ANDERSON
Trigger warning: nel capitolo è descritto un comportamento che potrebbe disturbare i più sensibili. Chi scrive non approva questo comportamento, ma è funzionale alla trama.
È ora di entrare nella mente di Anderson Black, siete pronti?
Mi ha parlato. Lucy mi ha di nuovo rivolto la parola dopo più di un anno e mezzo. Certo, non per volontà sua, doveva riferire un messaggio, ma ha di nuovo sentito il suono della sua voce. E io, come l'idiota che sono, ho sprecato l'occasione per un discorso più serio. Quel discorso serio.
Ho fatto un quantitativo enorme di cazzate in questi anni, ma la più grande, quella di cui mi pento ogni singolo minuto, è stato allontanare Lucy dalla mia vita. Per non parlare del modo in cui l'ho fatto.
Certo, come dice Trent le mie intenzioni erano nobili e motivate, ma mi ero comportato come il peggiore degli stronzi. La cosa peggiore è che non era servito a un cazzo.
Vedere i suoi occhi color cioccolato guardarmi con distacco ha fatto male; leggevo nel suo sguardo la paura: di me e del fatto che avrei potuto ferirla di nuovo. Per quanto fosse stato necessario pronunciare quelle parole, so che non mi perdonerò mai per il male che le ho fatto. E dubito che potrà farlo lei.
Riprendo contatto con la realtà dopo un tempo indefinito, la musica e le urla provenienti dai piani inferiori si fanno più intense e io ho bisogno di stare solo. Non in questa stanza che uso solo quando ci sono le feste o quando esco con una ragazza, devo tornare a casa.
Spengo la luce e chiudo la porta a chiave, poi imbocco le scale e scrivo a Trent che me ne sto andando. Mi stupisce vedere che poco fa mi ha scritto un messaggio per avvisarmi che Lucy mi stava cercando. Almeno ora capisco come la ragazza mi abbia trovato.
Il baccano è assordante al primo piano, tanto che per un attimo sono tentato di non prendere neanche il giubbotto, ma una folata di vento proveniente da una finestra aperta mi fa desistere dal mio intento. Ricordo di averlo abbandonato su di un appendiabiti vicino alla cucina comune e fortunatamente è lì che lo trovo, senza perdere ulteriore tempo.
Nessuno sembra fare caso a me, così mi defilo verso l'uscita costeggiando i muri, sperando di continuare a passare inosservato. L'unica che interrompe il mio tentativo di fuga è la biondina che fino a poco fa stava facendo un discreto lavoro con la sua bocca attaccata al mio cazzo, ma la liquido in pochi secondi, facendola imbronciare. Non le lascio il numero, conosco il genere: matricola e piovra. Non fa per me.
L'aria fredda mi investe e valuto la possibilità di tornare all'appartamento a piedi, ma dista troppo, così percorro qualche metro e alzo la mano quando sono ormai in mezzo alla strada, attirando l'attenzione di un taxi elettrico.
«Riverside Drive, W 110th street» dico mentre mi infilo sui sedili posteriori.
L'uomo al volante annuisce, mi lancia uno sguardo distratto dallo specchietto retrovisore e si avvia silenziosamente in mezzo al traffico di Morningside Heights.
Il viaggio in auto è breve, pago in contanti e lascio una mancia forse troppo generosa, ma è venerdì sera e io avevo fretta.
Il portiere di notte mi saluta mesto e mi porge la chiave del mio appartamento, che avevo affidato a lui in caso fossi tornato troppo ubriaco per aprire la porta: dopo un rapido sguardo deve avermi giudicato in grado di intendere e di volere, o quantomeno capace di mettere la chiave nella serratura. E ha ragione: sono completamente lucido e anche discretamente in agitazione.
Entro nell'appartamento e la prima cosa che faccio è calciare via le scarpe, che rimbalzano con tonfi sordi sul parquet scuro che ricopre il pavimento. Lascio il giubbotto sulla panca all'ingresso, poi supero il bagno ed entro nell'open space che ospita la cucina e il salotto. Senza accendere la luce apro la prima anta di un pensile della cucina e agguanto il barattolo di Earl Grey che giace in fondo alla dispensa, tirando fuori un piccolo cilindro che decisamente non profuma di tè.
