Terzo
I due bambini continuarono a passare pomeriggi interi, dopo la scuola, a giocare nei vicoli umidi del quartiere, per ben altri sette anni; proprio così, stavano entrando nella pubertà, due giovani ragazzini che continuavano a giocare a pallone come due bambini. Bucky era un bel giovanotto, i suoi capelli scuri erano morbidi in un ciuffo arruffato, quello era un particolare che lo distingueva da tutti gli altri, iniziando sin da subito ad avere delle spasimanti fra i piedi.
Steve era diverso. Pareva che si fosse bloccato, che non fosse più cresciuto; fare un confronto con il compagno, che era persino di un anno più grande, sembrava un po' esagerato, ma quel biondo era rimasto gracile. Questo lo faceva arrabbiare, faceva odiare se stesso, perché guardava il suo riflesso allo specchio, quello di un ragazzino pallido e magro, e poi osservava Bucky, un bel ragazzo in via dello sviluppo, atletico e slanciato. Ma questo non aveva ostacolato il loro rapporto, difatti Bucky non lo aveva mai guardato diversamente, al contrario di come facevano gli altri coetanei, che erano diventati molto più cattivi e violenti verso il povero Rogers.
Ma eccoli lì, insieme sempre e comunque, seduti sul marciapiede sporco dopo aver giocato a rincorrersi per il vicinato. Prima di tornare a casa scrivevano nel quaderno che Bucky aveva regalato a Steve: non sempre, soltanto episodi divertenti o particolarmente strani.
Quel giorno Steve dovette fermarsi in quella corsa prima del solito, sedendosi con il fiato mozzato senza nemmeno prendere il quaderno. Bucky gli si avvicinò confuso, piegandosi alla sua altezza.
Il biondo si era ripiegato su se stesso, stringendo il petto con le mani, il suo sterno saltava come un coniglio impazzito, e i suoi polmoni si stringevano in una morsa dolorosa. Tutto ciò lo lasciava senza respiro. Era diventato più pallido di quanto non lo fosse già, gli occhi sgranati e lucidi, e per la testa di Bucky passò l'idea che stesse per soffocare.
«Ehy Steve, respira.» lo rassicurò massaggiandogli la schiena, in un tentativo cauto di fargli trovare sollievo. Il più piccolo però non ci riusciva, continuava ad urlarsi in mente che doveva respirare, diavolo, lo aveva sempre fatto, perché adesso gli veniva così difficile? Espirare ed ispirare. Semplice.
Ma forse la paura era così tanta che gli impediva di concentrarsi. Anzi, sembrava stare peggio.
«Oh, cavolo Steve, così non và...» fu più un sussurro fra se e se, che forse il piccoletto non aveva nemmeno capito.
«Stevie, guardami.» quel nomignolo. Quasi mai il suo nome veniva abbreviato, a parte l'appellativo Steve invece di Steven, soltanto sua madre si limitava a chiamarlo dolcezza, oppure tesoro; gli altri ragazzi lo avevano soprannominato da sempre tappetto, o in altri spiacevoli modi. Ma Bucky, l'unico amico che aveva, non era la prima volta che lo chiamava in quel modo. Quella I, che addolciva il suo nome, il suono, la pronuncia amorevolmente sciolta in quelle sillabe. Non era la prima volta che lo chiamava così, ma nemmeno lo usava spesso: era come un richiamo, una medicina da usare nei momenti brutti. La prima volta che lo aveva chiamato Stevie, il piccolo si era sbucciato il ginocchio dopo che un bullo lo aveva spinto per terra, poi quel ridicolo soprannome era stato formulato quasi come un incantesimo anche quando il biondo era stato sgridato dalla maestra, quando i compagni gli avevano strappato il disegno che aveva fatto, ogni qualvolta che i suoi occhi azzurri si facevano lucidi, e l'unico che percepiva la loro sofferenza era Bucky.
«Stevie» ancora quel nome, le mani umidicce del moro gli alzarono il mento, mentre Steve continuava a boccheggiare emettendo dei suoni strozzati.
