Capitolo 43
Sono passati ben sei giorni, dal fatidico addio con Ian.
Il primo è stato terrificante, ho passato tutta la giornata a letto... Non che potessi fare altrimenti, con la febbre a trentotto, i brividi e quant'altro, ma proprio per questo, non mi è stato nemmeno concesso il tentativo di distrazione.
Tra le coperte, osservavo il vuoto tutto il tempo, non rispondevo alle risposte di mamma Eva, completamente preoccupata per me, mi rifiutavo di mangiare anche un solo boccone di pane.
Non lo facevo apposta, era il mio stomaco a non avere la benchè minima intenzione di collaborare. Come a farlo apposta, lo stesso giorno, tramite posta, è arrivata la scheda di valutazione del primo trimestre, che non mi sono sentita di aprire.
Tuttavia, mamma non ha osato fare la paternale, nonostante io sia quasi certa della presenza di voti bassi, data la distrazione dell'ultimo periodo.
Il secondo giorno la febbre si è leggermente allentata, così da consentire al mio corpo, ormai intorpidito, di fare due passi per la casa, ma di mangiare ancora non se ne parlava.
Sheyla è venuta di nuovo a trovarmi, ma date le mie condizioni, ha passato metà del tempo sul bordo del letto, paziente, prima di comprendere che non c'era verso di migliorare la situazione.
Il terzo giorno, ho riso per la prima volta ad una battuta del mio personaggio preferito della serie TV che sto attualmente seguendo, e mi sono io stessa stupita della cosa.
Forse era vero, che piano piano il tempo lenisce... Tuttavia la notte, mi sono ritrovata comunque singhiozzante, nascosta sotto le lenzuola, ma, sforzandomi al massimo, sono riuscita a prendere sonno.
Il quarto, mi sono costretta a pranzare, nel tentativo di placare l'ansia di mia madre, scoprendo con gioia il sorrisetto lanciato a papà. Sono stata fiera di me, quel giorno.
Ho chiamato Sheyla, che agitata ha risposto all'istante. Abbiamo parlato del più e del meno, evitando assolutamente discorsi scomodi.
Il quinto, e penultimo giorno, mi sono svegliata con lo strillo di mamma, che, spalancando la porta per poi precipitarsi in camera mia, mi ha porto una piccola letterina verdognola.
''Jacob's School'', leggo sulla busta. Mi aspetto il peggio, ma gli occhi impensieriti di mamma mi incoraggiano ad aprirla.
''Buongiorno, sig.na Allen,
Le inviamo questo comunicato per informarla del fatto che, dati gli scarsi risultati dell'ultimo trimestre, vorremmo proporle un'interessante opportunità, che le consentirà di accumulare numerosi crediti scolastici, a lei utili al termine dell'anno, prima dell'inaugurazione dei test finali. Si tratta di collaborare con lo staff scolastico, durante la festa di fine anno, la sera del 31 di Dicembre.Una volta accettata la collaborazione, dovrà occuparsi di mansioni, quali l'organizzazione, il catering, l'allestimento, e di tutto ciò che verrà richiesto dallo staff. Mi auguro che prenda in considerazione la nostra proposta, resto a disposizione per eventuali informazioni, in attesa di un suo riscontro. Le porgo i miei più cordiali saluti.''Preside, Jacob Forks
Non potevo credere a ciò che stavo leggendo, non avrei mai creduto fosse possibile che la situazione potesse peggiorare ulteriormente, ma, come sempre, credevo sbagliato.
Ero arrabbiata, arrabbiata con me stessa, per non essermi impegnata abbastanza durante il corso dell'anno, ero arrabbiata con me stessa perchè mi ero cacciata da sola in questa situazione, ero arrabbiata con me stessa perchè ero una delusione di figlia.
La mamma mi ha guardata con un'espressione interrogativa, ma ho deciso di non darle retta.
Ho stretto tra le dita quella stramaledetta lettera, incerta sul da farsi, prima di distruggerla con le mie stesse mani, spargendo sul pavimento freddo pezzetti di carta bianca.
Non ne avevo le forze, era inutile. Tutto inutile. La mamma si è divincolata fuori dalla stanza, l'espressione delusa.
Rettifico: Sono una pessima figlia.
Oggi è il sesto giorno, sto mangiando gelato in scatola sulla morbida cassapanca rosa cipria che da sulla finestra, osservando al di fuori di essa.
Passanti, passanti e ancora passanti. Penso a quanto strano sia il fatto che, ognuno di noi, abbia la sua vita, i suoi impegni, i suoi problemi, di cui noi non siamo affatto a conoscenza.
Scorgo un bambino, che cammina tenendo salda la mano della mamma, saltellando, impregnato di quella gioia contagiosa che tutti i bambini hanno la strana capacità di emanare.
Mi costringo, per l'appunto, a lasciare andare un abbozzo di sorriso.
