Venticinquesimo
"Ho finalmente trovato un foglio di carta stracciato su cui scrivere, ne ho dannatamente bisogno, Stevie. Sento il dannato bisogno di parlarti, di vederti, di toccarti. La guerra non è come l'avevo immaginata; è orribile, è sbagliata. Ho visto morire sotto i miei occhi i nostri compagni, e, Stevie, è davvero atroce. Voglio tornare a casa, mi manchi immensamente. Mi manca il profumo delle tue piccole camice, le tue calde mani sul mio viso, il tuo ciuffo biondo sempre curato, i tuoi occhi azzurri che brillano sempre e comunque come due zaffiri, ma soprattutto le tue morbide labbra sulle mie, che mi aiutano a respirare. Senza di esse mi sento soffocare qui, in mezzo alla polvere e alle macerie, fra gli spari e le urla, la mancanza delle tue labbra mi sta uccidendo. Se non dovessi tornare, non voglio che tu pianga. Voglio che tu sorrida al mio funerale, voglio che il tuo meraviglioso e perfetto sorriso mi accompagni per l'ultima volta.
Il tuo Buck."
Quel piccolo frammento di carta venne appallottolato non appena James sentì gli altri compagni avanzare verso di lui. La nostalgia era troppa, così asfissiante e opprimente, che anche gli altri, senza dubbio, si erano accorti dello stato d'animo del sergente.
Steve era ormai diventato un'icona guida per il popolo; la sua trasformazione in Captain America era più che riuscita, il sogno di tutta una vita si era avverato. Finalmente era normale, un giovane e forte soldato pronto a correre in battaglia. Era tutto ciò che aveva invidiato agli altri per tutta la vita.
Il suo desiderio più grande, però, era che Bucky potesse vedere ciò che era diventato. Magari si sarebbe arrabbiato, sarebbe andato contro la sua scelta, ma avere quegli occhi verdi addosso, dopo così tanto tempo, era ciò che gli mancava di più.
Era ancora vivo? Era ferito? Era disperso?
Non lo sapeva, Steve non aveva notizie di nessun tipo sulla persona più importante della sua vita.
Lui ci pensava continuamente, al respiro di Bucky, al suo sorriso, ai suoi occhi, alle sue mani, alla sua voce; semplicemente, pensava a Bucky.
L'addestramento non era stata una passeggiata, con il fragile fisico da rachitico che si ritrovava, ogni movimento per il ragazzo gli costava il doppio della fatica.
Ma lui usava il cervello, lo aveva imparato sin da piccolo. Là dove la forza fisica non compensa, quella mentale ha il comando.
Non era così complicato, Rogers agiva d'istinto, con il cuore, come gli aveva sempre insegnato sua madre, come gli aveva insegnato Bucky.
Ogni volta che si trovava bloccato nel fango, quando i muscoli facevano male, e le urla del sergente e degli altri soldati incombevano contro di lui, Steve chiudeva gli occhi, tutt'intorno a lui si fermava, e nelle orecchie riusciva a sentire solamente la voce di Bucky sussurrargli:
«Non devi mai sottovalutarti. Mai. Hai capito, Stevie?» respirava, stringeva i pugni, e lo sentiva di nuovo:
«Sei forte.»
Anche quando aveva sopportato quel tremendo dolore procuratogli dal siero, aveva chiuso gli occhi, tremante dalla paura, ma a non farlo mollare era Bucky, era il suo ricordo.
Non passava secondo in cui Barnes non stuzzicasse i pensieri di Steve.
E poi c'era Carter, Peggy Carter; una bella donna, ostinata e sicura di sé.
Steve non lo capiva, non aveva di certo ricevuto attenzioni da ragazze, oltre che a quelle di Bucky, e rendersi conto che in qualche modo quella donna fosse interessato a lui, gli metteva in subbuglio lo stomaco.
Forse era solo una sua convinzione, ma i gesti di Carter nei suoi confronti erano estremamente simili a quelli di Bucky.
Come far capire ad una donna che non si è minimamente interessato a lei, piuttosto, dirle di avere già una relazione con il tuo amico di scuola?
Di certo, fra tutti i problemi del capitano, quello era il peggiore.
Si esibiva, anche se tutta quella fama fra i giovani e le donne era molto di più di ciò che potesse immaginare, Steve non era felice. Lui voleva combattere, più di ogni altra cosa, cercare Bucky e lottare al suo fianco.
Era in Italia, uno spettacolo per supportare i loro uomini in missione.
