CAPITOLO 4
«Non credo che verrà.»
Pronuncio la frase senza guardare il coach, ma centrando con un tiro da tre punti il canestro. Erano la mia specialità, i tiri da tre; sono anche una delle poche cose che ancora mi riescono bene sul campo da basket e che non richiedono uno sforzo eccessivo al mio ginocchio.
«Mancano ancora dieci minuti, Bridgestoke. Continua a palleggiare.»
Anche se non lo dà a vedere, so che è nervoso tanto quanto lo sono io, lo percepisco dal modo in cui sta massacrando tra i denti il sigaro spento. Non è permesso fumare all'interno del Levien Gymnasium e neanche lui, dall'alto della sua carica, osa contravvenire a questo divieto, anche se lo stadio è vuoto.
Seguo il suo consiglio e inizio a palleggiare sul posto, alternando qualche tiro nel cesto senza troppa convinzione. Il Levien è una bella struttura, non paragonabile agli stadi giganti dell'NBA, come il Madison Square Garden, ma ha comunque il suo perché.
Guardo l'orologio e vedo che manca un solo minuto alle 16. Non so se sperare che Anderson arrivi e accetti di tornare in squadra, oppure se augurarmi che rifiuti l'offerta. In qualsiasi caso sarà un casino: devo capire se solo per me o per l'intera squadra.
Le 16 sono passate da un minuto quando guardo di nuovo il quadrante e nello stadio continuiamo ad essere solo io e il coach: quanto tempo dobbiamo concedergli prima di andarcene? Il solito quarto d'ora accademico? Oppure, trattandosi di Anderson Black e della sua nota indole ritardataria, dobbiamo essere di più larghe vedute?
Non ho tempo di soffermarmi troppo sui miei dubbi, perché un rumore di passi proveniente da uno dei corridoi laterali mi fa voltare verso sinistra. Dalla penombra emergono prima le gambe e poi il resto della imponente figura di Anderson, il viso indecifrabile e i capelli scuri più spettinati del solito.
«Benvenuto Black, grazie per essere venuto.»
Guardo con un certo stupore il coach, cercando di dissimulare la mia sorpresa, non sono abituata a tutta questa gentilezza; deve essere più disperato di quello che credevo. Anche il nuovo arrivato lo guarda con sospetto, sa che non è da Fulham mostrare spiragli di debolezza, eppure lo ha appena fatto. Cosa sta facendo?
«Buonasera coach. Lucy.»
Si rivolge a me con un cenno del capo, una formalità che è estranea a quello che ricordo, ma che probabilmente è più consona a quello che siamo ora. O meglio, quello che non siamo.
«Anderson» lo imito nella risposta.
«Bando ai convenevoli, non ho voglia di girarci attorno. Se sei qua è perché hai deciso di accettare?»
Ora riconosco il modo di fare del coach e non riesco a trattenere un sorriso vedendo il suo fremere sul posto, impaziente di ricevere una risposta e decidere di conseguenza il piano d'azione.
«Pensa veramente che io sia la scelta giusta?»
La domanda è rivolta a Fulham, infatti è lui che sta guardando, ma ho come l'impressione che abbia bisogno anche di una mia conferma. Il tono sicuro del ragazzo è velato dal dubbio.
«Se non lo fossi non avrei sprecato il mio tempo a cercarti, Black.»
Anderson sembra rilassarsi, le spalle si abbassano e sul suo viso compare l'ombra di un sorriso, troppo fugace per essere certa di averlo visto veramente.
«Non mi alleno da più di un anno.»
«E si vede, Black. Quella pancetta che ti ritrovi sono almeno due chili di grasso che rallentano i tuoi movimenti e con tutto quello che fumi sono sicuro che il tuo fiato è quello di un moribondo.»
Lo vedo sgranare gli occhi alla parole del coach, mentre io non riesco a trattenere un sorrisetto: sa essere brutale, Fulham, ma non si può negare che sia sincero.
Le mie labbra tornano a farsi serie un secondo dopo, quando sento il resto della frase dell'uomo.
«Per questo Lucy ti aiuterà a rimetterti in forma. Oltre ai tre allenamenti settimanali con la squadra, si occuperà di preparare un programma di attività che ti faranno tornare la massa muscolare di cui hai bisogno. E spero un po' di agilità.»
Lo sguardo Ander si sposta su di me, percepisco sempre quando mi sta guardando, ma io resto concentrata su Fulham.
«Come, scusi?»
Il coach mi guarda per la prima volta da quando è entrato il ragazzo, il viso rilassato di chi aveva già previsto tutto e ha la certezza che non riceverà un rifiuto.
«Vuoi diventare un manager sportivo, no? Si parte dal basso, Bridgestoke, e questa mi sembra un’ottima occasione.»
«E se rifiutassi?»
L'uomo mi osserva con le sopracciglia inarcate, forse non si aspettava una reazione di questo genere da parte mia: atteggiamento stupido, visto che conosce la mia storia e soprattutto conosce il mio carattere.
«Sbaglio o tra i tuoi corsi c'è anche quello della professoressa Turner? Credo che sarebbe contenta di una tesina sul programma di allenamento individualizzato per un giocatore che deve rientrare in squadra.»
«Le hanno mai parlato di privacy, coach? Perché lei ha appena violato la mia.»
Non sono sicura di essere arrabbiata, ma non posso credere che abbia indagato su di me o peggio, che la Turner abbia parlato con lui. Mi sento più che altro offesa.
«Fai parte della squadra, Bridgestoke, e io conosco il piano di studi di tutti i membri della mia squadra. Anche i loro voti, se vuoi saperlo. Fa parte del mio ruolo.»