«Respira insieme a me.» la vista appannata del ragazzo non gli permise di focalizzarlo di fonte a lui, ma capiva dalla sua voce che quella era una falsa calma, che Bucky era tremendamente terrorizzato. Chiuse gli occhi, rilassò le braccia, e sentì il respiro del compagno difronte a se. Era così vicino che lo sentiva sul suo viso, sentiva l'odore di quel ragazzo, imitando subito dopo quel gesto.
Un sorriso lieve comparve sul volto di Bucky, ricominciando a eseguire quei sospiri profondi, imitati da Steve che riprendeva un colorito più roseo.
Il moro si sedette accanto a lui, poggiando una mano sulla sua schiena e massaggiandolo mentre riprendeva a respirare normalmente.
«Bravo, così.» lo rassicurò sorridendo.
«G-grazie Buck.» ansimò con voce rauca, sentendo che quelle deboli parole gli avevano graffiato la gola. Esattamente, lui lo chiamava Buck. Aveva soltanto tolto la lettere finale di quel diminutivo divertente, ma per lui era una grande differenza. Gli altri lo chiamavano Jamese, Bucky, lo sciupa femmine, il selvaggio; ma lui lo chiamava Buck.
«Adesso, voglio sapere che cavolo ti prende. Per davvero.» cercò di essere autoritario, ma proprio non ci riuscì con quel piccoletto, accennando sempre un sorriso di incoraggiamento.
Steve aveva informato Bucky del suo problema nel respirare, il maggiore se n'era accorto anche da solo, ma non aveva mai ricevuto spiegazioni.
Steve fece una pausa, un po' per riprendere fiato, un po' per attenuate il nodo alla gola che lo indispose: «Da sempre sono così, lo sai già....» spiegò a testa bassa.
«Si, lo so. Ma voglio sapere di più.» continuò Bucky, voltandosi in cerca di un contatto visivo. Odiava parlare con qualcuno che non lo guardasse, e questo Steve lo sapeva bene.
«Okay, da quello che mia mamma mi ha spiegato, e da quello che i dottori sanno, ho una cosa che si chiama asma.» dirglielo era strano, da una parte lo faceva infuriare con se stesso, lo faceva sentire in imbarazzo, lo faceva passare per il debole ragazzino malato, dall'altra era come se gli alleggerisse l'anima. Parlare con qualcuno di ciò che lo rendeva diverso, parlare con Bucky di ciò che lo faceva star male era una liberazione. Come se qualcuno avesse scavato nelle sue viscere e portato via quel macigno che lo soffocava.
«E non c'è una medicina per questo? Non puoi rischiare di soffocare ogni santo giorno.» si lamentò ingenuamente il più grande.
Steve scrollò la testa; «No, non possono darmi nulla...non sono come gli altri, sono più debole...»
«Non è vero.» sbottò serio Bucky «Tu sei il più forte di tutti.» concluse arrabbiato, come se qualcuno lo avesse provocato.
«Buck, se muoio, non lasciare che gli altri continuino a prendermi in giro.» stavolta gli occhi azzurri si erano uniti con quelli verdi lì davanti, rassicurando lo spaventato ragazzino scuro. Spesso quando sua madre lo aveva portato dal medico quest'ultimo li aveva avvertiti di un eventuale peggioramento, di una crisi respiratoria in piena regola che avrebbe potuto ucciderlo.
«Cosa?! Tu non morirai!» alzò la voce ancora più infuriato, quell'idea improvvisamente fu come una coltellata al petto di Bucky, una sensazione che non aveva mai provato in vita sua.
«Tu promettimelo.» insistette ingenuamente il minore.
Bucky prese come una furia il quaderno al suo fianco, poggiandolo sulle sue gambe e aprendolo di scatto, prendo una matita dalla sua tasca: disegnò una specie di omino su di una collina...ah, quella collina erano un mucchio di persone, con gli occhi a x.
Steve sorrise intenerito e divertito dall'improvvisa vena artistica del compagno.
«Questo sei tu, e questi sono tutti gli scemi che sono contro di te. Tu li batterai sempre.» concluse autoritario indicando il disegno.
«Hai ragione.» annuì serio il biondo, alzandosi assieme a Bucky e tornando a casa.
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