Attesa (Pov Bella)

Diciassette mesi dopo

Bella

Aria. Quel vento che mi scompigliava i capelli e che muoveva il vestito che indossavo. Sole. Quel sole che a Forks non avevo visto per un lunghissimo periodo. Prati verdi pieni di ragazzi della mia età impegnati a leggere un libro all'ombra di una quercia o a sfogliare il libro nella speranza di ricordare qualcosa.
Dartmouth.
Ero iscritta al corso di letteratura inglese e americana. Quando avevo ricevuto la lettera di ammissione qualche mese prima non ero riuscita a capire come fosse possibile essere ammessi in ununiversità per la quale non avevo neanche fatto domanda. Tutto mi si era chiarito nel momento in cui avevo acceso il computer.
"Sei indietro di un semestre, ma recupererai in fretta. Ti troverai benissimo. A."
Una pazzia del genere potevo aspettarmela solo dai Cullen. Anzi, solo da una Cullen. Alice. Che in quel momento mi aspettava nel mio appartamento - mio per modo di dire, visto che pagava lei l'affitto - dove si stava prendendo cura dei miei bambini. Era una zia fantastica, non fosse stato altro per la sua tendenza a viziare i gemelli dando loro tutto ciò che chiedevano, o che sembravano chiedere, visto che parlavano a malapena.
I gemelli. Sarah ed Ethan. I miei figli. I figli di Jacob.
Quando ci eravamo trasferiti a Dartmouth aveva provato a venire con noi, ma si era reso conto che i boschi di Forks e la spiaggia di La Push gli mancavano troppo, così come le corse in libertà a caccia di vampiri. E così era tornato a casa. Ci veniva a trovare spesso. Adorava i suoi figli, e, nonostante i suoi soli diciotto anni appena compiuti, era un ottimo padre.
Ero arrivata a casa. Infilai la chiave nella toppa, ma non feci in tempo a girarla che già Alice aveva aperto la porta.
«Bella, finalmente! - disse in un sospiro - Non vedevo l'ora di dirti che con l'esame di oggi ti sei guadagnata una bella A+!»
La mia cara, quasi onnisciente, amica Alice.
Abitare con lei mi aveva fatto perdere quasi del tutto l'ansia per gli esami.
Sapere prima che si tenesse quale sarebbe stata la mia prestazione era un ottimo modo per andare a fare un esame in perfetta tranquillità. Inutile dire che Alice scalpitava per darmi anche le domande prima che l'esame si tenesse. Mi ero sempre rifiutata di ascoltarla.
«Sarebbe un imbroglio» le dicevo sempre.
«Ma non lo saprebbe nessuno!» rispondeva lei.
«Lo saprei io» ribattevo. E con quella risposta chiudevo il discorso.
«Alice, ma Jasper non si è stufato di aspettarti a casa?» le chiesi.
«Sai perfettamente che viene quando vuole, e che adora le tue due piccole pesti quasi quanto me! E sa anche che non può impedirmi di darti una mano, se è questo quello che voglio»
«Già... ma mi chiedevo se non ti andasse di fargli una visita... domani»
«Domani? Intendi dire che...» mi guardava con gli occhi che le brillavano di gioia, aveva appena visto quale decisione avevo preso in quel momento e ne era entusiasta. Mi ero sforzata di non pensarci, di non rendere definitiva nessuna decisione a riguardo, nel tentativo di farle una sorpresa... e a quanto pareva c'ero riuscita.
«Sì, Alice. Torniamo a casa!» solo per una settimana e solo per portare i miei bimbi dai nonni - e dal papà - o almeno così mi giustificavo. Passare quel giorno lontano da Hanover significava trascorrere il mio compleanno senza che Alice tentasse di festeggiarlo in grande stile. In questo modo saremmo stati solamente io e le mie famiglie.
Papà. I Cullen. Il Branco.
