Capitolo ventiquattro

«Ti va un'altra partita?», chiede mio fratello buttandosi sul divano accanto a me.

Stringo la cioccolata calda tra le mani e scuoto la testa.

«Abbiamo giocato cinque volte di fila, Elliott», gli lancio un'occhiata eloquente.

«Non ci vediamo quasi mai», mette il broncio e sento una fitta al petto. «Pensavo che sarebbe stato più divertente! Sei sempre arrabbiata», ribatte astioso e si alza, andando via.

Mia zia è appoggiata al muro e mi sta guardando con occhi colmi di rammarico.

«Non so cosa ti sia successo, ma Elliott ha ragione», sospira e viene a sedersi sul tavolino davanti a me.

«Lo so! Non ne combino una giusta ultimamente», poso la tazza sul tavolino e mi prendo la testa tra le mani, esasperata.

«E non ne vuoi parlare?», i suoi occhi mi guardano speranzosi.

«Mi sono comportata come i miei genitori. E questo non me lo perdonerò mai», premo i polpastrelli sulle palpebre, impedendo alle lacrime di scorrere sulle mie guance.

«Sai, Kendra, quando ero giovane, anche io ho fatto tanti sbagli. Amavo emulare il comportamento di tua madre. Ai miei occhi appariva determinata, austera e potente. Io invece ero debole e patetica, odiavo tutto di me. Poi ho conosciuto tuo zio e le cose sono cambiate. Non devi modellare la tua personalità in base agli altri», mi sposta le mani dalla faccia. «Ho sempre ammirato la tua tenacia e la tua voglia di allontanarti da quella famiglia. E io ti capisco bene, ecco perché ho accettato di prendermi cura di Elliott. Però non potrò farlo all'infinito e io voglio assicurarmi che tu continui a combattere, non soltanto per la tua vita, ma anche per il futuro di Elliott».

E ancora una volta, sento che il mondo sta per comprimermi.

«Mi sono presa cura di tutti e alla fine ho rinunciato a me stessa», sussurro, abbassando lo sguardo. «E sì, nemmeno io mi riconosco più. A volte vorrei semplicemente cambiare paese e iniziare da zero».

«Ma i problemi non spariranno magicamente. All'inizio ti sembrerà di non averne più e ti sentirai libera, ma in realtà ti si riverseranno addosso con più forza di prima. I problemi non hanno coscienza, tesoro, a loro non importa quanto lontano tu riuscirai a scappare, ti seguiranno e ti daranno il tormento ancora», mi accarezza dolcemente il dorso della mano.

«Tua madre non farà niente di male, te lo posso assicurare. Dovrà prima passare sul mio cadavere. Pensa al tuo futuro, quando sarai abbastanza stabile sui tuoi piedi, noi saremo qui ad aspettarti», il suo palmo si posa sulla mia guancia bagnata e io chiudo gli occhi.

«Grazie di esistere, zia», bisbiglio trattenendo un singhiozzo. Mi alzo in piedi. «Vado a chiedere scusa a Elliott».

«Sii clemente, è un bambino ancora».

 Mi dirigo a passo felpato verso la sua stanza e busso alla porta.

«Vattene», dice con voce spezzata.

Appoggio la fronte contro la porta. «Non respingermi anche tu. Per favore», gli dico con un filo di voce.

Segue un breve silenzio, poi la porta si apre e mi guarda con espressione ferita.

«Chi altro ti ha respinto?», chiede ed entro nella sua stanza, chiudendo la porta dietro di me. Mi siedo sul letto, accanto al libro di Percy Jackson, che ha lasciato aperto. Stava continuando la lettura.

«Ti piace?», gli chiedo, indicando con il mento il libro.

«Sì, ma non cambiare argomento», incrocia le braccia al petto con fare offeso.

Si siede accanto a me e appoggio la testa contro la sua. «Tua sorella ha combinato un enorme disastro. Ho perso il lavoro. Ho perso il ragazzo di cui ero innamorata. La mia migliore non mi parla. Martha continua a rovinarmi la vita con la sua esistenza su questo pianeta. Devo continuare?», domando con un sospiro.

Elliott mi guarda senza battere ciglio.

«Sai, forse dovremmo davvero farci un'altra partita alla play».

Ridacchio.

«Penso tu abbia ragione», gli arruffo i capelli.

«Vedrai che Eileen si rifarà viva. Un giorno ti innamorerai di nuovo, anche io l'ho fatto. Fino ad una settimana fa mi piaceva una bambina di un'altra classe e adesso mi piace la mia compagna di banco», fa spallucce. «Non penso sia un grande affare. Basta volgere la testa dall'altra parte e vedrai cose che forse fino a poco fa non avevi mai notato», sorride.

