6. «Non scherzare con il fuoco, bambolina.»


Claire

Sudavo. Acqua salata che scendeva dalla fronte accompagnata dalla paura che aveva ribaltato il mio stomaco, avvertendo la sensazione di precipitare da un momento all'altro in un mondo abitato dai mostri che sembravano avere un volto preciso: il suo.

Fitte di dolore che s'infiltravano negli spazi oscuri dei miei muscoli, un castigo che mi aveva scatenato contro con un solo sguardo. Una tempesta che si abbatte con forza sul terreno, distruggendo quell'area fertile con lo scopo di imporre la propria presenza.

Non riuscivo a capacitarmi di tutte quelle emozioni che mi aveva lasciato. Come un ladro si era infiltrato nella mia anima per donarmi il medesimo disordine che regnava nel suo cuore di ghiaccio.

Osservavo la mia figura nello specchio del bagno dell'ospedale. Le occhiaie violacee che contornavano i miei occhi spenti, nei quali s'insediava l'oscurità dei demoni di quell'uomo. Le labbra secche e la saliva amara a causa dell'alcol della sera precedente. Una sbronza che non avevo previsto e che mi ero impegnata ad evitare ma era ciò che mi aveva permesso di rimuovere dalla mia mente per qualche istante gli imprevisti di qualche ora prima.

Girandomi e rigirandomi tra le lenzuola, sentivo il letto un oggetto estraneo e non il posto amorevole di una volta, complice la paura, maledetta bestia che m'inghiottiva nella propria cavità orale per lasciarmi cadere nel buio pesto.
Avevo rovesciato la bile del mio stomaco nel lavandino. Un liquido contenente la sgradevole e infida inquietudine che mi stava attaccando nel peggiore dei modi come una penitenza che quel delinquente mi aveva scatenato contro per il semplice gusto del divertimento.

Giacevo in quell'enorme ambiente dell'ospedale, sentendo le palpebre dei miei occhi tentare di abbracciarsi per cadere nelle braccia del sonno, ma non potevo permettere loro di averla vinta. Avevo trovato rifugio nel caffè, sperando che quella sostanza marrone potesse restituirmi un po' di energia che la sbronza aveva portato via.

Il camice bianco stropicciato copriva i vestiti della sera precedente, i quali emanavano ancora l'inconfondibile tonfo di alcol. Avevo portato in lavanderia l'uniforme di riserva e tantomeno avevo avuto tempo per stirare quello che indossavo in quell'esatto momento.

«Sembri una barbona,» disse Alyssa, ridacchiando e corrucciando la fronte mentre lasciava girovagare per l'ultima volta il suo sguardo lungo il mio corpo.

«Non ho dormito,» la informai, lanciandole un'occhiata fulminea e sbuffando.

«Sei andata a fare serata con Andrew?» Chiese, sciacquando le mani sotto il getto d'acqua proveniente dal lavandino.

Annuendo, mi limitai ad esprimere tutta l'inquietudine che si era insediata nella mia anima attraverso un semplice cenno di capo poiché le parole che tentavano di fuoriuscire dalla mia anima sembravano un fitto groviglio di frasi e sillabe che desideravano vomitare il marcio della sera precedente.

«Comunque, oggi ci verrà presentato il nuovo tutor,» mi informò la mia amica, abbozzando un sorriso malizioso. «Dicono che sembri un modello,» urlò eccitata, battendo le mani.

«Hanno licenziato la Mayer?» Le chiesi, corrucciando la fronte e appoggiandomi alla parete gelida del bagno.

«No, è in maternità,» disse, facendo spallucce e sistemandosi il camice.

Le punte dei suoi capelli neri le cadevano sul camice, complici le tinture che le avevano rovinato la cute. Le labbra sottili le contornavano il viso dolce, decorato da occhi color nocciola che annegavano in un mare di cioccolata.

«Non ci credo,» esclamai, sbarrando gli occhi per la sorpresa di quella notizia che suonava così assurda. «Ho sempre pensato che non facesse sesso per quanto è acida,» aggiunsi, scuotendo la testa.

«Claire Harris!» Esclamò la mia amica, tentando di assumere un'espressione seria. «Da lei un tale linguaggio non me lo sarei mai aspettato,» borbottò, scoppiando in una fragorosa risata.

«Smettila,»le dissi, scuotendo la testa mentre uscivamo dal bagno, respirando la solita aria dell'ospedale e lasciando quel tonfo di detersivo che sembrava aver corroso le mie narici per intrufolarsi all'interno della mia gola e causandomi conati di vomito.

Osservavo le pareti bianche dell'edificio, le numerose sedie situate nei corridoi e il solito baccano proveniente dalle sale. Un ambiente che faceva nascere in me una strana sensazione di serenità. Sin da piccola avevo sempre immaginato quel luogo come un posto dove adoperarmi, mettermi al lavoro per salvare la vita altrui.