Sebbene mettere tutti sotto lo stesso tetto all'inizio non mi fosse sembrata una grande idea, dall'arrivo dei gemelli dovevo ammettere che le cose erano senz'altro migliorate. Soprattutto dopo che ad Edward era venuto quel lampo di genio... Non ci dovevo pensare, non volevo arrabbiarmi e non volevo rovinarmi l'ennesimo compleanno. Vent'anni. Un tempo avevo giurato a me stessa che non ci sarei mai arrivata. Un tempo me l'aveva giurato. Ma poi...
«Bella basta incupirsi con questi pensieri! - mi disse Alice, che poteva solo immaginare a cosa stessi pensando, non era suo fratello, e d'altra parte neanche lui era mai riuscito a leggermi - Domani saremo a casa... devo iniziare a pensare a cosa indossare... a cosa farti indossare... a cosa far indossare ai gemelli!»
«Alice, calmati! Per me andranno bene un paio di jeans, una maglietta a maniche lunghe e una felpa con la zip, per i gemelli qualcosa di comodo, visto che Jacob li requisirà appena saremo nei pressi di Forks... e per te qualsiasi cosa sceglierai andrà bene!»
«Bella io non intendevo per il viaggio! Pensavo alla FESTA!!!»
«FESTA? Alice mi sembrava di essere stata chiara, non voglio festeggiare il mio compleanno in grande stile. Non puoi farmi questo!»
«Ma Bella! Vent'anni si compiono una volta sola nella vita - disse, usando la stessa scusa che aveva accampato per i miei diciotto anni - non li vorrai far passare così, in sordina!»
«Alice... visto che ormai so che non mi lascerai in pace fino a quando non ti dirò di sì, va bene, ma niente di troppo pomposo»
«No... no di certo» rispose, con una certa titubanza e tenendo le braccia dietro la schiena.
In quel momento capii che si era tenuta pronta ad ogni evenienza, non conoscendo le mie volontà con precisione, per evitare di trovarsi ad organizzare una festa in mezza giornata.
«Alice, ti odio» dissi.
«Mhhh, fammi vedere... No, non mi odi. E domani mi vorrai ancora più bene!» mi rispose, facendomi una boccaccia.
«Almeno per il vestito, Al, qualcosa di semplice. Ti prego»
«Va bene» mi rispose, scattando sull'attenti.
Iniziammo a ridere contemporaneamente.
«Alice, i bambini dormono?»
«Sì - rispose - sono alle prese con il sonnellino pomeridiano!»
«Vado a vederli»
«Ok, mammina! - mi rispose, dirigendosi verso la sua stanza, per tornare indietro quasi immediatamente - Bella, forse è il caso che quello domani tu lo tolga» disse, indicando l'anello che portavo all'anulare sinistro. Un solitario d'oro bianco, con incastonato un diamante di due carati e mezzo a forma di cuore.
«Per quale motivo? In fondo tutti sanno...»
«Bella, fidati. Dovrai toglierlo. Non tutti sanno, e domani non sarà il momento migliore per farlo sapere»
«Mi fiderò. Come al solito. E come al solito senza avere chiaro il motivo per cui lo farò - risposi - Ora vado dai miei piccoli»
«Ci vediamo dopo!»
Salii le scale interne dell'appartamento che mi portavano alle stanze dei bambini. Due stanze. Anche se erano così piccoli, Alice non aveva voluto sentire ragioni. Dovevano avere una stanza ciascuno. Quella di Sarah era nelle tonalità del panna e dell'arancio. Il lettino , così come l'armadio e il fasciatoio, era decorato con orsacchiotti che si abbracciavano e alberi carichi di albicocche. C'erano anche un baule nel quale riporre i giochi della bimba e un settimino. A terra, un morbido tappeto color panna, sul quale la bimba passava ore in compagnia dei suoi giochi e del fratellino. Sopra il lettino, un punto luce diffondeva una tenue luminosità arancione. La stanza di Ethan era tinteggiata con tonalità pastello del giallo e dell'arancione. I suoi mobili erano però quelli di un vero ometto, in noce anticato. Il lettino, coperto da una sorta di baldacchino color panna, aveva sulla testata e sul fondo degli orsacchiotti. Lo stesso motivo era rappresentato sulle ante dell'armadio e sui cassetti del fasciatoio. Tutte le rifiniture erano in color panna.