«Come sei saggio», gli tiro una guancia. «Da chi hai preso?»

«Probabilmente da te. Mi hai trasmesso solo cose belle, tra cui l’amore per i libri. Sei mia sorella, la mia migliore amica e mi fai anche da mamma insieme alla zia. Tu sei speciale, Ken. E nessuno può dire il contrario, nemmeno tu», mi prende il viso tra le mani e mi regala un sorriso puro e genuino. Crollo davanti a lui e mi aggrappo come se fosse davvero la mia unica salvezza in mezzo ad un oceano pieno di squali.  

«Non lo sono», affermo con voce tremante. La sua piccola mano mi accarezza i capelli.

«Lo sei, altrimenti non faresti di tutto per farmi vivere bene», la sua risposta mi stritola lo stomaco.

«Ti voglio bene, ometto», lo stringo più forte a me.

«Io te ne voglio di più, Ken. Quando sarò grande e avrò un lavoro, vivremo in una casa bella a due piani, e avremo una grande libreria, un salotto spazioso e luminoso e un angolo lettura. E poi, ti prometto che nei momenti tristi ti preparerò i pancakes, esattamente come tu fai con me. E ti renderò così fiero che sparirà ogni briciolo di tristezza dal tuo viso. So che ti lamenti spesso di non avere più sogni, ma io ne fabbricherò di nuovi e li appenderò lassù nel cielo, magari di notte li guarderai e sognerai di nuovo di realizzarli. Tu sei la mia roccia, Kenny», appoggia la testa sul mio petto e io continuo a piangere, affondando il naso tra i suoi capelli biondi mentre trattengo a stento i singhiozzi.

«Dio, sei proprio saggio», gli tiro dolcemente una guancia, facendolo ridere. Mi asciugo le lacrime e gli sorrido fiera.

«Grazie di essere venuta. Come ti senti ora?», appoggia la mano sulla mia fronte.

«Adesso sto bene», accenno un sorriso debole.

«Bene, rimetti l'armatura, Annabeth! Affronteremo tutto come una vera squadra», mi fa l'occhiolino e io rido.

«Andiamo, domani mattina dovrò tornare a casa mia. Inizierò a cercare un nuovo lavoro», dico con aria determinata.

«Se fossi una semidea, saresti figlia di Atena», chiude il libro e mi fa cenno di seguirlo.

Elliott è la ragione per cui dovrò rimboccarmi le mani.

Proverò a regalargli una vita degna di essere vissuta. Lui non dovrà conoscere questo tipo di dolore. Non dovrà conoscere il sapore dell’addio e nemmeno quello del rimorso.




Alla fine il saluto di Elliott è stato una minaccia.

«Se non alzi il culo e ti dai da fare, ti spedirò agli inferi», mi ha detto prima di partire.

Adesso sono di nuovo nel mio appartamento freddo e smorto. Perfino l'aria è diventata irrespirabile qui dentro. Aveva ragione Kenneth, non posso vivere in un posto simile, ma non importa.

Apro la finestra per far cambiare l'aria e inizio a mettere in ordine.

Vado in cucina e getto tutte le bottiglie di vino vuote nel bidone della spazzatura, poi afferro quelle piene dalla dispensa e le verso nel lavandino.

Porto giù la spazzatura, poi torno nel mio appartamento e raccolgo gli indumenti lasciati sparsi per terra.

Dio, che disastro!

Qualche ora più tardi, il mio appartamento splende di nuovo.

Non è accogliente come vorrei, ma non posso fare di certo miracoli. Chiudo la finestra, prendo il cellulare e inizio a cercare un posto di lavoro.

Mando il mio curriculum ad un paio di agenzie; non mi tocca che aspettare una loro risposta.

Cercherò di essere meno impacciata, più sicura di me, meno ridicola, più con i piedi per terra, più determinata.

Apro l'email della testata giornalistica a cui ho venduto la notizia su Kenneth e finisco di leggerla. Oltre al compenso, hanno apprezzato il mio articolo e vorrebbero offrirmi un posto di lavoro. Ma non posso accettare, sarebbe davvero da ipocriti accettare. Sarebbe come rigirare ancora il coltello all’interno della ferita.

Qualcuno bussa alla porta e vado ad aprire. Sapevo fosse Arnold. Nessuno viene a cercarmi, e mi va bene così.

Il mio vicino ha due buste natalizie strapiene tra le mani.

