Primo
Era una giornata uggiosa, il vocio di Brooklyn era solito arieggiare fra l'umidità del centro urbano, lì, dove all'ora di punta uno sciame di operai e lavoratori di ogni genere ed età invadevano le strade asfaltate.
Un piccolo biondo di circa sei anni si aggrappava forte alla gonna sgualcita della madre. Un piccolo scricciolo magro come uno stecchino, quasi pareva moribondo con la sua pelle bianca e delicata; tenere stretta la mamma in quella confusione era una priorità, perdersi sarebbe stato un bel guaio. Uno spintone da parte di un grosso uomo vestito con un cappotto nero e una ventiquattr'ore in pelle, ed il bambino si fermò un istante per coprire il viso ed evitare che quella valigetta lo colpisse in pieno volto. Il tempo di riaprire gli occhi, e la gonna color nocciola a cui si reggeva era sparita nella confusione, quasi dissolta nel nulla come una nuvola di fumo.
Immediatamente il basso biondo inizió ad agitarsi fra la folla, facendosi largo fra la gente di cui riusciva soltanto a vedere le gambe, per via della sua minuta statura.
Il panico; quell'indifeso bambino aveva perso la mamma, in un'enorme città. Adesso era solo, fermatosi di colpo, irrigidito e singhiozzante. Le lacrime bagnavano in fretta il viso morbido, ed il polsino della camicia che gli stava larga era zuppa di muco. La manica destra era ormai diventata lunga il doppio dell'altra, a furia di usarla come fazzoletto, ormai rosso per colpa del pianto, i suoi inutili singhiozzi erano stati inghiottiti dal vocio.
Davanti a lui, una piccola sagoma comparve improvvisamente; dovette strofinare per bene gli occhi prima di cancellare la vista annebbiata dal pianto. Per un attimo smise di singhiozzare, rimanendo con la bocca semichiusa e gli occhi rossi.
Difronte a lui si era fermato un bambino, probabilmente suo coetaneo, ma spesso il biondo sembrava molto più piccolo dei suoi compagni, e fare paragoni con lui era davvero inutile.
Il secondo aveva un ciuffo color cioccolato che scappava da un berretto da sergente, vecchio e spiegazzato, probabilmente trovato in soffitta o chissà in quale cassonetto.
«Perché stai piangendo?» gli domandò spavaldamente, con un tono preoccupato allo stesso tempo.
«Mi sono perso.» mugugnò debolmente il più piccolo, asciugandosi gli occhi con l'altra manica asciutta, smettendo improvvisamente di piangere, attirato dagli occhi luccicanti e furbi del piccoletto difronte a se.
«Oh, non è un problema! Vieni con me, ti aiuto a trovare la tua mamma!» la sua voce era gioiosa e quasi un po' prepotente. Afferrò di colpo la mano bagnata dalle lacrime del più piccolo, e lo trascinò a corsa via dalla confusione.
Per il biondo era una gran fatica correre, le sue gracili gambette non erano molto veloci e resistenti, ed il suo asma lo lasciava sempre senza fiato, anche solamente salire una rampa di scalini lo affaticava.
Quel saputello sapeva dove andare, difatti in pochi minuti e qualche spinta agli adulti, si trovarono via dalla marea di persone, in una piccola stradina, davanti una panetteria.
Il piccolo si poggiò sulle ginocchia ansimando, prendendo fiato dopo la breve corsa.
Alzò a fatica la testa, voltandosi verso il piccoletto che lo stava aspettando con le mani sul bacino e un sorrisetto malandrino, che mostrava il canino da latte mancante.
Si avvicinò al piccolo bambino, mettendolo dritto con una mano che lo spingeva dal petto; una volta rimesso in piedi, con l'altra mano il sergente dai capelli castani gli massaggiò la schiena.
Era strano, nessuno si era mai interessato a quel bambino, oltre che sua madre naturalmente; spesso aveva cercato di fare amicizia con i suoi coetanei che giocavano nel vicolo sotto casa sua, ricevendo solamente pallonate e prese in giro per il suo fisico buffamente scheletrico.
«Così va meglio?» domandò il moro. Il più piccolo annuì confuso, cercando di regolare il respiro senza darlo troppo a vedere.
«Come si chiama la tua mamma?» continuò.
«Sarah.» rispose con voce roca, tirando su di naso.
«Troveremo mamma Sarah!» esultò come fosse un gioco, allungando la mano verso il piccoletto,morse standoci con voce allegra: «Bucky!»
L'altro guardò dall'alto in basso il moccioso, ricambiando la stretta con un sorriso meravigliato:
«Steve» rispose.
«Che ne dici di mangiare qualche caramella prima di metterci a cercare la mamma, Steve?» propose disinvolto Bucky, voltandosi verso la bottega a cui davano le spalle.