Quando avevo visto per la prima volta quelle stanze avevo dato il meglio di me.
«Alice, ma sono solo bambini! Tra qualche mese dovremo sostituire tutto il mobilio!»
«Bella, non preoccuparti... i soldi non sono un problema per noi, ricordi?»
«Per voi forse, ma vorrei che i miei figli crescessero conoscendone il valore. Sono dei Black. Non dei Cullen. Già pagate la mia retta dell'università e l'affitto di questa casa immensa. Non fatemi sentire più in imbarazzo di quanto non sia»
Alice si era sentita profondamente offesa per quell'affermazione.
«Ma tu sei quasi una sorella per me - esclamò - il che implica che i tuoi figli sono quasi i miei nipoti!»
«Allora, zia Alice, cerca di non viziarli troppo»

La discussione era caduta in quel modo.
Ma da allora Alice chiedeva sempre il mio parere prima di acquistare qualcosa per i bambini. Il che non implicava necessariamente che si fermasse di fronte ad un mio "no". Finiva sempre per comprarlo, mostrandomi quanto era necessario per i miei figli un giocattolo piuttosto che un vestito, piuttosto che un paio di scarpe.
Entrai nella stanza di Sarah. Dormiva profondamente e beatamente. Composta. A pancia in giù. Con i capelli neri che le scendevano in lunghi boccoli lungo le guance. La sua carnagione color panna, ereditata da me, contrastava con i suoi caratteri da nativa americana, ereditati da Jacob. Era una bambina magnifica. Intelligente per la sua età. Forte e coraggiosa. Non l'avevo mai sentita piangere. Salvo qualche volta al termine di una delle visite di suo padre. Gli era molto affezionata. Le spostai i capelli dal viso e le feci una carezza. Mi sporsi nel lettino per darle un bacio sulla testolina ed uscii dalla sua stanza.
Andai da Ethan. Che era tutto il contrario della sorella. Carnagione scura, capelli lisci e castani, che Alice continuava ad acconciare secondo la moda maschile del momento, tratti somatici tipici degli Swan. Dormiva a pancia in su, in posizioni che trovavo ogni volta più assurde. Esattamente come Jake. Piagnucolone, testardo e dolcissimo. Posai un bacio sulla sua fronte ed uscii.
Mi appoggiai sullo stipite della porta. L'indomani la tribù avrebbe conosciuto i suoi nuovi membri. Avevano scelto i loro nomi, secondo un rituale che Jacob mi aveva chiesto di poter svolgere e al quale io avevo acconsentito senza remore - in fondo chi ero per negare ai miei figli la loro identità - ma non li avevano mai visti. Entrambi i nomi dei miei figli derivavano dall'ebraico. Sarah significava "Principessa", ed essendo Jacob il diretto discendente di Ephraim Black, ultimo capotribù dei Quileute, non poteva andare diversamente. Ethan significava "Solidità", "Fermezza". Ed era di buon augurio per il mio piccolo.
Speravo solo che quando... Non era il caso di pensarci in quel momento. Mi allontanai dallo stipite e scesi le scale. Mi sedetti sul divano con un libro e la coperta poggiata sulle gambe.
Ragione e sentimento. Quando Jacob me l'aveva restituito non riuscii a credere che l'avesse letto.
"Era l'unica cosa che mi rimaneva di te, Bells" mi aveva detto.
L'indomani l'avrei rivisto. Chissà come avrebbe presentato i bambini, ora che finalmente aveva preso il suo posto nella tribù. Sam aveva deciso di lasciare il posto di Alfa a lui, dicendo che era suo di diritto, e Jake si era preso quella responsabilità a testa alta. Ero al telefono con Billy - da quando erano nati i bambini anche i nostri rapporti erano notevolmente migliorati - quando Jake era rientrato in casa con la notizia.

«Papà sono il nuovo Alfa» aveva detto con una voce funerea.
«Billy, puoi passarmi Jake? Voglio provare a tirargli su il morale... non mi sembra molto contento delle nuove dinamiche del branco!»
«Te lo passo subito... se potessi vedere la sua faccia vedresti quanto hai ragione, Bella!»
«Bella, sei tu? Hai sentito tutto vero?» aveva detto come prima cosa afferrando la cornetta del telefono.
«Paaa-paaa» aveva risposto la mia piccola, riconoscendo la sua voce.
Come sempre, eravamo al vivavoce. Volevo che i nostri bambini non scordassero la voce del padre. Solo quando le discussioni si facevano serie o quando Jake tornava a casa innervosito dagli avvenimenti di Forks e diceva troppe parolacce evitavo di lasciare la comunicazione aperta.
«Bella era...» disse commosso.
«Si, Jake, era la prima parola di Sarah... sono tre ore che continua a ripetere "papà". Non ti va di venirla a trovare?»
«Bella... ora non mi è possibile... non posso spiegarti perché... ma non posso proprio»
«Sembrerebbe che qualcuno ti abbia detto di non parlarne, ma... non sei tu l'Alfa? - risposi ridendo - tranquillo. Se non puoi, non fa niente. Sappi solo che la tua bimba ti aspetta a braccia aperte!»

«Bella?» una mano gelida mi riscosse dal sonno in cui sembravo caduta.
«Dimmi, Alice»
«Ti andrebbe di anticipare il ritorno a stasera?» mi disse.
«Perché?» risposi.
«E' tornato»
Non aggiunse altro. Mi vestii di corsa, mentre Alice preparava le valigie per me e per i bambini, e insieme ci precipitammo verso l'auto. Una Aston Martin Rapide. Una delle poche auto sportive a quattro posti. Non che ne sapessi molto di auto, ma quando Carlisle si era presentato a casa mia con quell'auto e un fiocco sopra avevo pensato che fosse completamente impazzito. La linea impeccabile di quell'auto era chiara anche a me che ero una completa ignorante in materia. Era nera ed aveva i finestrini oscurati. E l'avrebbe guidata Alice, perché la distanza di nove stati in sei ore poteva riuscire a coprirla solo lei. Saremmo state a casa per le nove di sera.

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