«Fammi entrare, mocciosa», ordina e mi faccio da parte.

«Che cosa hai portato?», gli chiedo, aggrottando le sopracciglia.

«Decorazioni natalizie, ovvio», mi lancia un'occhiata oltre la spalla.

«Sono tue?», indago.

«Le ho appena comprate. Pensavo che questo mio misero gesto ti avrebbe resa felice», posa le buste sul divano e mette le mani sui fianchi, come una madre arrabbiata.

«Non avresti dovuto, Arnold. Non puoi spendere dei soldi per me», scuoto la testa con decisione.

«Non rompere le palle, ragazza. Diamoci da fare, andiamo!», inizia a tirare fuori le decorazioni e va verso al finestra. Attacca degli adesivi in silicone sul vetro e poi lo aiuto a mettere le ghirlande sulle tende.

Accendo la tv e vado su YouTube, mettendo la prima playlist natalizia che mi capita davanti, sperando di fare resuscitare almeno un briciolo del mio spirito natalizio.

Il tempo è volato. Io e Arnold abbiamo addobbato perfino il mio piccolo albero di natale e abbiamo messo le lucine. Dopodiché ci siamo abbandonati sul divano, rapiti dalla visione del film Mamma ho perso l'aereo e abbiamo bevuto la cioccolata calda, preparata da lui.

Ho scoperto che entrambi sappiamo a memoria le battute del film.

Domani sera mangeremo la pizza e giocheremo a monopoly.

Non ho ancora deciso cosa farò a Natale, ma probabilmente lo passerò da sola nel mio appartamento oppure andrò a casa di mia zia.

«Non ho comprato la birra, hai visto? Non ti induco in tentazione», dice con sguardo fiero.

«Grazie», spingo la spalla contro la sua.

«Come stai?», mi chiede con un sorriso triste.

«Sto bene, Arnold. Però mi sembra davvero assurdo che ci sia tu qui a farmi sentire meglio», incrocio le dita delle mani e le appoggio sulle gambe.

«La tua migliore amica non ti ha ancora scritto?»

Faccio di no con la testa. «Mi ha detto di non cercarla fino a quando non sarei tornata in me. Non sto ancora alla grande, quindi evito di cercarla. Inoltre, il suo ragazzo è il fratello del mio ex capo, dunque preferisco non intromettermi e né tantomeno vederlo».

«Penso sia una scelta saggia», mi dà una pacca sulla schiena. «Sei una ragazza in gamba, Kendra. Sono sicuro che ti riprenderai subito».

Annuisco.

«Devo cambiare la serratura del mio appartamento», dico all'improvviso.

«Sì, lo so, quel mascalzone ha provato più di una volta ad irrompere qui dentro, ma l'ho mandato via a calci in culo», sorride con aria fiera.

«Hai mandato via il mio ex?», strabuzzo gli occhi.

«Certo! Non mi sfugge niente in questo posto», gonfia il petto. «Quel pollo non metterà più piede in questo posto per un bel po', anche se ti conviene cambiare comunque la serratura».

Lo guardo dubbiosa. «Che cosa hai fatto?».

«Gli ho puntato un coltello alla gola. È un metodo infallibile quando vuoi spaventare qualcuno e lui è un cagasotto», fa spallucce.

«Sei pazzo?», grido, sconvolta.

«No, semplicemente non me ne frega un cazzo delle conseguenze», sorride genuinamente e si alza in piedi. «E ogni scusa è buona per fare spaventare i pezzi di merda».

Non so se sentirmi sollevata o spaventata.

«Probabilmente ti scopava pure male, visto che non ti ho mai vista di buonumore quando eri con lui. E non urlavi mai se non quando perdevi la pazienza», si acciglia e io arrossisco. «Sentivo soltanto lui».

«Beh, io sentivo te», ribatto guardandolo male.

«Bene, mi fa piacere. Questa è la prova che perfino uno come me è meglio del tuo ex», ride e io alzo gli occhi al cielo.

«Sei incredibile!».

«Ci adoriamo a vicenda», solleva una mano per salutarmi. «Due colpetti nel muro e sarò da te», mi rammenta e annuisco.

Quando rimango di nuovo da sola, fisso le lucine natalizie e mi vengono le lacrime agli occhi. Sono passati alcuni giorni da quando Kenneth mi ha detto addio e io sto sempre peggio, anche se cerco di apparire sorridente e menefreghista. Non so nemmeno chi sto cercando di ingannare. Sono un disastro.

E sono stata una vera merda. E no, non merito il suo perdono. E nemmeno lo pretendo.