Osservo, poi, i pezzetti di carta, ancora sparpagliati per terra.
Dovrei andare? Mamma sarebbe a pezzi, se dovesse scoprire che non riuscirò a passare l'anno. Ho sempre avuto intenzione di andare al college, ma... Ne sarei in grado? Potrei farcela?
Bè, se anche così fosse, di certo sto dimostrando il contrario...
Alzo gli occhi, annoiata io stessa dei miei infiniti viaggi mentali. Tiro fuori dalla tasca del pigiama il mio telefono, e in un lampo, senza avere nemmeno il tempo di pensarci su, compongo il numero di Sheyla.
«Ehilà!», risponde al secondo squillo. La saluto, e le racconto dell'arrivo della lettera.
E' stupita quanto me, specialmente per il fatto che a lei, nonostante i risultati propriamente scarsi, non sia arrivato nulla. Quale onore, penso tra me e me, ironicamente.
«Dovresti andare, Anthea. Non lasciarti sfuggire l'opportunità!», mi incoraggia, come è solita fare.
Penso che capti la mia preoccupazione, la mia ansia, la mia tensione, pare leggermi nel pensiero.
«Lui... lui non ci sarà». Sobbalzo, non aspettandomi per nulla al mondo una risposta del genere. Non so cosa dire, mi lascio sfuggire solo un sospiro, teso. Nel frattempo, lei prosegue.
«Ne sono certa, Anthea. Non parteciperebbe mai ad alcun evento, se organizzato dalla Jacob's. Lo conosci...»
Il tono preoccupato, come se stesse affrontando il discorso su un campo minato.
Lo conoscevo, mi ricorda la mia coscienza. Dio, quanto la odio.
Annuisco, inconscia del fatto che lei, dall'altra parte della cornetta, non possa captare il mio gesto.
«Ci... Ci penserò su, grazie Sheyla», le dico, sincera, prima di riattaccare.
[...]
Non ho assolutamente idea di come io mi sia cacciata in questa situazione.
Una volta terminata la telefonata con la mia amica, mi sono costretta a raccogliere da terra i pezzi di carta, cercando in ogni modo, grazie all'utilizzo di scotch in quantità industriali, di ricomporla, come un puzzle.
Sono scesa, sospirando, mostrando la lettera alla mamma, che, avendo capito che stavo per accettare la proposta, mi ha abbracciata con forza, entusiasta come non mai.
«Sono fiera di te», mi ha detto, e questo è servito per alleviare leggermente la tensione.
Ed ora eccomi qua, a porgere ad una signora acida, che mi squadra da capo a piedi sistemandosi gli occhiali sul naso aquilino, ciò che rimane di una lettera palesemente distrutta, tenuta insieme solamente dal mio caro amico nastro adesivo.
«In palestra...», mi avvisa lei, indicando, con la sua mano rugosa, un punto in fondo al corridoio.
La ringrazio, dando l'ultima occhiata alle dita, callose, più terrificanti che io abbia mai visto.
In un'altra occasione le avrei sinceramente consigliato una manicure da una buona estetista, ma non ero nelle condizioni di parlare, dal momento che ho passato tre interi giorni della mia vita ad essere riluttante su ogni cosa, persino sul voler entrare in doccia.
Non finirà bene, penso tra me e me, ricordandomi che passerò il capodanno a sgobbare in una palestra, mentre tutti gli altri balleranno e si scateneranno sotto il mio naso, come per deridermi. Non che l'avrei passato in modi migliori: sarei stata a casa, ad ingurgitare patatine di ogni genere, e al fatidico momento, al termine del mio solitario count-down, avrei brindato a me stessa con una generosa sorsata di Coca-Cola, per poi riprendere con la visione della mia serie TV.
Fortunatamente, Sheyla, una volta comunicatale la mia decisione di partecipare, si è offerta di venirmi a trovare. Ricordo di come debba sentirsi, ora che non ha più Travis, al suo fianco.
Quello stramaledetto idiota, penso, prima di varcare la porta in vetro della palestra.
Quello che mi trovo davanti, penso possa definirsi puro caos.
Personcine vestite di nero che, in equilibrio su una scaletta, cercando di posizionare gli addobbi floreali sulle pareti, personcine vestite di nero che spazzano per terra, personcine vestite di nero che gonfiano dei palloncini, e infine, personcine vestite di nero che sistemano imponenti tavoli di qua e di là.
Vengo accolta dal preside Forks, che, con un sorrisetto imbarazzato, mi porge dei panni, neri ovviamente.
«Sapevo sarebbe venuta, signorina Allen...», mi sorride, indicando, poi, una porticina proprio dietro di me. «Per di là, per lo spogliatoio.»
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Ehilà carissimi,
eccomi qui con un altro capitolo, dal punto di vista della nostra Anthea, per stavolta.
Che ne dite? Fatemi sapere cosa pensate succederà nel prossimo. :D
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