Questa casa non è provvista di balconi, ma come nell'immaginario comune ha diverse finestre, una delle quali dà accesso alla scala antincendio. È lì che mi dirigo, giocando con l'accendino, e appena esco fuori accendo lo spinello, aspirando una generosa boccata che inebria i sensi e alleggerisce i miei pensieri.
Mi siedo avvolto dal freddo della notte, la schiena appoggiata al muro di mattoni che riveste l'intero edificio, lo sguardo perso sul fiume Hudson e in lontananza sulle luci del New Jersey: una visione bellissima, resa possibile dall'essere al decimo piano, oltre le fronde degli alberi del Riverside Park.
Lucy mi ha parlato. E mi ha detto che Fulham mi rivuole in squadra. Due cose che non credevo possibili. Sembrano la risposta alle mie preghiere.
Ho desiderato ogni minuto, da quel maledetto giorno di Febbraio, di poter riavere Lucy nella mia vita, di poter rimediare alla mia cazzata, di poter spiegare. E ogni giorno speravo di poter tornare a giocare nei Lions. Ora questa opportunità è davanti a me, mi basterebbe allungare la mano e afferrarla, ma qualcosa mi blocca. Lo stesso motivo per cui l'ho allontanata, lo stesso motivo per cui mi sono fatto sbattere fuori dalla squadra.
La suoneria del cellulare mi fa sobbalzare, vorrei ignorarla, ma quando leggo il nome di Trent decido di rispondere.
«Dove cazzo sei?»
«A casa, te l'ho detto. Dovevo andarmene da quel caos.»
«Quindi hai parlato con Lucy.»
Non è una domanda. Trent è uno dei pochi a conoscere tutta la storia. Quasi tutta la storia.
«Sì…»
«E cosa voleva?»
Solo ora mi rendo conto che non sento musica provenire dal cellulare, segno che deve essersi in qualche modo isolato dalla festa.
«Doveva riferirmi un messaggio di Fulham.»
«Fulham?»
«Già… A quanto pare mi rivuole in squadra.»
«E tu che le hai detto?»
«Che se sono la loro prima scelta sono messi male.»
Lo sento soffocare una risata.
«Che hai intenzione di fare?»
Non rispondo subito, strizzo gli occhi e li premo con il pollice e l'indice, perché la canna che ho appena buttato non mi ha aiutato a trovare la lucidità, anzi. Aggiungo anche questo alla liste delle mie pessime scelte.
«Non lo so.»
Trent rimane in silenzio, in attesa che io prosegua, ma onestamente non so che cosa dire.
«Potrebbe essere la tua occasione.»
«Occasione per cosa? Lo sai che non me ne frega più un cazzo del basket.»
«Questa è una balla che continui a raccontarti. Una punizione che continui a infliggere a te stesso e che non serve a un emerito cazzo.»
La sua voce ora è arrabbiata. Non è un mistero che a Trent non piaccia il mio modo di agire: ha sottolineato più volte quanto io sia stato stupido e quanto stia peggiorando una situazione pessima con la mia ostinazione. Lui però non capisce, non sa quanto fosse alta la posta in gioco che mi ha portato ad agire in quel modo e comprende solo in minima parte la mia vergogna e il mio senso di colpa.
La parte mia parte razionale sa che in fondo ha ragione, però il baratro di bugie e cazzate in cui mi sono sepolto sembra impossibile da risalire.
«Ho tempo fino a martedì per pensarci.»
«Allora pensaci bene, amico. È l'ultimo anno e l'universo ti sta dando l'opportunità di risolvere le questioni in sospeso.»
«Potrebbe essere troppo tardi.»
«Forse hai ragione. O forse stai buttando nel cesso l'ennesima possibilità.»
«Ciao Trent, buona serata.»
Chiudo la chiamata e un brivido di freddo mi attraversa, increspando ulteriormente la pelle nuda delle mie braccia. Rientro in casa e chiudo la finestra, poi mi spoglio e mi infilo sotto il getto bollente di acqua, dove rimango per parecchi minuti, troppo perso tra ricordi e pensieri.
Quattro giorni. È questo il tempo che mi rimane per prendere una decisione che influirà non solo sul mio ultimo anno di college, ma anche, credo, sul resto della mia vita.
Spazio autrice
Come avete visto questo capitolo è scritto con il pov di Ander. Nella storia non ci saranno pov alternati, ma saranno presenti alcuni capitoli narrati dal nostro protagonista maschile. Non seguiranno la numerazione dei capitoli, ma saranno intitolati semplicemente "Anderson".
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