Apro Twitter con l’intento di distrarmi ma la prima notizia che vedo è su di lui.

Dio, dovrei davvero smetterla di seguire profili che parlano di libri.

Leggo il titolo dell'articolo, la sua faccia è in primo piano.

“Kenneth Harrison: avido di successo oppure semplicemente determinato? Nonostante l'ultima notizia abbia scatenato abbastanza clamore, per la K.H publishing company non ha costituito affatto un ostacolo. Il giovane imprenditore non intende fermarsi e, oltre a puntare a raggiungere sempre di più la vetta oltreoceano grazie all’inaugurazione della nuova azienda di marketing,  Il bestseller "Mai più come prima", con oltre duecento milioni di copie vendute nel mondo, diventerà a breve un film."

Chiudo l'articolo e leggo i vari commenti sotto il post.

“Quindi ha ucciso o no la sua ex?"

"I pezzi di merda trionfano sempre, che novità!"

"Quest'uomo sa come prendersi ciò che vuole e l'ha sempre dimostrato. Una notizia che non è stata nemmeno verificata, non potrà mai distruggere la sua reputazione".

"È bono, ma la sua rigidità mi ha sempre incusso timore. Secondo voi scopa abbastanza?"

"Probabilmente è stata qualche sua vecchia fiamma psicopatica ad aver provato a rovinargli la vita. Non sarebbe la prima e probabilmente non sarà l'ultima".

"I ricchi devono morire tutti. Iniziamo da lui, magari? Sono troppo schifata"

Guardo perplessa l'ultimo commento. A quanto pare c'è chi è più cattivo di me.

Senza pensarci due volte, inizio a digitare una risposta.

"Augurare la morte agli altri non è carino. Perché non sfoghi la tua frustrazione in un altro modo?"

Subito dopo mi arriva la sua risposta.

"Per caso ti ha pagato per difenderlo? Altrimenti fatti i cazzi tuoi".

Ovviamente non sa chi sono realmente. Ho messo un nome di fantasia.

"Hai mangiato pane e frustrazione a colazione? Non mi paga per difenderlo. Tu invece vieni pagata per rompere le palle agli altri?"

"Torna a spalare la merda. <3"

Ma brutta stronza!

"Ovvero te?", le chiedo.

Sento il petto in fiamme. Non avrei mai immaginato che avrei litigato con un hater di Kenneth. Diamine!

Chiudo Twitter e vado in cucina a prendere un sacchetto di patatine.

Trovo una notifica su Twitter. Qualcun altro mi ha risposto.

"Non pago nessuno per accorrere in mia difesa, puoi dormire serena, user16261712".

Per poco non mi strozzo con una patatina. È Kenneth. Ha risposto davvero a quella tizia. Iniziano a tremarmi le mani.

Vedo il piccolo numero azzurro in basso, sopra la casella dei messaggi e deglutisco.

"Grazie di aver preso le mie difese. Non avresti dovuto, però. La gente così non merita neanche di ricevere una risposta".

"Non c'è di che. È stata una vera stronza".

Inizio a mordicchiarmi le unghie dal nervoso.

"Vero, vero. Le tue risposte mi hanno fatto sorridere".

È soltanto gentile! Non montarti la testa, non sa nemmeno che sei tu.

"Mi fa piacere. Adoro la sua casa editrice. Congratulazioni per il nuovo traguardo" , decido di fare la leccaculo. Non capirà che sono io.

"Potrei dire alla mia assistente di mandarti qualche libro per sdebitarmi con te. Oppure puoi passare a ritirarli tu".

Dice sul serio? Quindi è così carino con tutte le persone o soltanto con le ragazze? E perché sono gelosa?

"No, grazie. Le auguro una buona giornata!".

"Aspetta, posso farti una domanda?".

"Mi dica".

"Tu pensi che io sia colpevole di qualcosa?"

Il mio cuore sprofonda.

"No, non lo penso. La persona che messo in giro quella voce è sicuramente una stronza qualsiasi, non darci troppo peso".

Già, mi insulto da sola! Dopotutto me lo merito, no?

La sua risposta però mi fa stringere il cuore.

"No, non è stata una stronza qualsiasi."

"Oh, chiedo scusa. Non volevo ferirla".

Mi mordo il labbro.

"Buona giornata, sconosciuta!".

Ho appena parlato con Kenneth e ho appena realizzato che sì, sta davvero male, altrimenti non avrebbe mai perso tempo a rispondere ad una sconosciuta su Twitter. Sta cercando in tutti i modi di ripulire la sua immagina, ma lo sta facendo nel modo sbagliato. Non è da lui.



