Pov. Bucky Trentaduesimo
«BUCKY!» il sergente Barnes conosceva perfettamente quella voce, Steve chiamava sempre il suo nome, lo ricordava perfettamente; quando lo sussurrava nella notte, quando lo cercava lungo la collina, quando sorrideva alle sue solite battute sconce, quando lo ansimava carico di passione, ma quella volta era diverso. Il gelido vento invernale trasportava fiocchi di neve, che con la velocità del treno in corsa, trafiggevano la pelle del soldato come lame affilate. Era terrorizzato. Sotto di lui il vuoto. Cercò di allungare la mano, per afferrare quella di Steve, del capitano che aveva in viso un'espressione talmente disperata, che terrorizzava il soldato più della situazione stessa.
Un rumore metallico.
L'appiglio a cui era disperatamente aggrappato si staccò.
Il vento gelido gli tranciò il respiro, gli pizzicò la faccia. La sensazione di vuoto sotto di lui quasi gli fece perdere i sensi.
Urtò qualcosa con il lato sinistro del corpo. Una sensazione atroce lo avvolse, come un abbraccio malefico. La caduta si fermò pochi metri più in giù, facendolo atterrare sulla neve spessa, che in qualche modo aveva reso meno doloroso l'arrivo. Chiuse d'istinto gli occhi. Respirò e sentì l'aria fredda solleticargli la gola. Riaprì gli occhi, avrebbe voluto muoversi, ma era come se ogni muscolo del suo corpo fosse paralizzato.
Scostò leggere la nuca, che creò un piccolo solco nella neve candida. Sdraiato, alzò gli occhi, mettendo a fuoco la presunta parete che aveva urtato durante la caduta: da un grosso albero colavano delle copiose linee di sangue scuro.
Poteva essere il suo?
Strizzò nuovamente gli occhi, emettendo un impercettibile gemito di dolore, puntando lo sguardo sulla spalla sinistra.
Sangue. Osso. Nulla.
Aveva perso il braccio. Urlò d'istinto, un po' per il dolore che stava iniziando a divorarlo, un po' per il terrore. La neve sotto di lui aveva preso un colorito cremisi, caldo, che purtroppo non riuscì ad attenuare il freddo estremo.
I fiocchi di neve continuarono a posarsi sul suo corpo, la sua giacca blu scuro era ormai un tappeto di neve. Le labbra di un viola moribondo tremavano senza controllo, gli occhi verdi del soldato erano sgranati e rossi, ed ogni muscolo, oltre che ad essere immobile, era contratto, procurandogli dei dolorosi stiramenti.
Voleva gridare, voleva cercare disperatamente di muoversi, ma non aveva la forza.
Che senso aveva vivere ormai?
Non aveva più nulla, i suoi genitori erano morti quando era solo un bambino, i signori Rogers non c'erano più, la guerra gli aveva portato via ogni cosa, eccetto Steve.
Oh, Steve.
Il suo pensiero lo fece immediatamente calmare, estasiato dall'immagine del biondo dagli occhi azzurri che sorrideva dolcemente difronte a lui. Il dolore però era troppo, se solo il Rogers davanti ai suoi occhi avrebbe potuto realmente aiutarlo, invece di essere solamente una ridicola allucinazione. Eppure sembrava così reale, e questo dava a Bucky un ingenuo sorriso nonostante la sofferenza.
«Uccidimi.» sussurrò con un sibilo, che venne trasportato via dal vento, senza che nessuno potesse sentirlo.
«Ti prego Stevie. Uccidimi.» continuava a sorridere, gli occhi socchiusi, le dita della mano violacee, e poi la sagoma difronte a lui diventò reale. Riuscì a capirlo quando due mani afferrarono il suo corpo. Ed in un momento, quello non era più Steve.
Grazie a Dio qualcuno che lo aveva salvato, grazie a Dio aveva una speranza, ma quella fascia rossa sul braccio sinistro uccise tutte le credenze vane di Bucky; quello era un nazista. La sua pelle pallida, il suo cappotto scuro che lo riparava dal freddo, e le sue mani che trascinavano Barnes verso un mezzo di trasporto molto imponente. Ogni movimento provocava in lui un terribile dolore che mandava una scarica elettrica lungo tutta la spina dorsale, quello che restava del suo braccio sgorgava di sangue, pulsava, impedendogli persino di lamentarsi.
Altri uomini lo caricarono sull'auto, il tepore della scatola con le ruote gli dava un lieve sollievo, la schiena era poggiata su una branda sottile. Un altro uomo con i baffi legò l'estremità del suo braccio amputato, stringendo fino al massimo. In quel momento un urlo strozzato esaurì gli ultimi respiri di Bucky.
Il sangue smise di sgorgare copiosamente, facendo però perdere i sensi al soldato.
Chiuse gli occhi, sentendo la dolce voce di Steve, come fosse un eco: «Bucky.»
Aprì nuovamente gli occhi. Aveva freddo anche dentro quella stanza, la temperatura era pur sempre bassa. Cercò di muoversi, e a gran sorpresa ci riuscì, ma tutti gli arti erano bloccati su quello che sembrò un letto, un gelido tavolo operatorio.
Cercò di parlare, ma si rese conto di avere una maschera trasparente sul viso, che gli dava ossigeno, in qualche modo.
