Capitolo sei


So che è ora di svegliarsi. Lo capisco dal modo in cui le frecce dorate penetrano irruenti nella mia stanza e percuotono le mie palpebre, rubandomi il sonno.

Mi dimeno sotto il lenzuolo in twill di cotone e allungo la mano verso il cellulare, che ho lasciato sotto carica sul comodino.

Sollevo una palpebra e corrugo la fronte mentre guardo l'ora. La sensazione di sonnolenza svanisce tutt'a un tratto e mi metto bruscamente a sedere, osservando attentamente lo schermo, come se volessi convincermi di aver letto male l'ora.

Nel panico più completo, sposto velocemente le lenzuola e mi alzo dal letto, trascinandomi dietro il caricabatterie insieme al cellulare.

«Cazzo», riesco a dire, mentre la disperazione si annida dentro di me.

Sono passati cinque giorni da quando ho mandato il mio curriculum alla casa editrice. E per quattro giorni non ho fatto altro che osservare con trepidazione lo schermo del cellulare, sperando in quell'inattesa chiamata o e-mail da parte loro, che è arrivata soltanto ieri pomeriggio.

La prima volta mi sono presentata lì, bella pimpante, con il curriculum tra le mani. Per qualche strana ragione speravo che lo guardassero subito e mi assumessero nello stesso giorno. Mai più fatto errore simile.

E adesso ho il colloquio di lavoro e rischio di arrivare in ritardo.

«Porca puttana», bercio andando ad aprire immediatamente il mio armadio, alla ricerca dei vestiti che ho meticolosamente scelto e stirato ieri sera, e adesso sono pronti per essere indossati.

Prendo il cellulare e chiamo Eileen.

«Che c'è? Cosa hai combinato a quest'ora?», chiede sbadigliando.

«Il panico, ecco cosa c'è! Come devo raccogliere i capelli? Dovrei lasciarli liberi? E dovrei mettere il rossetto o mi rende tipo, hai presente, alla ricerca di un manzo da gustare?», chiedo ansiosa.

«Intanto vai a farti una doccia e cambiati. Ti richiamo tra dieci minuti.» Con il cuore a mille, corro in bagno a prepararmi.

Deduco siano passati i famosi dieci minuti, dal momento che il mio cellulare sta squillando ininterrottamente.

Appena rispondo, le dico: «Ho indossato dei pantaloni neri eleganti a zampa, una camicetta rosa con il collo a lupetto e maniche lunghe a sbuffo, e i tuoi tacchi rosa.»

«Ti videochiamo, aspetta», riattacca e subito dopo vedo la sua faccia su tutto il mio schermo. Giro la fotocamera verso lo specchio e la sento dire: «Accidenti, che schianto! Mi fa strano non vederti più con la divisa del McDonald addosso», mi sbeffeggia. Come previsto, sono stata licenziata. E se malauguratamente non riuscirò a farmi assumere adesso, finirò per vendere tutte le mie edizioni speciali dei libri che ho acquistato, per racimolare qualcosa e tirare avanti.

«Lascia i capelli sciolti, truccati in modo sobrio, non esagerare. Mettiti il rossetto, ma qualcosa che sia simile al colore delle tue labbra. Non troppo marrone altrimenti sembrerai mia nonna.»

Memorizzo attentamente i suoi consigli e restiamo in videochiamata finché non finisco di prepararmi.
«In bocca al lupo, ti voglio bene», mi manda un bacio e ricambio. Chiudo la videochiamata, dopodiché afferro la borsetta nera e le chiavi della macchina e sono pronta per partire.

Visto la macchina che possiedo, una Volkswagen Golf del 1999, dalla verniciatura verde scuro scheggiata e oramai scrostata, mi sento quasi come se la regina Elisabetta salisse a bordo di un carro trainato da buoi.

Appena salgo in macchina abbasso l'aletta parasole per controllare eventuali sbavature del rossetto, ma esce dal gancio di tenuta e penzola all'ingiù.

«Ma insomma!», con un colpo secco cerco di farla rialzare, e in qualche modo riesco a fissarla. Come iniziare bene la giornata...

Faccio un bel respiro e cerco di mantenere i nervi ben saldi. Niente potrà andare male, oggi. Niente.


Quando arrivo davanti all'edificio, parcheggio la macchia e scendo, mettendoci un po' più del dovuto a chiudere lo sportello. Sollevo lo sguardo verso il cielo profilato da una muraglia di nuvole sforacchiate da striature auree, e sorrido.

Domani sarà il primo di settembre, quindi lo prenderò come un nuovo inizio, in tutti i sensi. Deve essere così. Per forza.