La sera dopo indosso i vestiti più comodi che ho, ovvero una tuta rosa con la figura di una pantera rosa sul davanti, e le mie converse bianche e decido di andare al cinema.

Non ci vado da secoli, e so che è sbagliato e non dovrei farlo, perché i soldi finiranno a breve, ma ne ho davvero bisogno.

Raccolgo i miei capelli in una treccia e poi mi metto il cappuccio. Sembro una delinquente.

Infilo il cellulare nello zainetto e gli auricolari nelle orecchie.

Percorro  un tratto di strada a piedi e poi prendo l'autobus. Scendo davanti al cinema e attraverso la strada.

Guardo i diversi poster e mi prendo del tempo per decidere che film vedere.

Ho beccato l'unica serata in cui trasmettono di nuovo i film cult. Maledizione! A me non piacciono.

Sospiro e alla fine scelgo di vedere l'Esorcista. È da parecchio tempo che non vedo un film horror, anche se vederlo fuori casa non è il massimo. So già che mi lascerò suggestionare e mi guarderò le spalle finché non sarò di nuovo sotto il piumone al sicuro.

Entro e mi metto in fila.

Dopo circa dieci minuti tocca a me.

Il ragazzo che vende i biglietti mi sorride.

«Dai, Kenneth, piantala di fare così! Cody, diglielo!».

La voce di Kennedy mi fa gelare.

Il ragazzo davanti a me sorride spazientito. «Allora? Che film vuoi vedere?»

«I-io, io vorrei un biglietto per L'esorcista», sussurro, avvicinandomi al vetro che ci separa.

Il ragazzo aggrotta le sopracciglia e mi fissa scettico. Starà pensando che l'esorcista servirebbe a me in questo momento.

Mi sposto lentamente e scivolo dietro il bancone, mettendomi sulle ginocchia e gattonando verso di lui. «Non dire niente», sibilo. Non posso farmi vedere.

«Tutto bene?», picchietta il dito sulla tempia.

«Possiamo?», chiede un signore.

Il ragazzo continua a vendere i biglietti ai clienti, finché non sento di nuovo la voce di Kennedy: «Tre biglietti per l'Esorcista, grazie».

Mi maledico mentalmente. Se l'avessi saputo, non mi sarei di certo fatta vedere in questo posto.

«Hai visto? Ci sono anche altre persone, non devi avere paura», dice il ragazzo abbassando lo sguardo verso di me. Gli colpisco la gamba e gli faccio cenno di stare zitto.

«Dici a noi?», chiede Cody.

«No, al mio cane», risponde il ragazzo, dandomi un colpetto sulla testa. Sollevo lo sguardo e gli lancio un'occhiata torva.

Aspetto che entrino in sala e mi rialzo in piedi. «Il tuo cane? Sul serio?», digrigno i denti.

Lui si stringe nelle spalle.

«Prendo anche una porzione di popcorn», mormoro con fare seccato. Lui mi fa cenno verso l'altra ragazza che vende da bere e da mangiare.

Sospiro e dopo aver preso i popcorn, entro in sala alzando la confezione all'altezza del viso per non farmi vedere.

Mi siedo, fortunatamente, lontana da loro. In questo momento vorrei scrivere ad Eileen e raccontarle della mia ennesima figura di merda, ma non è ancora il momento.

Non ho risolto un bel niente nella mia vita e l'orgoglio mi dice di non farlo ancora. La paura che lei si possa stancare di me e che trovi un'altra amica mi distrugge dentro, ma io mi fido di lei.

A fine film, mi affretto ad uscire dalla sala, ma a quanto pare loro mi hanno preceduta.

Mi nascondo dietro ad una colonna di marmo e aspetto che vadano via.

«Non mi stancherò mai di vedere questo film», esclama Kennedy. «Anche se non mette più paura come prima. Allora, Kenneth? Tu che sei sempre un criticone, cosa ne pensi?»

«L’ho già visto non so quante volte, Kennedy. A differenza tua, una cultura ce l’ho».

«Io devo pisciare», prorompe Cody.

Rilasso le spalle contro la colonna e mando giù gli ultimi popcorn rimasti.

Cody mi passa accanto, si ferma e gira la testa verso di me. Le sue sopracciglia si sollevano lentamente verso l'alto.

Io rimango con la mano sospesa nell'aria davanti alla bocca.

«Non vi stavo seguendo», metto subito le mani davanti, mortificata.

