualche stupido disagio come quello; non sapeva bene come comportarsi al riguardo.«Non importa. Ci vediamo dopo il tuo esame, okay?» l'uomo sorrise, poi si raddrizzò, si avvicinò ad Alain e lasciò un bacio leggero sulla sua tempia, sfiorandogli i capelli. Controllò di avere le chiavi dell'auto e si avvicinò all'uscita dell'appartamento «Ciao» lo salutò all'ultimo Alain, mentre l'altro stava socchiudendo la porta. Judas gli sorrise di nuovo, e se ne andò.
Alain sospirò e cominciò a rimettere a posto il soggiorno.
AU
#1
Un uomo si svegliò di scatto, respirando pesantemente. Provò a muoversi, prima di osservare l'ambiente intorno a sè e comprendere: era legato ad una sedia, e il dolore che sentiva ai polsi e alle caviglie era causato da delle strette cinghie di cuoio che li circondavano. Con la gola secca, cominciò a chiamare, alla ricerca di qualcosa, un aiuto. 《C'è qualcuno?!》urlò in preda al panco, alla ricerca di un qualche segno di vita. Non riusciva ad intravedere il muro dietro di lui, e la camera in cui si trovava mostrava solo una rampa di scale che portava verso un piano superiore, e una porta che si confondeva con il muro verde chiaro.
Finalmente, quella stessa porta si aprì con un cigolio metallico. L'uomo smise di urlare, per osservare il ragazzo che era appena entrato: era alto, con i capelli bianchi e un paio di occhiali rossi. Chiuse la porta dietro di sè con un sospiro, borbottando qualcosa sottopensiero, prima di posizionarsi davanti all'uomo intrappolato 《Non c'è alcun bisogno di urlare, va bene?》 domandò retorico, fissandolo con le sue pupille dilatate 《Non ti ho neanche fatto nulla》.
L'uomo lo osservò sbalordito, incapace di credere che quello che sembrava un adolescente lo avesse messo in quella situazione 《Dove... sono?》domandò confuso, mentre il ragazzino continuava a guardarlo dall'alto in basso 《Non è questa la cosa importante, Markus》 gli rispose. L'uomo spalancò gli occhi: come sapeva il suo-
《Oh, andiamo. Ti ho portato fino a qui senza nemmeno sapere il tuo nome? Chi pensi che sia?》 ridacchiò il giovane alla sua sorpresa, mentre fuoriusciva dalla stanza per tornare dal corridoio cui era provenuto. Che fosse finito in uno di quei circoli di torturatori sul web? In tal caso, sarebbe stato meglio che Markus non si fosse mai svegliato.
Non fece nemmeno in tempo a pensare ciò che il ragazzo dai capelli bianchi tornò indietro, sfogliando distratto dei documenti che teneva in una cartella di carta. Tornò a posizionarsi davanti a lui, chinandosi fino a raggiungere l'altezza dei suoi occhi 《Devo chiederti un favore.》 spiegò calmo, osservandolo attraverso i suoi occhiali rossi.
《Un... favore?》 domadò Markus timoroso. Bene, adesso sarebbe finito in chissà quale strana attività illegale a danno suo o di altri. Il suo corpo fremette.
《Esattamente》 il ragazzo gli sorrise, calmissimo, preparandosi alla spiegazione che stava per dare 《E se non avrai intenzione di aiutarmi, beh》 riaprì la cartellina, spostandone i fogli velocemente 《Innanzitutto, non aspettarti di uscire mai più di qui》 pronunciò quasi annoiato 《Ma soprattutto-》
Markus a malapena si rese conto della frase che continuava. Il ragazzino aveva tirato fuori una fotografia, una fotografia di una coppia al parco con una bambina. Nonostante fossero stati fotografati da lontano, era impossibile non riconoscere suo fratello.
《COSA CAZZO LE HAI FATTO, PSICOPATICO?!》 urlò in preda alla furia il rapito, spingendosi con impeto verso il ragazzino- solo per far leggermente scricchiolare la sedia. Probabilmente era inchiodata al terreno. Il giovane assunse solo un'espressione perplessa e seccata, prima di alzarsi 《Ti ho detto che non ho ancora fatto niente》 sottolineò sprezzante 《Se farai quello che ti dico, domani stesso potrai chiamare tuo fratello e constatare che stanno tutti bene. Che lei sta bene.》 a quell'ultima frase il suo rapitore sorrise, posando l'indice sulla bambina nella foto, coprendole interamente la testa. Poi, ritirò la foto 《Altrimenti, beh, questa stanza ha ancora tanto posto. Per me non c'è differenza》 .
