Quarto
«Steve!» Bucky andava sotto casa del biondo ormai ad ogni ora del giorno, per la più piccola delle stupidaggini, ma a Steve piaceva, amava sapere che persino per la più inutile delle novità, lui era sempre il primo pensiero del maggiore.
Sentendosi chiamare da quell'inconfondibile voce, Rogers si affacciò immediatamente dalla finestra della sua stanza che stava al primo piano. La sua camera era piccola e spoglia, con le pareti ricoperte da una carta da parati verde moccio, come la definiva Bucky; solo un letto ed un cassettone riempivano l'ambiente, ma all'amico dai capelli scuri piaceva aggiungere all'arredamento anche i migliaia di fogli intasati di disegni. La passione per l'arte del piccolo tredicenne asmatico stava crescendo, forse era l'unica cosa che si stava sviluppando, dato che il suo aspetto fisico non accennava segni di crescita.
«Buck!» rispose sporgendosi con le mani che reggevano il busto.
«Vieni a giocare a pallone?» domandò urlando senza curarsi del vicinato pignolo. Steve annuì sicuro, correndo giù per le scale e raggiungendo Bucky, sbattendo la porta di casa alle sue spalle.
«Un momento, dov'è la tua giacca?» chiese quasi come se volesse sgridarlo, notando che il biondo aveva solamente un maglione marrone che gli punzecchiava il collo e le clavicole scarnite, che apparivano arrossate sotto la lana.
«Oh, l'ho dimenticato, non preoccuparti, andiamo.» disse, usando quella giustificazione come scusa, abbastanza scontata e patetica; la verità era che la famiglia Rogers non era mai stata benestante, soprattutto in quel periodo invernale, quando il Natale era alle porte ed il freddo costringeva a conservare tutti i risparmi per cibo caldo, Steve non se la passava molto bene economicamente. Sua madre stava mettendo da parte un gruzzoletto per comperare al figlio una nuova giacca, con gli straordinari in ospedale, ma gli aveva raccomandato di non uscire con quel gelo.
Nemmeno Bucky era un riccone, ma lui usava i vecchi cappotti del padre, che pur essendo molto grandi, gli calzavano in qualche modo, cosa che con Steve non sarebbe mai successa, il piccoletto avrebbe fatto la figura della campana di Natale. Nonostante ciò, Steve provava vergogna ad ammetterlo, si sarebbe aspettato come risposta "perché non usi quelle di tuo padre?", sapeva che Bucky non avrebbe mai fatto una domanda del genere, ma provava comunque un'enorme imbarazzo.
«No biondino, rischi di prendere un febbrone da cavallo con questo freddo, tieni, ti presto la mia....» il moro fece segno di sbottonare la giacca, ma le mani di Steve lo fermarono immediatamente, mentre un rossore evidenziava le sue bianche guance.
«Non ne ho bisogno, grazie.» rispose a testa bassa, provando uno strano imbarazzo che gli mise lo stomaco sottosopra.
Buck si fermò, guardando con gli occhi verdi illuminati da una strana luce il capo calato di Steve, sentendo un improvviso calore alle mani, che finalmente gli riattivò la circolazione con quel freddo.
Rimasero in balìa del silenzio accompagnato soltanto dal fischio del vento di novembre, in un battito di ciglia, correndo a giocare in fondo alla strada.
Quando il sole accennò di tramontare, i due si separarono; Bucky corse a casa, alzando un braccio e salutando il compagno: «Ci vediamo domani a scuola!» Steve ricambiò alzando debolmente il braccio e tornando infreddolito a casa, camminando, con il naso rosso da cui usciva una nuvoletta di fumo gelido, che gli pizzicava le labbra.
Come tutte le mattine, Bucky si fiondò come una freccia in classe, sedendosi all'ultimo banco, quello accanto a Steve. Tutti i giorni si ripeteva sempre la stessa storia, il moro che correva in classe seguito dal più piccolo, che lo raggiungeva ridendo con il fiato corto, iniziando la giornata con un sorriso semplice.
Barnes aspettò alcuni minuti in più. Forse avrebbe dovuto aspettarlo? Uno strano senso di preoccupazione gli salì dalla bocca dello stomaco, sperando fino alla fine che il piccolo varcasse la soglia della porta di legno.
«Rogers Steven.» la voce dell'insegnante si fece pungente, deludendo Bucky quando nessuna risposta distratta dalle sue chiacchiere venne dal suo fianco.
Quelle cinque ore furono le più lunghe della sua vita, non era un amante dello studio, ma con Steve riusciva a sopportare quelle interminabili chiacchiere di matematica e geografia. Il suono della campanella lo fece scattare come un furetto; corse senza nemmeno passare da casa, senza nemmeno pensare al pranzo, correndo fino alla porta di legno su cui c'era scritto il cognome del biondo.