Cody sospira e lancia un'occhiata verso il fratello, poi si avvicina a me. «Lo so, non penso tu sia arrivata davvero a questi livelli», tentenna un po’ e aggiunge: «Come stai?».

Mi stringo nelle spalle.

Lui abbassa le palpebre, rammaricato. «Non te la passi meglio di mio fratello, tranquilla. Tra un po' la notizia passerà in secondo piano, ma a lui il dolore probabilmente rimarrà impresso nella mente», ci tiene a premere le dita sulla ferita già aperta. «Perché mio fratello ama torturarsi mentalmente a volte e ti direbbe che il cuore non soffre, ma il cervello sì», accenna un piccolo sorriso.

«Mi dispiace», sussurro distogliendo lo sguardo.

«Adesso cosa farai? Voglio dire, non stai lavorando, quindi... Che piani hai?»

Il suo interesse nei miei confronti mi dà sui nervi. Perché non merito nemmeno questo.

«Me la caverò. Non preoccuparti», rispondo piccata.

«Manchi ad Eileen», mi fa sapere e sento un calore avvolgere il mio stomaco. «Ha pianto tanto».

Trattengo le lacrime.

Il ragazzo che si occupa della biglietteria esclama all'improvviso: «Allora, tutto bene adesso, tesoro?», viene verso di me e mette il braccio sulle mie spalle con fare disinvolto.

Rimango a bocca aperta.

Cody fa oscillare lo sguardo tra noi due ed esibisce un sorrisetto pieno di disgusto.

«Cody?», la voce di Kenneth è come una scossa, mi fa girare verso di lui alla velocità della luce. «Tu?», bisbiglia ferito, ma i suoi occhi si illuminano di poco.

«Allora? Ci sono problemi?», continua a chiedere il ragazzo, facendosi duro in volto. Dio, perché a me?

«E tu chi saresti?», chiede Kenneth, facendo un passo in avanti.

«Il suo ragazzo. Qualche problema?», risponde lo sconosciuto. Non mi serve il suo aiuto, vorrei dirgli.

«Più di un problema, in realtà», risponde seccato Kenneth, poi guarda me. «Sul serio?»

Vorrei dirgli che non è come sembra e che  non devo dargli alcuna spiegazione. E so che sembrerò ancora di più una a cui non frega nulla di lui, ma meglio così. Dopotutto, ci siamo detti addio.

Faccio spallucce. «La vita va avanti, no?».

Mi scrollo di dosso il braccio del mio presunto ragazzo e mi allontano.

Kenneth grida alle mie spalle, con voce pungente: «Vedo che prendere ragazzi in prestito è diventato un vizio».

Mi fermo e stringo i denti. Il suo fare provocatorio non riesco a mandarlo giù. Non cedere alle tentazioni, mi ripeto. Non ne vale la pena.

«È diventato il mio gioco preferito», pronuncio con voce gelida e gli rivolgo il mio sorriso migliore. «Ma tu non sei stato abbastanza bravo a giocare».

Kenneth scuote il capo, sorridendo sprezzante. «Sei incredibile», afferma, poi vanno via.

Rimango da sola con lo sconosciuto e lo fulmino con gli occhi. «Che problemi hai? Non avevo bisogno del tuo aiuto», incrocio le braccia al petto, stizzita.

«Beh, prima ti eri nascosta, quindi ho pensato ti stessero importunando. Scusami tanto», apre le braccia con fare esasperato.

«Va bene, grazie», brontolo guardando le mie converse. «Sei stato gentile».

«Sono Jack», allunga la mano verso la mia, ma io gli passo la confezione di popcorn ormai vuota. «Arriverà mai il giorno in cui smetterò di mettermi nei guai?», gli chiedo come se potesse capirmi. Lui batte lentamente le palpebre e io sospiro, dandogli le spalle. «Sono Kendra, comunque», mormoro andando fuori.

Rimango per un paio di secondi immobile con lo sguardo puntato verso il cielo. Sta nevicando.

«Stavi mentendo, non è così?», chiede Kenneth alle mie spalle, facendomi spaventare. Pensavo fosse andato via.

Infilo le mani dentro le tasche del giubbotto e mi giro lentamente verso di lui. Dio, perché dev’essere sempre così bello?

«Non penso siano affari tuoi», rispondo fredda. Inizio ad incamminarmi verso la fermata dell'autobus, Kenneth mi segue.

«Dov'è la tua macchina?», chiede.

«Sono rimasta senza», confesso con una punta di vergogna nella voce.

«Come farai a tornare a casa?», continua a chiedere.

«Con l'autobus e poi userò le mie bellissime gambe».