Sentivo di avere tra le mie mani il destino di un altro uomo. Il suo pesante futuro sgretolava le mie dita, le quali tentavano di impedire che quella medesima persona cadesse nelle braccia della morte.

Le lacrime di commozione offuscavano le mie pupille e riempivano il mio cuore. Nonostante io non fossi riuscita a raggiungere il traguardo che tanto avevo desiderato per anni, sapevo che restare in quell'ambiente mi aveva restituito un po' di quella pace che mi era stata portata via nell'esatto momento in cui avevo ricevuto i risultati. I sogni: composti di polvere magica che era stata soffiata via dal vento freddo della sventura.

Per anni, avevo passato pomeriggi interi a studiare anziché provare ad aprirmi socialmente perché quell'obiettivo che mi ero prefissata continuava a ronzarmi nella testa, impedendomi di muovermi da quella bolla d'aria formata dall'inquietudine dei miei desideri.

«Ho fame,» borbottai, alzando gli occhi al cielo e mettendo il muso per attirare l'attenzione della mia amica.

«Anticipiamo la pausa pranzo?» Propose Alyssa, dandomi una leggera gomitata in segno di appoggio.

«Sono le undici del mattino,» le feci notare, guardando l'orario sul mio orologio placcato in oro.

«E quindi? Una donna ha le proprie necessità,» disse, facendo la linguaccia. «Inoltre, stai perdendo troppo peso,» aggiunse, lanciando uno sguardo al mio corpo.

«Magari,»mormorai, sospirando e roteando gli occhi.

«Peccato che io nei momenti di stress mangi il doppio,» si lamentò, sbuffando e incrociando le braccia al petto.

Una voce burbera e fredda attraversò le mie orecchie. Una serie di spine che furono piantate nella mia schiena al solo tocco di quella rosa letale. Il fiato affannato, il cuore accelerato e le gambe che sembravano voler crollare da un momento all'altro come un paracadutista che si fionda nel vuoto. Ma io ero sprovvista di alcuna attrezzatura e temevo quell'immensità priva di contenuto.

«Sto cercando la signorina Claire Harris,» sbottò, serrando la mascella e i pugni. Riuscivo ad intravedere il suo viso coperto dal cappuccio anche dal corridoio che s'intersecava con la sala in cui sostava quel delinquente. I suoi occhi color smeraldo avevano assunto un colore differente tanto che le sue pupille sembravano affondare nel rosso della rabbia. Un sentimento dolente che s'immergeva nella vendetta.

Bailey, l'infermiera caporeparto, sostava dietro la scrivania di legno bianco. La sua espressione allarmata lasciava intuire quanto fosse preoccupata per la sua incolumità. D'altronde, il suo aspetto riusciva a comunicare quanto fosse un tipo poco raccomandabile.

«Allora?» Ringhiò, digrignando i denti e lasciando scontrare i suoi pugni contro il materiale duro della scrivania.

«Si calmi o sono costretta a chiamare la polizia,» mormorò l'infermiera, prendendo un lungo respiro profondo per caricarsi di un coraggio che in quel momento sembrava mancarle.

«Aspettami qui,» ordinai alla mia amica, rivolgendole uno sguardo rassicurante e facendole intuire che non era la situazione adatta per poter filare via dall'ospedale.

«Cercavi me?» Chiesi, sbucando dal corridoio. La paura che mi aggrovigliava le viscere, rischiando di svenire da un momento all'altro per quel grande carico di adrenalina che circolava all'interno del mio corpo.

I suoi occhi bruciavano. Fiamme che rischiavano di corrodere ogni parte del mio corpo esposta al suo sguardo furente. Aveva assunto le sembianze di un demone che si era calato nei panni di un umano con il solo scopo di attuare la propria vendetta. Una ripicca dolorosa quanto un coltello che lentamente penetra la pelle, sfociando nell'epidermide e versando il sangue.

«Vieni con me,» un invito che suonò come una minaccia perché lo scopo era incutermi timore e lui sapeva come riuscirci.

Non riuscivo a pronunciare alcuna parola.  Nel pieno di una paralisi, mi lasciavo trasportare dai miei piedi verso l'esterno, accompagnata da quel delinquente che deteneva le sue mani sudicie attorno al mio polso, stringendo con forza e rischiando di bloccare la defluizione del sangue.

«Ora facciamo i conti,» disse con tono tagliente, lasciando il mio braccio con violenza. Un gesto che mi fece barcollare, rischiando di scontrarmi con il suolo.

«Di cosa parli?» Risposi, massaggiandomi il polso e deglutendo quel groppo in gola che occludeva il mio respiro.

«Lo sai bene di cosa parlo,» sbottò, scuotendo la testa e serrando la mascella. Le sue narici erano aumentate di dimensioni per far fuoriuscire il grosso accumulo d'aria che deteneva nei suoi polmoni. Le sue spalle muscolose erano rinchiuse all'interno di quella felpa che gli fasciava l'addome e i jeans sporchi lasciavano intuire da quale ambiente provenisse.