Gli occhi si posano scattanti sull'insegna  K. H. Publishing company.
Un tremolio mi attraversa l'intero corpo e sono costretta ad appoggiarmi alla carrozzeria della macchina, per riprendermi.

«Ce la puoi fare, Kendra. Tu sei nata per fare questo», mi incoraggio, sollevando un pugno e muovendolo in aria.

Inizio a salire le scale con ingiustificata inerzia, e man mano che l'ingresso si fa sempre più vicino, i battiti aumentano.

«Non fare la stupida», dico a me stessa ridendo e sbatacchiando un dito davanti al viso, come se volessi rimproverarmi da sola.

Il portinaio mi fissa incerto, indeciso se farmi entrare o meno.

Sposto i capelli sulla spalla e metto su un sorriso cordiale. «Salve, sono qui per un colloquio. Mi chiamo Kendra Collins». L'uomo continua a fissarmi attonito.

Leggermente pencolante, avanzo esitante verso la porta. Il portinaio finalmente torna in sé e mi fa passare.

Oh, bene! Che la missione abbia inizio! Tom Cruise sarà fiero di me.

Mi fermo all'entrata, con la mascella che per poco non tocca terra. L'ultima volta che ho messo piede qui dentro non ho badato così tanto ai dettagli, ma adesso, osservando ogni angolo di questo posto, mi sembra di essere finita in paradiso.

Sono convinta di non aver mai visto una casa editrice così viva. Non penso ci sia aggettivo più confacente a questo posto. A parte la miriade di libri che riempiono gli scaffali, vi sono anche differenti quadri dai colori variopinti appesi al muro, e tra di loro spiccano alcune certificazioni che attirano l'attenzione. Ghermisco la ringhiera e abbasso lo sguardo, osservando diverse persone al piano terra, ognuna seduta alla propria scrivania, intente a lavorare.

Quando arrivo davanti alla segretaria, sorrido e gonfio il petto, impaziente.
«Sono qui per il colloquio», dico, lei si abbassa gli occhiali dalla montatura rossa sulla punta del naso e mi osserva dall'alto verso il basso.

All'apparenza non sembra la persona più gentile del mondo, e la forma delle sue sopracciglia mi ricorda nientemeno che Ursula, di La sirenetta. Ha perfino i capelli grigi, e no, non è vecchia, ha soltanto tanto stile. È sicuramente molto più grande di me, su questo non vi è alcun dubbio.

«Nome e cognome, prego», sorride glaciale. L'ultima volta c'era un'altra ragazza, molto più cordiale di lei.

«Kendra Collins». Mi piego verso il bancone e soggiungo: «E sarò la futura editor di questo posto».

«Sì», mormora tediata. «Come le ultime dieci che si sono presentate al colloquio e poi sono scappate», picchietta le unghie laccate di nero sulla scrivania e poi controlla l'elenco.

«Prosegua pure lungo il corridoio e bussi alla prima porta sulla destra», subito dopo aver impartito le istruzioni, risponde al telefono e all'improvviso divento invisibile per lei.

Con il cuore in gola mi appresto a raggiungere quella porta, che in questo momento appare molto lontana.

Stringo gli occhi e inizio a bussare piano, poi sempre più forte, finché una ragazza bionda, che io conosco molto bene, non mi apre.

«Tiffany?», sibilo, sorpresa. Lei spalanca gli occhi e mi fa cenno di tacere, sussurrandomi: «Se dirai anche soltanto una parola, il mio capo prenderà provvedimenti, hai capito?». Va via, stringendo un'agenda al petto, e mi lascia da sola.

«Oh, per tutti i leprechauns dell'Irlanda!», sussurro, mordendomi il labbro.

Un uomo dalla figura torreggiante è girato di schiena, con lo sguardo puntato sulla grande finestra e con il cellulare premuto contro l'orecchio.

Do un rapida occhiata nel suo ufficio e deduco sia molto ordinato, perché ogni cosa sembra al suo posto.

Il mio futuro capo non intende nemmeno salutare o girarsi verso di me per accogliermi come si deve, quindi non mi resta altra scelta che esordire con un imbarazzante: «Il mio nome è Kendra Collins, sono una brava ragazza e so leggere». Sì, proprio così! Questa è la frase straripante di stoltezza che il mio cervello decide di pronunciare davanti al capo di una tra le più importanti case editrici a livello internazionale. Ho fatto le mie ricerche.