Suonò il capannello con un po' di insistenza, riprendendo fiato dopo quella urgente sgambettata.
Finalmente la madre di Steve lo fece entrare, si stava congelando lì fuori.
«Bucky, tesoro, mettiti davanti al fuoco, fa' così freddo oggi.» la mamma di Steve era una donna davvero dolce, la sua mano calda massaggiò la spalla gelata del ragazzino, che immediatamente trovò uno strano sollievo. Voltò la testa di scatto verso la donna dai capelli chiari, guardandola con occhi preoccupati: «Come mai oggi Steve non è venuto a scuola?»
La signora Rogers tramutò la sua espressione, aggrottando la fronte disse: «Steve ha la febbre alta, ieri ha preso un colpo d'aria... Non mi ha ascoltata, gli avevo detto di non uscire senza cappotto, ma evidentemente ho parlato con il muro.»
Bucky sgranò gli occhi, sentendo una stretta alla gola.
«Posso vederlo?» domandò con un filo di voce. La donna annuì con premura, accompagnando il ragazzino nella stanza del figlio, bussando alla porta e aprendola, mantenendo un dolce tono non troppo acuto: «Tesoro, Bucky è venuto a trovarti.»
Come sentì quel nome, il cumulo di coperte si mosse stranamente, ricordando al moro un vecchio orso in letargo. Sarah lasciò i due soli, chiudendo la porta dietro l'imbarazzato James. Era la prima volta dopo sette anni che si sentiva a disagio fra quelle quattro mura che erano diventate ormai anche casa sua.
Si avvicinò insicuro al letto, riuscendo ad inquadrare il viso di Steve circondato dai cuscini.
Il piccolo asmatico era così pallido che quasi si poteva vedere cosa c'era dietro di lui, gli occhi socchiusi e stanchi, il naso rosso e le labbra semichiuse, in un tentativo di respirare.
Quando Steve vide quello sguardo verde accanto a lui sorrise dolcemente, chiudendo gli occhi umidi e doloranti.
«S-Steve?» balbettò spaventato il moro, si sentiva in colpa. Era tutta colpa sua, lui lo aveva chiamato a giocare fuori con quel freddo, lo aveva fatto stancare come sempre. Perché non gli entrava in quella zucca calda? Perché non riusciva a capire che doveva prendersi cura di Steve invece di stremarlo? Bucky voleva far sentire il compagno come tutti gli altri, spesso dimenticando il suo stato fisico, forse per la determinazione del ragazzino che mascherava ogni diversità. Ma infondo, lo faceva per Steve, perché a lui piaceva così com'era, lo adorava per com'era, e forse era giunto il momento di farlo capire anche al biondo.
«È tutta colpa mia Steve, ti prometto che d'ora in avanti sarò più buono.» quel ragazzaccio stava per far uscire il suo lato da bambino, tirando su di naso quasi sul punto di piangere.
«Ti prego non morire, Stevie ti prego. Ti giuro che non ti farò più prendere in giro da nessuno, ma per favore non morie.» il labbro inferiore del moro aveva iniziato a tremolare, quando il capo di Steve si voltò piano sul cuscino. Con gli occhi ancora chiusi e quel sorriso sereno sul viso, mugugnò con la voce simile ad un lamento di morte: «Non muoio, cretino. Non ti lascio solo.»
Quelle deboli parole rianimarono Bucky, che stava diventando più speranzoso riguardo la salute del tappetto.
«Se tu mi lasci, io rimango da solo. Come faccio a trovare un altro come te a scuola? Con quelle teste di moccio che girano per il cortile...» disse Bucky. Il sorriso di Steve diventò più ampio a quelle innocenti parole.
«Vai a casa, tua mamma ti sgriderà se ritardi ancora.» fu il malato a sentirsi in colpa.
«Più tardi, quella strega di mia madre mi lancerebbe il giornale il testa in ogni caso.» fece spallucce e si sedette sul letto, notando il disagio di Steve: «Non preoccuparti, ti faccio compagnia un altro po', e poi torno a casa.» sorrise caldamente, massaggiando il braccio magro del minore coperto da strati di coperte.
Quel breve momento che aveva raccomandato Bucky si trasformò in due ore, seduto sul letto di Steve, raccontandogli della sua tremenda giornata a scuola senza di lui, senza i suoi disegni e le sue chiacchiere, correndo a casa quando l'orologio segnò le sei meno dieci.
«Spero che le urla di mia madre non si sentano da qui! Ci vediamo domani Stevie!» la voce acuta del ragazzino sparì nelle scale. Fu proprio così, il povero James si sorbì una bella strigliata da parte della madre, ma quel pomeriggio di chiacchiere raccontate dalla voce di Bucky erano state la medicina migliore di tutte per Steve.
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