Capitolo 48: Ian

Deglutisco, continuando a scrutare nei chiari occhi di Anthea. 
E se l'ambulanza fosse sul serio dovuta alla madre di Evelyn? 
Controllo il telefono, ma non vi trovo alcuna chiamata persa. 

Il verde lampeggia da almeno una decina di secondi, sul semaforo, ma sono talmente assorto nei miei pensieri da fregarmene, fino a che un'ulteriore auto, un BMW grigio, non sfreccia di fianco a noi, suonando il clacson a tutto spiano, come a rimproverarci di esserci fermati proprio in mezzo alla corsia.

  «Dobbiamo andare.», avviso Anthea, riconoscendo il veicolo di Zach Porter. 
La scorgo annuire dallo specchietto retrovisore, come a captare il fatto che qualcosa, effettivamente, non quadri. 

La strada verso l'ospedale, a me fin troppo familiare, sembra essere infinita, mentre sfreccio via sulla mia Chevrolet, incurante dei limiti imposti dai cartelli sul lato della carreggiata, mentre percepisco piccole goccioline di sudore tempestarmi la fronte. 

 ''Tesoro, dobbiamo correre all'ospedale.'', la voce di mia mamma era ed è chiara nella mia testa, completamente in preda al panico, terrorizzata.  ''Che stai dicendo, mamma?'', il mio tono incerto, mentre in me iniziava a farsi strada quella stramaledetta sensazione, come se il petto cominciasse a restringersi, secondo dopo secondo, in attesa di sapere la notizia in grado di stravolgere a tal punto mia madre. ''Tua sorella ha... ha fatto un incidente. La stanno portando al North Hospital.'', ha confessato poi, prima di sprofondare in un pianto liberatorio, ed io... Io, impalato come un idiota, incapace di muovere un muscolo. 

Chiudo gli occhi, premendomi forte le tempie, nel tentativo di cessare quei maledetti ricordi, che giorno dopo giorno, mi lacerano dentro, mi divorano completamente, stomaco, fegato, mente e cuore. Senza pietà. 

«Ian... Ian...», la voce più dolce che io abbia mai sentito proviene proprio di fianco a me, mentre percepisco delle morbide mani accarezzarmi, incerte, la nuca. «Che ti succede, Ian?!»
Quando riapro gli occhi, pochi secondi dopo, con la camicia impregnata di sudore, mi volto verso Anthea, che mi guarda spaurita, palesemente in pensiero per me. Quanto avrei bisogno, in questo momento, di stringerla a me talmente forte da non respirare, costringerla a non abbandonarmi mai, di rimanermi sempre accanto, inalando a pieni polmoni il profumo inconfondibile che deriva dai suoi folti capelli chiari. So che lo vorrebbe, lei stessa. 

L'ennesimo clacson mi scuote da quella sublime visione, e mi accorgo del fatto che sto, ancora una volta, bloccando il traffito, dunque mi costringo ad ingranare la prima marcia e ripartire, cercando di placare il trambusto che si sta facendo strada nel mio petto. 

Poco dopo, finalmente, giungiamo nel parcheggio. 
North Hospital, leggo dall'insegna metallica, proprio di fianco all'imponente croce lampeggiante, prima di essere colpito da un'ulteriore fitta alla testa, riportando alla mente, ancora una volta, quella tremenda serata.
 
Anthea si slaccia la cintura di sicurezza, mentre, cogliendomi sul fatto, si avvicina, premendo le sue labbra proprio sulle mie tempie, concedendomi una tregua, almeno per qualche secondo. 
 «Va tutto bene...», mi sussurra nelle orecchie, accarezzandomi le punte dei capelli, mentre un brivido mi tempesta la schiena, lungo tutta la colonna vertebrale. 

Mi allontano di qualche millimetro, giusto per riuscire ad incontrare i suoi occhi. Quegli occhi che bramo dal primo giorno in cui li ho incontrati, e che, in questi giorni, si sono fatti indelebili nella mia mente, nonostante i miei miserabili tentativi di scordarli, una volta per tutte. 
Le appoggio una mano sotto il mento, accarezzandole con il pollice la guancia, mentre i suoi occhi si socchiudono, lasciando spazio solo alle sue folte ciglia scure, in grado di renderla così perfetta, così ineguagliabile, anche senza un filo di trucco. 
Chiudo gli occhi a mia volta, quando nella mia mente compare il volto di Evelyn. Gli occhi blu colmi di delusione, i ricci che le ricadono, perfetti, sulle spalle. 

