Capitolo 41

Dei sussurri provenienti al di là della porta, mi costringono a svegliarmi. 
 «Non si sente molto bene, al momento. Penso stia dormendo...». La voce della mamma è chiara, tuttavia non mi è possibile decifrare il destinatario delle sue parole.
In un attimo, un fioco bagliore di speranza si accende in me. 
Che sia Ian? Ma certo, ora entra e mi dice che è stato uno dei suoi pessimi giochetti, che tra noi non è finito proprio nulla, nè tanto meno cominciato, che la mamma di Evelyn sta bene e che non è necessario che io mi senta in questo modo.
La porta si schiude, e io, scattante, balzo a sedere sul letto, poggiandomi con la schiena sulla testiera. Una fitta mi colpisce la testa, spietata, mentre il fazzoletto bagnato poggiato sulla mia fronte, ormai bollente quanto me, scivola giù. 
Due occhietti mortificati sbucano dall'entrata, facendomi sobbalzare: Sheyla. 
In un lampo, la mia mente, già completamente esausta, rivive uno degli avvenimenti più terrificanti dei miei lunghi diciassette anni: il tintinnio della cintura, delle viscide mani che mi sfiorano, occhi insinuanti che mi scrutano, malevoli. 
Si siede proprio accanto a me, tenendo la testa china, fin troppo silenziosa per i miei gusti. 
Non mi accorgo della presenza di un'altra figura, finchè questa non mi saluta con un flebile: 
«Ehy...», le parole sospese per aria, fino a che non alzo lo sguardo. 
Ethan, in camera mia, mentre sono costretta a letto con un febbrone da spavento, mi guarda con una certa compassione, in preda ad un attacco di nervi. 
Si gratta la nuca, agitato, mentre i suoi oceanici occhi blu sembrano non avere alcuna intenzione di incrociare i miei.
E' Sheyla ad interrompere i nostri silenzi imbarazzati. 
«Abbiamo pensato di venirti a trovare, dopo che...», inizia, ma si interrompe autonomamente, come se avesse captato il mio disagio nel dover richiamare alla mente avvenimenti tanto infidi. 

Annuisco, fissando il vuoto. La testa ancora appesantita, i fremiti che sconquassano il mio corpo debole. 
«Come... Come stai?», fa Ethan, ancora in piedi, di fronte alla porta, con le mani incrociate in grembo. 
Come sto... Come sto... Non ne ho idea. Non percepisco nulla, mi sento svuotata, completamente deprivata di ogni qualsiasi banale percezione. Probabilmente chiunque, al momento, potrebbe tirarmi un sonoro ceffone dritto sul viso, ma non sentirei proprio niente. Forse un leggero formicolio, ma nemmeno qualcosa di più. 
«Sto bene», mento, impassibile, nel tentativo vano di accennare ad un mezzo sorrisino di sbieco. 
I limpidi occhietti di Sheyla si riempiono di goccioline salate, e so per certo che sta tentando in ogni modo di trattenersi, intimorita dal fatto che potrei esplodere assieme a lei. 
Quello che non sa, tuttavia, è che nei giorni precedenti ho esaurito le lacrime, e nonostante io mi stia deteriorando dentro, la pellicola esterna che riveste la mia figura, non potrà più essere lesa, non più di quanto già sia, per lo meno. 
«Io non avevo idea che fosse una persona del genere... Mi disp...», tenta di avviarsi lei, ma stavolta ad interromperla sono proprio io. 
 «Dispiace a me, Sheyla, tu non c'entri.», mi esce, prima di un sospiro profondo, tentando, dolorante, di avvicinarmi il più possibile a lei, per cercare di stringerla in un'instabile stretta, speranzosa sul fatto di poterla, in qualche modo, rassicurare. 
Nel giro di un paio di giorni, si è vista trasformare sotto i suoi stessi occhi, il ragazzo per cui stravedeva, per cui avrebbe fatto di tutto, per il quale le scoppiava il cuore, e capisco, all'istante, che le nostre situazioni non sono poi tanto diverse. 
«Maledetto...», sussurra, come incitamento a sè stessa per capacitarsi una volta per tutte di quanto accaduto. Con la coda dell'occhio scorgo Ethan, che finalmente mi osserva, mordendosi il labbro inferiore. 
Sheyla si stacca, e solo ora noto il suo volto paonazzo, proprio come il mio qualche ora prima, e le lacrime salate che le fluiscono giù per le guance leggermente incavate. 
«Io... io vado a prendere una boccata d'aria», riesce a farsi scappare, dopo un respiro profondo. «Torno subito...»
Annuisco sinceramente, lasciandole la mano, che stringevo fino al secondo prima. 
Non appena chiude la porta dietro di lei, nella stanza cala un silenzio di tomba, e il disagio sembra impossessarsi, lentamente, di ogni singolo angolo, di ogni singolo centimetro di questa dannata camera da letto. 
Ethan, però, sembra deciso a combatterlo, poichè, lentamente, mi si avvicina, recuperando il fazzoletto, e cercando di farlo stare in equilibrio sulla mia fronte, leggermente meno rovente, ma comunque sia ancora tiepida, spossata.
«Grazie...», mi esce senza averci prima pensato su. Tuttavia, non riesco, io stessa, a capire a cosa mi stia riferendo: se al soccorso del giorno precedente, o se al gesto attuale, del fazzoletto. Probabilmente ad entrambi. 
«Non c'è di che», ribatte, avvicinando la sedia della scrivania vicino al mio letto, e accomodandocisi sopra, a braccia conserte. Lo scruto per tutto il tempo che mi è concesso, intenta nello scoprire cosa stia dietro il suo faccino. 
So per certo che è dispiaciuto, ma potrei mettere la mano sul fuoco sul fatto che sia, definitivamente, cambiato? 
Sembra leggermi nel pensiero, dal momento che, con gli occhi bassi, sussurra: «Non sono più quello di una volta, Anthea...». Le sue parole rimbombano nelle orecchie, come colpite da una serie di aghetti appuntiti. «Non mi stancherò mai di ripetertelo. Non ho mai avuto strane intenzioni con te... Non potrei.»
Alzo gli occhi nei suoi. Devo esaminarli per bene, dal momento che sono sicura al cento per cento, che gli occhi non mentano mai. I suoi, nello stesso momento, sembrano accettare la sfida, poichè si scontrano con i miei. 
Li riconosco: gli occhi più blu in cui io sia mai incappata, con delle screziature sui toni del celeste, bensì altre ancora più scure, prima di imbattersi nel nero sferico della sua pupilla. 
Sono occhi magnetici, certo, ma al tempo stesso limpidi, trasparenti. 
Trasparenti... proprio la parola che cercavo. Mi auguro che il ragazzotto che mi trovo di fronte, che, preoccupato, mi poggia un fazzoletto bagnato sulla fronte, che mi soccorre durante un'atto di molestia improvvisa, che è sempre pronto ad ascoltarmi, sia diventato esattamente come i suoi occhi. Io, non so per quale assurdo motivo, penso di credergli.
«Devi parlarle, chiederle scusa.», gli spiego, prima di distogliere lo sguardo, mentre il suo si fa via via più interrogativo. 
«Parlare? Parlare a chi?», mi domanda lui in un soffio.
Torno per un attimo a concentrarmi su di lui, in modo che prenda bene in considerazione le mie parole. 
«A Megan.», rispondo, decisa. 
Le pupille gli si dilatano, prima di restringersi poco dopo. Annuisce, conscio, probabilmente, del fatto che sia la cosa migliore da fare. 







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