Steve era restio, credeva che la priorità fosse trovate sua madre: «Non posso, non ho soldi.» rispose imbarazzato.
Bucky lo spintonò spiritosamente, afferrandogli ancora la mano, senza dargli il tempo di coordinare i piedi per non cadere.
«Non è un problema! Ho 3£, facciamo metà ciascuno!» e lo trascinò dentro il negozio.
Pochi minuti dopo, e i due uscirono dalla panetteria con due caramelle ciascuno, facendo suonare una campanella attaccata alla porta dal locale.
Bucky propose di sedersi a gustare con calma quei piccoli dolcetti pieni di zucchero, facendosi seguire da Steve senza esitare.
«Non c'è bisogno che mi obbedisci come un cane randagio, se qualcosa non ti va, non farla.» disse Bucky, con la bocca piena dal primo dolciume.
Steve chinò la testa, imbarazzato, mordendo la sua razione di zucchero; «Scusa, è che nessuno vuole fare amicizia con me...» sussurrò ad occhi bassi.
«E perché mai?!» sbottò sorpreso Bucky.
«Beh, dicono che sono un tappeto dal fiato corto...» rispose sorpreso quasi quanto il moro per l'esuberante reazione.
«Cosa?! Chi è quella testa di sputo che ti dice queste cose?!» continuò sconvolto, mandando giù anche l'ultima caramella.
«Tutti gli altri bambini del mio quartiere...» concluse a testa bassa, mordendo l'altra metà del dolce.
«Tu dove abiti?» stavolta Bucky aveva cambiato domanda, più curioso e preoccupato.
«Alla 5th Avenue.»
«Davvero?!» il piccoletto si voltò di colpo, come se avesse scoperto un tesoro nascosto; Steve annuì in modo confuso, ancora.
«Anch'io abito in quella via! Beh, mamma dice che siamo fra fine della 5th e l'inizio della 6th, in quella casa a due piani colore moccio!» spiegò.
Steve restò sorpreso e immensamente felice allo stesso tempo: «Come mai non ti ho mai visto giocare con gli altri?» chiese, stavolta trovando il coraggio di fare lui una domanda.
«Preferisco uscire a giocare dopo le cinque, quando tutti quei rompi degli altri rientrano a casa, ed io ho tutta la strada libera per lanciare pallonate senza aspettare il mio turno.» Bucky sembrò accennare un ché di modesto e imbarazzato in quelle parole, giocherellando con il berretto che aveva tolto dal capo, lasciando un groviglio di nodi marroni sulla sua testa.
Steve restò sorpreso da quella risposta, non avendo il tempo di pensare, che il moro gli afferrò per l'ennesima volta la mano, iniziando a camminare a passo veloce verso casa, evitando di correre per non affaticare il biondino.
«Dove stiamo andando?» domandò infastidito restando indietro, trascinato per il braccio.
«Alla 5th Avenue!» gridò Bucky, svoltando l'angolo e trovandosi magicamente difronte la casa di Steve; per quel bambino di sei anni era davvero una magia, un perfetto sconosciuto che lo aveva riportato a casa, che conosceva la strada. Lo faceva sentire sicuro.
Davanti la porta in legno una donna stava fra le braccia del marito, disperata.
«Mamma!» Steve la chiamò quasi urlando, lasciando Bucky, che guardò soddisfatto l'incontro della famiglia felice, sentendosi un super eroe, come quello dei fumetti che vedeva nelle vetrine dei negozi.
Un po' deluso adesso, il moro abbassò lo sguardo, rimettendosi il berretto e camminando verso casa.
Una piccola vocina lo fece votare di scatto: «Bucky, aspetta!» era Steve.
Con quella che sembrava una corsa, il biondo lo raggiunse, con il respiro irregolare, porgendogli la caramella che non aveva mangiato: «Nascondila sotto il letto, la mia mamma dice che la notte un folletto viene a mangiarla e in cambio ti porta un giocattolo nuovo.»
Bucky sgranò gli occhi emozionato da quel racconto, custodendo il dolciume nella tasca del pantaloncino color nocciola e per la prima volta, non avendo l'impeto di mandarlo giù.
Steve si voltò, quasi stava per tornare a casa, quando Bucky lo chiamò: «Steve?»
Il piccoletto voltò il capo, ascoltando le parole del moro, che continuarono dicendo: «Domani alle cinque verresti a giocare a pallone con me?»
Steve sorrise dolcemente, annuendo sicuro: «Si! Certamente!»
Apasso veloce il piccoletto ritornò a casa, lasciandosi guardare da Bucky, che provava una felicità ed un entusiasmo incontenibili, aveva trovato in Steve un compagno di giochi, qualcuno di speciale
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