Amava l'Italia, aveva letto così tanti libri di storia sugli artisti come Da Vinci e Michelangelo, amava il loro stile e i loro studi. Uno dei suoi sogni nel cassetto era sempre stato quello di partire nella penisola assieme a Bucky, e visitare i musei d'arte.
Adesso era lì, in un campo puzzolente di soldati stanchi, senza James.
Si era esibito come al solito, con un ridicolo costume blu e uno scudo a stelle e strisce; di solito i suoi spettacoli mandavano il pubblico in visibilio, ma quello era un palcoscenico ben diverso da ciò a cui il capitano era abituato.
Lì c'erano persone vere, persone segnate dalla morte e dal dolore, persone che non avevano bisogno delle bambinate di un attore in calzamaglia.
Stava piovendo debolmente, Steve si era seduto sugli scomodi gradini di legno dietro il palco. Il cappotto color sabbia lo riparava dal freddo, e fra le mani un piccolo quaderno su cui disegnava.
Una scimmia su un mono ciclo con uno scudo: quello era il suo soggetto, quello era lui, un animale da palcoscenico.
Peggy lo raggiunse, Steve non era poi così entusiasta di scambiare quattro chiacchiere con lei, provava solamente un'enorme imbarazzo nei suoi confronti.
Un fuoristrada sporco si fermò davanti ad una tenda, probabilmente quella dell'infermeria. Degli uomini alzarono la voce, altri scesero dal veicolo delle barelle con soldati feriti.
L'attenzione di Steve venne immediatamente catturata da quel movimento, così domandò a Peggy cosa fosse successo.
«Il tuo pubblico è ciò che rimane del centosettesimo.» rispose lei con il suo solito tono da superiore.
Una fitta al cuore gli tranciò il fiato. Una delle sue paure peggiori si era avverata.
Bucky, lo aveva perso definitivamente.
«Centosettesimo?» ripeté aggrottando la fronte, non esitando un istante, e correndo verso la tenda seguito da Carter.
«Colonnello, mi serve l'elenco delle vittime.» Sbottò Rogers. Non si preoccupò nemmeno di sembrare irrispettoso nei confronti del suo superiore, continuando :«Mi serve solo quello del sergente James Barnes, centosettesimo. La prego mi dica se è vivo. B-A-R...» il terrore lo stava facendo delirare, che diavolo, perché stava facendo lo spelling del suo nome? Forse, perché non sentire quel nome da così tanto tempo gli aveva fatto dimenticare come si pronunciava.
«So come si scrive, ho firmato molte lettere di condoglianze oggi, ma quel nome mi sembra familiare. Mi dispiace.» l'uomo rispose stanco, irritato da un altro problema aggiuntosi alla sua enorme lista.
«E che ne sarà degli altri dispersi? Ci sarà una missione di salvataggio?» domandò Steve. Non aveva fatto caso all'ultima frase, non credeva che Bucky fosse morto, non voleva nemmeno pensarci. Sapeva che fosse vivo, lo sentiva.
«Si capitano, si chiama guerra.» rispose con un lieve pizzico di sarcasmo il sergente, continuando a sistemare le sue scartoffie.
«Ma se sa' dove si trova, perché...» Steve non sentiva ragioni, non si sarebbe mai arreso. Poteva ritrovarlo, poteva salvargli la vita, poteva stare con lui. Abbandonarlo non era un opzione.
«Perderemo più uomini di quanti ne salveremo. Credo debba andare adesso.» concluse l'uomo stanco, dando le spalle al capitano.
«Sì signore, devo andare.» a denti stretti, il biondo uscì fuori, camminando fra il terreno fangoso, ignorando totalmente la presenza di Peggy.
«Cosa vuoi fare, camminare fra le fiamme?» lei alzò la voce, irritata.
«Se è quello che serve.» si degnò di risponderle, non aveva poi tutta quella voglia di assecondarla o darle ascolto.
«Hai sentito il colonnello, probabilmente il tuo amico è morto. Escogiterà una strategia.»
'Amico' e 'morto', due parole inconcepibili in una frase che aveva come soggetto il suo Bucky.
Se avesse detto qualche brutta parola alla donna ostinata davanti a lui, di certo non se ne sarebbe pentito, ma si limitò ad uscire, mettendo in testa un elmetto trovato nei camerini delle ballerine, rispondendo:
«Quando lo farà sarà troppo tardi!»
Sospirando, Peggy seguì il capitano, forse disposta ad aiutarlo nella sua missione.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top