«Invece no,» risposi sfacciata, facendo spallucce e incrociando le braccia al petto.

«Lo so che hai visto quella scena, cazzo,» ringhiò disgustato, storcendo il naso.

«Non riesco a capire di cosa stai parlando,» risposi, tentando di crearmi un alibi in modo che potessi scappare da quel fiume abitato dal coccodrillo che attendeva di gustarmi.

«Credi che io sia stupido?» Chiese retorico, aggrottando le sopracciglia. «So che sei stata tu a chiamare la polizia,» aggiunse, puntandomi il dito contro.

«Credo che tu abbia preso un abbaglio,» mormorai, mordendomi l'interno delle guance.

«Mi devi restituire i soldi che dovevo rubare al tizio,» iniziò, prendendo il pacchetto di sigarette dalla tasca posteriore dei suoi pantaloni. «E non ti azzardare a farne parola con la polizia o finisce male,» minacciò, afferrando il cilindro di carta riempito di tabacco.

«Mi dispiace, hai sbagliato persona,» risposi, facendo spallucce e voltando le spalle per potermi allontanare da quell'uomo dall'animo oscuro.

«Davvero?» Chiese retorico, afferrandomi per il polso mentre teneva appoggiata la sigaretta sulle sue labbra carnose. «Bambolina, ti conviene restituirmi i soldi o finisce male sia per me che per te,» mi informò, alzando le sopracciglia.

«Per tua sfortuna, i soldi li offro a chi li merita,» sbottai, tentando di divincolarmi dalla sua forte presa.

«Me li merito eccome,» rispose, abbozzando un sorriso sornione. «Se non fosse stato per quella tua diamine di chiamata ora avrei del denaro per pagare le bollette, viziata del cazzo,» disse disgustato, storcendo la bocca.

«Davvero per te è solo una questione di soldi?» Chiesi, scuotendo la testa e portando le mani in aria in segno di resa.

«Non sono cazzi tuoi,» ringhiò, aspirando un po' di quella sostanza tossica per calmare il sangue che ribolliva nelle sue vene. Una rabbia che si portava dentro da un tempo indeterminato.

«Ti do tempo fino a venerdì per portarmi cinquemila sterline,» mi informò, buttando fuori il fumo e lasciando che si mescolasse con l'aria fredda che abbracciava Londra.

«Non ho cinquemila sterline,» risposi, abbassando lo sguardo per potermi distrarre da quegli occhi magnetici che tentavano di afferrare i miei per poter scoprire la mia anima.

«Indossi delle scarpe di mille sterline, non prendermi per il culo,» mormorò, contraendo il suo viso in un ghigno divertito.

«Sono seria,» esclamai, corrucciando le sopracciglia. «Non posso chiedere soldi ai miei,» aggiunsi, sospirando.

«Non m'interessa,» borbottò, facendo spallucce. «Ho bisogno di quei fottuti soldi che ho perso a causa tua,» sibilò, calpestando la cicca di sigaretta sotto alle suola delle sue scarpe malandate.

«Puoi sempre recuperarli in un altro modo,» risposi, sbuffando e alludendo a ciò che era successo la sera precedente.

«Non scherzare con il fuoco, bambolina,» sussurrò al mio orecchio, avvertendo il suo alito di fumo che si mischiava alla menta.

«Hai finito di minacciarmi?» Chiesi, alzando gli occhi al cielo.

«Ciò che ti aspetta se non rispetti l'accordo sarà molto peggio, fidati,» rispose, sorridendo sornione.  «Ti conviene portarmi i soldi venerdì sera, bambolina,» aggiunse.

«Cinquemila sterline, ricorda,» annunciò, ammiccando nella mia direzione. «Il mio numero di cellulare per incontrarci,» disse, porgendomi un piccolo foglio di carta. La sua calligrafia appariva disordinata proprio come la sua anima.

Portando le mani nelle tasche dei pantaloni, si affrettò ad allontanarsi da me, rivolgendomi un'occhiata fugace. La sua andatura sfrontata mentre attraversava la strada e le sue pupille glaciali che si fondevano alle temperature fredde che erano calate nel centro di Londra.

Accarezzavo quel foglio di carta, avvertendo ancora una volta il contatto delle sue mani contro il mio polso. Una stella caduta nelle braccia del ghiaccio.
Mi perdevo nelle sue pupille, lasciando che quel mare in tempesta mi portasse via da quel mondo crudele che mi teneva incatenata ad una vita che non riuscivo a sentire mia.


Eccomi! Come state?
Spero che il capitolo vi piaccia più di quanto piaccia a me!😅
Che ne pensate di Trey? E di Claire? Credete che gli restituirà i soldi? Fatemi sapere tutte le vostre teorie nei commenti.
Se vi va, seguitemi su instagram: @badgal.linda 🌹

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top