Capitolo 47: Ian
Stiamo girovagando qua e là, senza una meta prestabilita, da per lo meno una decina di minuti.
Anthea non dà alcun cenno di stanchezza, tuttavia i miei piedi cominciano ad indolenzirsi.
Dove cavolo si sarà cacciata?
Mi fermo, giusto un attimo, per pensare. Abbiamo fatto tutto il giro della scuola, abbiamo ispezionato il centro, i locali notturni, colmi di uomini di mezz'età ubriachi fradici, e persino il parco, ma escludendo qualche tossico alle prese con qualche siringa, di lei nessuna traccia.
«Sarà a casa...», azzardo io, sospirando. «Prendo la macchina, è alla Jacob's. Tu... Torna pure al tuo lavoro», dico, cercando di ottenere il tono più sprezzante possibile.
Nonostante ciò, lei non sembra avere intenzione di cedere. «Vengo con te, Ian.», si fa insistente.
[...]
Camminiamo ancora, cercando di sfruttare la mia impeccabile dote orientativa, per ricordare tutte le scorciatoie della cittadina.
In poco più di cinque minuti, ci ritroviamo al punto di partenza: dalla palestra non cessano le grida esaltate della gente. Che ci troveranno, poi, in una stronzata del genere?
Ignoro il tutto, anche quando un gruppo di ragazzi, inspiegabilmente brilli - e dico inspiegabilmente poiché teoricamente l'alcool, durante un evento scolastico, non è concesso - barcollano, finendo a sbattere contro la mia Chevrolet nera, tirata a lucido.
Li fulmino con lo sguardo, uno ad uno, prima di sbattere la portiera, nel tentativo di chiuderla.
Anthea, lievemente riluttante, mi imita.
Giro la chiave nella serratura, e mentre il motore gracchia, nel tentativo di accendersi, mi sembra di rivivere gli stessi avvenimenti della scorsa settimana.
Mi torna alla mente l'espressione sconvolta di lei, le gote arrossate, le lacrime che minacciavano di scenderle giù per il viso, il tremolio delle sue mani...
Cazzo, Ian... Non cominciare.
Accendo la radio, e l'assordante musica di qualche strana rock-band anni '60 colma il silenzio, che credo si possa toccare con mano, dato il volto palesemente a disagio di lei.
Ingrano la marcia, e sfreccio via per quelle stradine buie, illuminate solo dalla fioca luce dei lampioni, allineati simmetricamente.
E' Anthea a smorzare, per prima, la terribile quiete nell'auto: «Ian?», comincia, con voce incerta, mentre io, teso come non mai, mi scopro a stringere più forte il volante. Dato che taccio, lei prosegue senza che io abbia prima acconsentito. «Hai... hai fatto qualcosa a Travis dopo... dopo quanto accaduto?», balbetta.
Merda, beccato in pieno.
Ripenso al suo volto, spaventosamente tumefatto, dopo aver incassato quella valanga di pugni. Cazzo, quanto mi sono sfogato su quel pezzo di merda. Se osasse ancora rivolgerle la parola, penso che potrei sul serio pensare di farlo fuori.
Tuttavia, lei non deve assolutamente sapere nulla.
«No, certo che no...», dico, cercando di convincere anche me stesso. «Per quale motivo?»
L'espressione di lei cambia in un baleno, mentre le labbra le si serrano.
«Oh, no, niente di che», ribatte. Scorgo, dallo specchietto retrovisore, la sua espressione leggermente poco convinta, mentre si accorge dei miei taglietti sulle nocche, scrutandoli con gli occhi ridotti a due fessure, nonostante rimanga in silenzio.
Tento di coprirle, fingendo un improvviso attacco di prurito, proprio vicino alle dita, e per poco non perdo il controllo dell'auto.
«Ehy, fai attenzione!», grida lei, stringendo un po' più saldamente la cintura di sicurezza, mentre a stento trattengo una risata.
[...]
Le villette di Vermont Street sono tutte, rigorosamente, illuminate.
Da alcune finestre, posso intravedere gruppi di ragazzi che festeggiano, che urlano, sghignazzano, mentre una famiglia, sul lato destro della via, è riunita a tavola e alza i calici, probabilmente per brindare all'ennesimo augurio della serata.
La casa Porter, tuttavia, appare spenta, buia, eccetto una fioca luce proveniente da un'ampia stanza, nascosta solo da delle eleganti tendine di seta.
Se non fossi quasi convinto che Evelyn si trovi proprio qui, non sprecherei tempo a suonare il campanello, ma devo per lo meno fare un tentativo.
Io ed Anthea scendiamo dalla macchina, e mentre io mi avvicino alla soglia, premendo il tasto del campanello, lei rimane in lontananza, prima dell'inizio del vialetto, contemplante il giardino, che nonostante il clima rigido, risulta verdissimo, e perfettamente curato.
Dopo una manciata di minuti, Zach Porter apre la porta, accogliendomi con uno dei suoi soliti sorrisi tirati.
«Lei è qui?», gli domando, senza lasciargli nemmeno il tempo di salutarmi.
Appare lievemente intontito. «S...Sì, è al piano di sopra», risponde, sgranando gli occhi. «Ma si può sapere che è succ...?», lo interrompo, lasciandolo ancora più spiazzato.