«Camminerai al freddo e al buio da sola? Sul serio? Posso chiamare un Uber se vuoi».

Arresto la mia camminata, lo guardo oltre la spalla. «Non morirò, te lo assicuro. E non ho bisogno del tuo aiuto».

«Lo so. Lo avrei fatto anche per uno sconosciuto, non ritenerti speciale adesso», ci tiene a specificarlo, spezzandomi brutalmente il cuore ancora di più.

Non posso piangere adesso, quindi cerco di mantenere la maschera da dura sul volto. «Non mi sono mai sentita speciale, credo. Forse all'inizio, ma poi ho capito che tra me e gli altri non c’è alcuna differenza.»

«Non è così», si contraddice da solo. Alzo gli occhi al cielo e scuoto la testa. Non è per niente bravo a mentire.

Mi giro verso di lui, la neve continua a cadere su di noi.

«Che cosa vuoi, Kenneth? Sono giorni che non ci vediamo. Mi hai detto addio. Quindi perché mi stai seguendo come un maniaco?»

Lui sorride per una frazione di secondo. «Perché non voglio che torni a casa da sola».

«E invece lo farò, perché io sono sola. Stammi bene», continuo a camminare verso la fermata, lui non mi segue più e io non mi giro per cercarlo con lo sguardo. Mi asciugo una lacrima all’angolo dell’occhio e tiro su con il naso. Ce la puoi fare, Kendra. Questo incubo finirà a breve.

Quando scendo dall'autobus, infilo gli auricolari nelle orecchie e cammino verso casa.

Con la coda dell'occhio noto un cane randagio che mi sta seguendo. Inizia a correre e salta sulla mia gamba, facendomi ridere.

Mi tolgo una cuffietta e mi abbasso sulle ginocchia.

«Ciao, bellissimo», gli accarezzo la testolina. «Sei solo anche tu?»

Lui solleva le zampette e le posa sulle mie gambe. Tira fuori la lingua, sembra quasi che mi stia sorridendo. «Da quanto tempo non mangi, eh? Non hai freddo?», gli faccio i grattini sotto il mento.

Mi alzo in piedi e continuo a camminare, ma lui non intende mollarmi.

Mi fermo di nuovo e guardo il parchetto vicino casa. Cambio direzione, il cane mi segue. Inizia a rotolarsi sul tappeto di neve e saltella come se volesse mangiare i fiocchi che danzano nell’aria.

Con le dita arrossate per il freddo, faccio una palla di neve e la lancio a qualche metro di distanza. Il cane corre come se volesse azzannarla e io rido.

Rimango qui per un paio di minuti a giocare con il cane.

Con la coda dell'occhio noto una macchina nera parcheggiata vicino al parco, ha i fanali accesi.

Il cane mi salta addosso, facendomi scivolare. Inizia a leccarmi la faccia e io continuo a ridere.

«Non posso tenerti con me», gli dico con voce triste. «Non posso permettermelo».

Mi alzo e mi pulisco i vestiti, poi mi dirigo finalmente verso il mio appartamento. Il cane resta fuori dal cancello e il mio cuore si spezza in mille pezzi. Ma non posso permettere che lui si abitui a me.

La macchina nera è ancora ferma lì e io mi acciglio. Sarà meglio rientrare.

«Buonanotte, bello», gli faccio ciao con la mano. Magari è scappato e la sua padroncina lo sta cercando...

 Salgo le scale ed entro nel mio appartamento. Mi tolgo il giubbotto e lo lancio sul divano.

I sensi di colpa mi divorano.

A malapena riesco a prendermi cura di me, non posso permettermi di adottare un cane.

Mi prendo la testa tra le mani e rifletto per un po’.

«Fanculo!», dico, scendendo di nuovo giù. Il cane non c'è, il cancello è chiuso.

«Ehi, cagnolino! Dove sei?», grido uscendo in strada.

Del cane non c'è neanche l'ombra.

Sarà scappato. La prossima volta seguirò l'istinto.




Qualche giorno dopo, mentre sgranocchio una manciata di patatine ed esploro la mia timeline su Twitter, per poco non mi strozzo quando vedo nei suggeriti il tweet di Kenneth.

“È un trovatello, ed è incredibilmente affettuoso".

Sotto c'è una foto. È il mio cane. Non proprio mio, ma l'ho trovata per prima.

Non ci penso due volte a prendere il cappotto e le chiavi e correre verso la fermata dell'autobus.

Sì, probabilmente mi manderà via con un calcio nel sedere, ma quel cane è mio. Deve essere mio.

Ha scelto me.