Le sue parole mi spiazzano e un po’ quietano il mio fastidio, perché sapere di essere parte della squadra mi fa indubbiamente piacere. E sono anche certa che il coach abbia tirato fuori questa storia per rabbonirmi.
«Quindi?»
«Non penso di avere molta scelta, coach. Farò quello che devo.»
Non sono entusiasta della situazione, ma darei prova di un certo spessore morale se riuscissi in questa impresa; darei anche prova della mia bravura, vista la pietosa situazione fisica di Anderson. Posso farcela, posso fare ogni cosa.
«A te va bene, Black?»
Non ci posso credere! A me viene imposto il suo volere e al figliol prodigo si chiede se è d'accordo? Ora sì che sono arrabbiata e sto per riversare tutto fuori, ma la voce di Ander si fa sentire prima della mia.
«Credo di essere in buone mani, coach. Ottima scelta.»
Ammutolisco, dimenticando quello che volevo replicare, avendo immaginato la sua risposta. Credevo che sarebbe stato caustico, magari con qualche stupida battuta, oppure che avrebbe rifiutato in modo netto e deciso. Invece il ragazzo continua a guardarmi con il sorriso sulle labbra e la luce negli occhi.
Cosa sta facendo? Vuole farmi abbassare la guardia e massacrarmi ancora? L'alcool e le canne gli hanno bruciato i neuroni?
«Bene. Prepara un programma di allenamento, Lucy, e fallo vedere a Eglestone. In questi giorni cercate di iniziare con qualcosa di basico, ti voglio all'allenamento di venerdì Black e cerca di arrivare lucido.»
«Sì, signore.»
La nostra risposta arriva all'unisono.
«Torno al Dodge, voi cercate di non ammazzarvi.»
Con un cenno si allontana, lasciandoci soli sul campo da basket, nel silenzio assoluto che cala dopo che anche l'eco dei suoi passi si spegne.
Lancio un'occhiata fugace ad Anderson, poi tiro fuori il cellulare, per programmare gli allenamenti e per occupare la mia mente, che ha iniziato a vagare senza sosta. Ma soprattutto per mascherare l'agitazione che invade ogni cellula del mio corpo e che non voglio che il ragazzo percepisca. Preferisco non capisca quanto potere la sua sola presenza abbia ancora su di me, sarebbe solo un'arma in più che gli concederei per ferirmi.
«Dunque. Potremmo iniziare domani alle 15, se non hai lezione. Qualche chilometro di corsa e qualcosa per la muscolatura. Se abbiamo tempo, qualche tiro potrebbe…»
Il rumore della palla che si infila nel cesto mi fa alzare gli occhi di scatto sul ragazzo nel momento in cui i suoi piedi toccano il parquet, il corpo ancora in posizione di tiro. Lo seguo mentre cammina lentamente verso la sfera arancione, la afferra e inizia a palleggiare con la naturalezza di chi ha questo sport che scorre nelle vene. Torna nella posizione dei tiri liberi e di nuovo centra il canestro. Ripete il gesto ancora e ancora, senza sbagliare un colpo.
«Cosa stai facendo?»
Si blocca a pochi metri da me, osservandomi con uno sguardo che non sono più abituata ad avere addosso: dolcezza, tranquillità e qualcos'altro che non riesco a indentificare.
«Ti dimostro che sono ancora in grado di giocare a basket.»
«Su questo non avevo molti dubbi. Per te giocare è sempre stato naturale. E poi giochi a Riverside ogni…»
Mi interrompo mordendo il labbro inferiore, consapevole di aver parlato troppo. Sul suo viso si dipinge un'espressione stupita e, se ancora sono capace di comprenderlo, lusingata.
Merda.
«Mi spii?»
«Le voci corrono al campus, Black. E tu sei piuttosto popolare, non serve che sia io a ricordartelo.»
Spero che il tentativo di sviare l'attenzione dalle mie parole funzioni, non è il caso di ammettere che in questi mesi mi sia capitato più volte di guardarlo giocare. Da lontano e nascosta, quasi come una stalker. Un segreto che nessuno conosce, neanche le mie coinquiline.
Non so se mi crede o mi concede il beneficio del dubbio, ma le parole che dice subito dopo mi fanno tornare a respirare.
«Domani alle 15 va bene. Dove?»
«Al Morningside Park? Playground 123?»
«Ok. Non andarci troppo pesante, non corro da un po’.»
«Cerca di fumare poco stasera.»
Annuisce.
«Ci vediamo, Lucy.»
«Ci vediamo, Anderson.»
Si sofferma sulla mia figura ancora per qualche secondo e non riesco a trattenere la mia mano, che finisce a tormentare la treccia morbida che mi ricade sulla spalla sinistra. Un gesto automatico, che spesso non mi rendo neanche conto di compiere, ma che sottolinea il mio disagio.
Senza dire altro si volta e si allontana. Solo quando sento la porta chiudersi nel silenzio ovattato del Levien lascio andare il fiato che ho trattenuto nei polmoni. Recupero la palla, quella che lui ha usato fino a poco fa, e la faccio girare tra le mani.
Le domande affollano la mia testa, a partire dal quella che riguarda le intenzioni di Fulham: perché me? Perché mettermi alle strette? Uno qualsiasi dei suoi assistenti sarebbe stato sicuramente più qualificato della sottoscritta per questo incarico.
Poi ci sono quelle su Anderson: ha accettato senza proteste, anzi, ne sembrava quasi contento. A quale gioco sta giocando?
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top