Se lo sapessi, glielo direi, minaccia di farsi uscire la mia coscienza. «Posso parlarle, da solo?», domando, marcando bene la parte finale.
Lui annuisce, e mentre sul suo volto compare una lieve nota di disagio, si dilegua, urlando, verso il piano di sopra, il nome della figlia.
L'attesa è snervante, ma devo assolutamente capire cosa ho fatto di sbagliato.
Perchè mi ha lasciato lì, da solo, impalato davanti ad una marea di persone?
Mi volto, per un attimo, verso Anthea, che continua a scrutare attorno a sè, mordendosi nervosamente le unghie.
Lo scricchiolio della porta interrompe i miei pensieri, quando mi ritrovo davanti alla chioma rossa, alla mia accompagnatrice.
Indossa ancora lo stesso vestito celeste, mentre i piedi nudi sembrano impallidire, a contatto con il freddo terreno sotto di sè.
Mi oltrepassa con lo sguardo, osservando proprio nella zona a me retrostante, prima di sbuffare in una risatina maliziosa. «Sei venuto, fin qui, con lei?», il tono derisorio, che rischia di farmi impazzire.
Per tutta risposta, le lancio un'espressione interrogativa, che spero basti a placare le sue paranoie infondate. Perchè sono infondate, non è così?
«Avanti, Ian... Pensi che sia cretina?», mi domanda sarcasticamente, in una nota pungente. «Pensi che non mi sia accorto di come la guardi?».
Sta alzando il tono di voce, con il solo scopo di farsi sentire anche dalla diretta interessata, così mi volto, per accertarmi che queste sue aspre parole non le siano arrivate.
Tiro un sospiro di sollievo quando mi la scorgo osservarsi le punte dei piedi, completamente ignara della nostra conversazione.
«Ma cosa... Cosa stai dicendo?», la ammonisco io prima che possa sputare ulteriore veleno, sia su di me, che su di lei.
Evelyn alza un sopracciglio, per poi incrociare le braccia sul suo ventre.
Dopo di che, estrae da un impercettibile taschino, tra le pieghe del suo morbido abito, una tesserina, che inizialmente non riconosco, fino a che non me la porge.
La afferro con le dita... E' Evelyn, nello stesso vestito celeste che indossa, che osserva, con un'espressione apparentemente sconvolta il volto del ragazzo che le sta accanto.
Quest'ultimo, con indosso una camicia bianca splendente e un papillon nero, in netto contrasto, studia qualcosa di indefinito, proprio di fronte a lui.
Gli occhi scintillano, le guance sono leggermente più rosee, le labbra quasi schiuse, in segno di stupore.
Per poco non mi riconosco. Non so cosa ribattere, non ho idea di come io possa giustificarmi.
Lei, con un deluso cenno di vittoria, mi strizza l'occhio, nascondendo il palpabile disagio.
«Te l'ho detto... Non sono cretina.», ripete, con la voce impercettibilmente smorzata e gli occhi lucidi, prima di chiudere la porta dietro di sè, barricandocisi dentro.
Rimango imbambolato su me stesso per almeno un paio di minuti, prima di realizzare dove io effettivamente mi trovi, analizzando lentamente quanto appena successo.
Mi dirigo, poi, a passo svelto, giù per i gradini, dove vengo accolto dalla persona che mi sta, lentamente, demolendo, nonostante non ne sia affatto consapevole.
«Va tutto bene?», mi domanda, in un filo di voce, probabilmente accorgendosi del fatto che io stia per dare in escandescenza.
Sferro un pugno contro la massiccia corteccia di un albero.
Non sento dolore, all'inizio, ma, non appena ci appoggio la fronte contro, l'adrenalina che fino a poco tempo fa mi scorreva lungo tutto il braccio, si trasforma in un dolente formicolio, che tento di allentare corrugando la fronte, emettendo solo dei ritmici respiri profondi.
Una mano si posa, delicata come una piuma, sulla mia spalla destra, interrompendo il mio affannoso prendere fiato. Nonostante ciò, mi volto come una furia, scacciando, con un cenno rapido, la mano di Anthea, che ritrae all'istante, in un'espressione tra lo spaventato e il rammaricato.
Prosegue poi a guardare per terra, sicuramente in preda a dei sensi di colpa.
«Mi dispiace, okay? Tu... tu non c'entri», mi lascio sfuggire, prendendola per il mento, costringendola a guardarmi negli occhi.
Lei annuisce, probabilmente non avendo idea di che altro fare.
[...]
Siamo diretti alla palestra, per riportare Anthea ai suoi impegni.
Il traffico sembra essersi dileguato, dal momento che la strada pare essere deserta.
Accosto in mezzo alla carreggiata, nell'attesa che il semaforo diventi verde, mentre da dietro di noi, il terrificante suono della sirena, si intensifica sempre più.
Poco dopo, un'ambulanza sfreccia di fianco a noi, oltrepassandoci, e automaticamente mi volto verso Anthea.
Incontro i suoi occhi, terrificati, illuminati solo da un bagliore lampeggiante, rosso e blu, mentre, come leggendoci nel pensiero, pensiamo al peggio: Evelyn.
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EHY, SCUSATE SE IL CAPITOLO E' TROPPO LUNGO, SPERO DI NON AVERVI ANNOIATI.
FATEMI SAPERE COSA NE PENSATE :D
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