E poi, perché metterlo su Twitter? Dio, non è nemmeno un tipo così social!

Quando arrivo davanti a casa sua, stringo i pugni e premo suo pulsante del citofono.

Mi infilo il cappuccio della felpa e batto i denti per colpa del freddo. Il cancello si apre e attraverso il piccolo cortile, salendo di corsa i pochi gradini. La porta si spalanca e Kenneth mi accoglie con le braccia strette al petto e uno sguardo per niente sorpreso. È in pigiama. Kenneth Harrison è in pigiama.

«Ciao», dico con il fiatone.

«Collins», lo dice a mo' di saluto.

«Sono venuta a riprendermi il cane», affermo con tono deciso.

Lui mi guarda con aria confusa. «Quale cane?»

«Il cane che hai trovato. È mio».

Lui si impone ancora di più. «Non penso proprio. Mi sto prendendo cura di lui, vuol dire che adesso è mio».

Ci rimango male.

«L'ho trovato per prima», dico inviperita. «Era con me l’ultima volta. Come hai fatto a trovarlo?»

Kenneth apre la bocca per dire qualcosa, ma il cane gli passa tra le gambe scodinzolando e viene verso di me.

«Ciao, bello», gli accarezzo la testa. «Ti ricordi di me?»

«A quanto pare sì», risponde Kenneth.

Mi siedo sul gradino e il cane mi salta sulla schiena e inizia a leccarmi la guancia.

«Dio, mi vuole davvero bene», rido.

«Fa freddo, Collins. Torna a casa», la sua voce indifferente mi arriva come una pugnalata al cuore.

«Posso portarlo con me?», gli chiedo.

Lui scuote la testa. «Ma puoi venire a trovarlo quando vuoi».

«Devo trovarti un nome», dico al cagnolino.

«Devi?», chiede Kenneth risentito.

«Dobbiamo?», suggerisco, lui accenna un sorriso.

Dopo un breve attimo di silenzio, dice: «Vuoi bere qualcosa di caldo?»

«No, sono a posto», rispondo, anche se avrei tanta voglia di una cioccolata calda

«Come facevi a saperlo?», indica il cane con il mento.

«Twitter», rispondo senza pensarci.

«Twitter», ripete lui a bassa voce. Mi do della stupida mentalmente.

«Mi è capitata la tua foto nei suggeriti, sai non ti sto seguendo o altro. Non mi interessa quello che posti, a me interessa lui», inizio a straparlare, facendolo ridere.

Mi è mancata la sua risata. Non tutti hanno l'opportunità di sentirla. Ma io ci sono riuscita più di una volta.

«Quindi, tu e quel ragazzo... State ancora uscendo insieme?», chiede cogliendomi di sorpresa.

«Da quando ti interessa la mia vita privata?», chiedo mordace.

«Da quando abbiamo un cane in comune», fa spallucce.

«Harrison, io verrò qui per il cane, non per te. Quindi non fare domande inopportune».

«Non ricordavo fossi così-»

Gli tengo testa. «Così?»

«Cocciuta», conclude.

Arrossisco come un'adolescente che parla per la prima volta con la sua cotta.

«Sei arrossita», mi fa presente, mettendomi ancora di più in imbarazzo.

«Non è vero».

«Anche il tuo ragazzo ti fa arrossire in questo modo?»

Stringo i pugni. «Piantala».

«La smetterò quando tu smetterai di raccontare bugie».

Faccio un bel respiro. «La cosa bella del non lavorare più per te è che adesso posso mandarti tranquillamente a fanculo», gli mostro il dito medio. Mossa intelligente, Kendra! Il suo disprezzo per te non farà che aumentare in questo modo.

Kenneth fa entrare in casa il cane, poi mi guarda di nuovo con aria di superiorità, come se niente potesse scalfire la sua corazza. «Intendi venire qui ogni giorno? Vuoi scegliere un orario? Dovrei saperlo».

«Non voglio stare così tanto intorno a te», ammetto. «Magari lo vedrò nel weekend».

«Va bene».

«Brutto stronzo», mormorò mentre scendo le scale.

«Ti ho sentito», grida lui, facendomi alzare gli occhi al cielo.

Mi balena in mente il giorno del mio colloquio e sorrido. Sì, dovrei smettere di pronunciare i miei pensieri a voce alta.

Mi giro soltanto per pochi secondi e noto un piccolo sorriso danzare sulle sue labbra.

Starà pensando alla stessa cosa?


Eheh, Kenneth non ha molto le idee chiare. Come andrà a finire? Mancano pochi capitoli 🌻

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