Gli occhi gonfi, terrorizzati, cercavano di fuggire dalla fastidiosa luce delle macchine operatorie sopra di lui.
Era a petto nudo, un rumore, che al soldato ricordava un sibilo, portò la sua attenzione al braccio mancante, a cui si stava avvicinando pericolosamente un macchinario operatorio simile a una motosega dalla lama tonda.
Dimenò la testa, mosse dolorosamente le gambe, forzò il braccio destro carico di aghi contro il cuoio che arrossò il polso.
La lama seghettò una parte concentrica del suo osso; il dolore era meno insistente, ma pur sempre insopportabile; possibile che lo avessero anestetizzato?
Un uomo con in camice si mise nella sua visuale, sorrideva soddisfatto con le mani sporche del suo sangue. Parlò, disse qualcosa, poi lo chiamò per nome.
James chiuse gli occhi, mosse in modo lamentoso il collo, scrollando la testa, riaprendo gli stanchi occhi rossi, vedendo che il grasso uomo dall'accento russo si era trasformato in Steve, lo stesso ragazzino gracile di cui si era innamorato prima del siero, prima che il minore si trasformasse in Captain America.
Il ragazzo sorrise, la sua pelle bianca emanava calore, ed i suoi occhi azzurri evidenziavano il ciuffo biondo che armeggiava gelosamente. Dio solo sapeva quanto Bucky amasse quella ciocca che, chiara, gli solleticava la fronte.
Sotto la maschera dell'ossigeno un sorriso strappò le labbra secche e violacee di James.
«Bucky?» era una domanda proveniente da Steve, la voce era sempre la stessa, l'unica cosa che non era cambiata dopo la trasformazione.
Un ronzio alle orecchie lo tramortì, e poi il buio.
Riprese ancora i sensi, ancora una volta su quello scomodo tavolo operatorio, stavolta slegato.
Alzò le mani sulla sua traiettoria, con shock, sentendo uno stimolo proveniente anche dal braccio sinistro.
Come poteva essere possibile?
Uno scintillio gli fece rendere conto di quello che aveva davanti, forse era ancora sotto l'effetto di qualche anestetico pesante, forse era morto, o semplicemente uscito di testa, ma un arto di metallo aveva preso il posto di quello mancante.
Con cinque dita delle mani, un palmo perfetto, un avambraccio identico al precedente, ed ogni caratteristica e funzionalità del braccio di carne.
Degli uomini in camice bianco si avvicinarono a lui con cartelle fra le mani, lo studiavano.
Prese per la gola uno di loro con la nuova protesi, lui annaspò, soffocava lentamente. Un colpo alla testa, ed il buio, ancora, come se ormai fosse parte di se.
Adesso era in piedi, dentro una specie di bara. Faceva freddo, perché? Non sopportava più le basse temperature.
Era chiuso dentro quella teca, però poteva muovere le braccia. Nel vetro difronte a lui, il riflesso del suo viso gli riempì gli occhi. Si vedeva. Il viso scarnito e cupo, due profonde occhiaie mascheravano i suoi occhi cristallini, le labbra carnose screpolate, il viso ruvido da una barba incolta, e i capelli castani lunghi sul viso, forse fino alle spalle.
Dei cristalli di ghiaccio si formarono intorno al suo riflesso, il freddo era tornato a colpirlo, allungò la mano metallica come per sfiorarsi il viso; in quel momento era come se nei suoi occhi spenti e stanchi, ci fosse la luce raggiante di quelli di Steve.
Steve.
Non riusciva a smettere di pensarlo. Come si sentiva adesso? Riusciva a pensare che ci potesse essere una speranza? Stava piangendo?
Beh, Bucky lo conosceva bene, il capitano non piangeva per nulla; nemmeno quando erano morti i suoi genitori, nemmeno quando i bulli a scuola lo picchiavano senza pietà, mai. Nemmeno una lacrima.
Ma per la situazione che correva, James non aveva dubbi che il suo Steve stesse piangendo, se ci pensava con più calma, vedeva la punta del naso del ragazzo farsi rossa, e con essa anche le orecchie. Un particolare così dolce che Buck adorava consolare.
Eppure ormai lo aveva perso. Lui era praticamente morto, senza speranza, forse un bene, pensò mentre il ghiaccio saliva lungo le sue gambe; forse, adesso poteva vivere con l'agente Carter, senza timore, felice, con una donna. Ma pensare anche a quella alternativa scatenava nel soldato una gelosia che riusciva a scavalcare anche il dolore fisico.
Troppi pensieri in così poco tempo, davvero troppi.
Riuscì a respirare un'ultima volta, il riflesso di Steve sembrava ancora più vivo davanti ai suoi occhi, allucinazioni che in qualche modo stavano alleviando il suo lento oblio.
Il gelo era arrivato in fretta alle spalle, ormai lo sentiva anche in viso. Tenne gli occhi aperti, non voleva perdere l'occasione di vedere Steve un'ultima volta. La vista si fece appannata, Rogers scomparve, ed il sergente poté vedere ancora il suo volto stanco.
La mano robotica era immobilizzata dal ghiaccio, come tutto il suo corpo.
Finalmente chiuse gli occhi, doveva, il freddo lo costringeva. E quello fu un buio perenne.
James Barnes era ormai un vecchio ricordo.
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