L'uomo legato alla sedia aveva cominciato a singhiozzare, chinando la testa per quanto potesse. Calde lacrime scorrevano lungo il suo viso e gli ricadevano sulla maglia. 《Eddai, non ho mica detto che ho intenzione di farle del male. Se tu farai esattamente quello che ti dico, non avrai motivo di preoccuparti》 il ragazzino gli sorrise rassicurante. Markus alzò la testa. Non aveva altra scelta. Non c'era nessuna via di scampo. Se quel... folle... aveva capito immediatamente a chi si riferiva... non c'era modo di sfuggirgli. Lo ricattava con il dolore, ma gli aveva anche fatto sapere che era a conoscenza del suo più grande affetto, che non stava bluffando. In qualsiasi caso, lui era fottuto.
《C-che... che cosa vuoi che-》 la voce dell'uomo venne spezzata da un altro singhiozzo, ma intento com'era nel recuperare qualcos'altro dalla cartella, il pazzo che aveva davanti neanche sembrò notarlo 《È molto più facile di quello che credi, fidati》 lo assicuro, sfilando un'altra foto dal fascicolo. Anche questa volta gliela pose sulle gambe 《Lo riconosci, no?》 domandò il ragazzino.
La foto riprendeva, sempre da piuttosto lontano, un giovane uomo che rideva. Aveva i capelli scuri, e in mano teneva una qualche bevanda. Il ragazzo sbuffò, mentre Markus tentava ancora i di riconoscerlo con la sua visione ancora sfumata 《Si chiama Judas》.
Improvvisamente, a Markus venne in mente l'immagine del ragazzo. Annuì franticamente. Sì, lo conosceva, era stato con lui qualche sera prima, aveva ricevuto un suo messaggio e-
《Bene》 venne interrotto ancora prima che potesse spiegare la situazione e constatò che effettivamente l'altro doveva conoscere perfettamente ogni aspetto della sua vita. Un altro brivido 《La prima condizione del nostro patto è che non lo dovrai vedere o sentire mai più. Trasferisciti. Cambia numero di telefono, fatti una plastica facciale, non mi interessa. Se ti ritrovo un'altra volta con lui, tua nipote è finita. Ti è chiaro?》 domandò gelido il ragazzo, tagliente, fissandolo negli occhi. Markus annuì. Avrebbe fatto di tutto. Avrebbe gettato via il suo cellulare, mai più girato quelle parti, mai più frequentato quel tizio, mai più-
《E poi》 continuò il rapitore, ora con voce più mellifua mentre Markus continuava a piangere 《Se racconterai a chiunque, chiunque di questa conversazione, il patto salta egualmente. Chiaro anche questo?》 domandò nuovamente. Markus annuì con un lamento.
Il ragazzino sfoggiò un sorriso radioso. Un'altro caso risolto senza violenza.
Si allontanò dalla sua vittima rimettendo con cura la foto nel dossier e tornò nella stanza laterale mentre l'altro continuava a singhiozzare sommessamente. Tutt'ad un tratto, un liquido cominciò a colare dal soffitto, e Markus alzò lo sguardo notando un piccolo buco proprio al disopra della sua testa- per poi ricevere immediatamente il getto sulla faccia. Un odore dolciastro cominciava a diffondersi per la stanza.
Markus voltò lo sguardo tossendo verso il ragazzo, che faceva capolino da dietro la porta 《Sentiti libero di bere quando vuoi》 gli consigliò alzando le spalle 《E stai tranquillo, va bene?》 aggiunse in tono quasi paterno, prima di chiudere la porta.
Markus abbassò la testa. Mentre tentava nuovamente di slacciare la corda che gli tratteneva i polsi, notò che le sue palpebre erano pesanti dal pianto. Chiuse gli occhi, in un attimo di speranza.
Quella era senza dubbio la realtà. Sentiva il dolore, e gli odori, e la vergogna. Ma quello che poteva sperare era che quel ragazzino fosse sincero quanto si sforzava di sembrare minaccioso.
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