Mi scuoto, allontanandomi definitivamente da Anthea, che, mortificata, fa lo stesso. 
Scendiamo, insieme, dall'auto, dirigendoci a passo spedito verso l'ingresso, dove da un'ambulanza, la cui sirena nel frattempo ha cessato di ululare, scende Evelyn, ancora nel suo abito celeste, bensì con il trucco leggermente colato. Stringe forte la mano della madre, stesa su una barella, che accenna alla figlia dei fiochi sorrisi tirati, prima di essere scaricata giù dagli uomini dalla divisa luminescente, sui toni dell'arancione. 

Comincio a correre verso la loro direzione, attraversando la strada, incurante dei veicoli in movimento, facendo inchiodare una Fiat bianca.
«Stai attento, idiota!», mi maledice il conducente. 

Quando Evelyn mi scorge, tra la folla, mi si piomba tra le braccia, in una valanga di lacrime. 
La stringo forte a me, incurante del fatto che tutti ci stanno guardando, persino Anthea, che nel frattempo si è posizionata proprio dietro di me.
«Sto... sto bene», mi sussurra lei, mentre i volontari, assieme al padre, prendono a trasportare Carol verso l'ingresso. «Sul serio, Ian. Posso farcela anche da sola, hai visto?», un mezzo sorriso le compare sul volto, il sorriso più sincero che io abbia mai visto, indosso a quella ragazza scombussolata. Scombussolata quasi quanto me.  

Una volta giunti all'interno, io e Anthea veniamo braccati da un uomo di mezz'età, vestito interamente di bianco, che, con un tono autoritario, ci intima: «Solo parenti e familiari possono proseguire. Sono spiacente...». Corruga la fronte in segno di mortificazione, poggiando la sua mano contro il mio petto, impedendomi di proseguire. 

Guardo Evelyn, che annuisce, guardando il pavimento. Le nostre mani, unite in una stretta di conforto, faticano a rimanere unite ad ogni passo che lei compie, per allontanarsi da me, diretta in qualche strano reparto di quella stramaledetta clinica.

Lei, poi, lascia andare la presa, asciugandosi una lacrima, con gli angoli della bocca ancora rivolti verso l'alto.
«Grazie di tutto, Ian...», mi dice, lasciandomi di sasso. Che vuole dire?   
«Non ti abbandonerò, Evelyn...», le grido, fregandomene dei curiosoni che si fermano a guardarmi. 
«Lo so.», ribatte lei, incrociando lo sguardo di Anthea, regalandole un sorriso sincero.  
La osservo sparire in fondo al corridoio, prima di avvicinarmi allo sportello della Segreteria. 
«Quando si ricevono visite in questo posto di merda?». sputo fuori le parole come fossero veleno, rivolgendomi ad una signora dal caschetto biondo platino, che si guarda attorno, presa dallo sconcerto. 
  «V... Venga domattina.», mi avvisa, mentre le mani di Anthea mi stringono l'avambraccio, nel tentativo di portarmi via da quell'inferno. 

[...]

Siamo in macchina, immersi nel silenzio più totale, fermi nel parcheggio, ad osservare fuori dal finestrino.
Persone che vanno, persone che vengono. Mi chiedo come sia possibile, con quale forza si possono affrontare eventi del genere? Perchè, per quale fottuto motivo deve sempre essere tutto così dannatamente difficile? 

E' Anthea, ovviamente, a smorzare il silenzio. «Domani torniamo qui, sei d'accordo?»
Non c'è alcuna traccia di dubbio, di incertezza, nella sua domanda e la cosa mi lascia alquanto sbigottito. 
  «Torniamo?», domando, sbuffando in una risatina isterica, continuando a guardare dritto davanti a me. 
  «Sì, torniamo... Te l'ho già detto: Non ti lascio, Ian.», le parole mi rimbombano nella mente, mentre riecheggiano, ovattate, nell'assordante quiete di quest'auto.

Mi volto verso di lei, nel disperato tentativo di trattenere una lacrima amara che minaccia di sgorgare fuori, incrociando il suo volto, in piena apprensione per il ragazzo che le sta sconvolgendo la vita perfetta che aveva, ma al quale sono sicuro non riesca a fare a meno. Forse ne sono consapevole dal momento che vale lo stesso per me.

  «Non lasciarmi.», le labbra si muovono da sole, mentre una fitta mi trafigge in pieno petto, pentendomene all'istante.


  







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