Lo sento sbuffare mentre mi dà ancora le spalle e replica con tono algido: «Un ottimo, rimarchevole e imprescindibile dettaglio da aggiungere al suo curriculum, signorina Collins», le mie sopracciglia si congiungono. Io questa voce l'ho già sentita da qualche parte! «E cosa intende per brava ragazza?», continua a dire, chiudendo la chiamata.

«Be', ecco, per esempio, non combino mai disastri sul posto di lavoro», questa forse è una piccola bugia.

«Non dico mai bugie, riesco con un'incredibile facilità a relazionarmi con gli altri», mi gratto il dorso della mano, sentendomi lievemente colpevole.

Il capo si gira lentamente - e finalmente - verso di me e il cuore per poco non cessa di battere. Spalanco la bocca e un'ondata di stupore mi fa subissare. «Ma lei è quel patetico stronzo!», urlo.

Le sue sopracciglia si sollevano lentamente e uno strano sorriso prende vita sul suo viso. «Da oggi in poi chiamami pure Signor Kenneth, perché sarò il tuo nuovo capo», riduce gli occhi a due fessure e mi osserva con un'espressione lievemente divertita ma al contempo seria.

Ma cosa diavolo ho fatto di male per meritare questo? Ho appena dato del patetico stronzo al mio futuro capo?

«Può aprire quella finestra, per piacere?», gli chiedo con tono estremamente serio, mentre sventolo vivacemente una mano davanti al viso.

«Ha caldo?»

«No, è che vorrei defenestrarmi», rispondo con un sorriso allegro.

«Be', Kendra, mi dispiace deluderti, ma noi lavoriamo con i libri, non ci occupiamo di certo dei disturbi mentali. Questa tua improvvisa voglia di buttarti da una finestra è a dir poco allarmante», appoggia i palmi delle mani sulla scrivania e io rimango ferma, inebetita, a fissarlo come una scriteriata.

No, sta davvero pensando che io voglia suicidarmi buttandomi dalla finestra del suo ufficio? Di male in peggio.

«I-io non mi aspettavo che lei-», non riesco nemmeno a finire la frase, perché il mio imbarazzo è appena giunto alle stelle.

«Vuoi un bicchiere d'acqua?», chiede premurosamente.

Avanti, Kendra! Non essere cretina, tu hai bisogno di questo lavoro, accidenti a te!

Mi schiarisco la voce e dico: «No, la ringrazio. Sto bene».

Kenneth inizia a camminare verso di me e io sospiro profondamente non appena i miei occhi gli fanno un'immediata radiografia. Mi complimento mentalmente con lui per il bellissimo completo nero che sta indossando.

«So che sei emozionata. La tua reazione è la prova irrefutabile del tuo stato d'animo tormentato, e nonostante sia del tutto ammissibile, mi auguro che sia soltanto un breve attimo di stordimento che non si perpetuerà per il tempo che sarai qui. Sempre se aneli ancora a occupare questo posto di lavoro, ovviamente!»

La prima domanda che mi viene in mente è: ma come diamine fa? Come fa a guardarmi negli occhi con quell'espressione serafica, come se fossi una sconosciuta che incontra per la prima volta?

«Certo che lo voglio, questo lavoro! Non ho studiato per essere rimandata a casa per la seconda volta dalla stessa casa editrice», dico leggermente adirata e lui solleva lentamente un sopracciglio.

«Seconda?», chiede, confuso.

«Già. La prima volta c'era soltanto un posto libero, ma è stato occupato dalla ragazza bionda che era qui poco fa, Tiffany», spiego.

«Capisco», pronuncia, guardandomi senza battere ciglio per una manciata di secondi.

«Allora lascia che ti mostri il nostro piccolo, grande, rifugio», mi indica la porta ed esco per prima, cercando di contenere l'entusiasmo. Ho ottenuto il posto? È mio?

Mentre mi indica i vari uffici, penso già a quale sarà il mio. Oh, quanto sarebbe bello vedere la targhetta in metallo con il mio nome inciso sopra: Kendra Collins, Editor.

Un sogno che sta per diventare realtà!

Ci fermiamo davanti a quella che sembra un'area relax. Ci sono alcune chaise longue bianche e nere, le luci soffuse, alcune poltrone e un angolo bar dove si può prendere il caffè, il tè, e qualche altra cosa che adesso non riesco a tirare ad indovinare. Questo posto è magnifico!

«Abbiamo anche l'area dedicata al coaching letterario», mi fa sapere Kenneth. «Dove vengono formati al meglio gli scrittori. Ci tengo al benessere dei miei dipendenti. Ci sono giornate più stressanti di altre, quindi penso sia doveroso che ognuno abbia un angolino dove rilassarsi e riprendersi. Inoltre, punto, e non poco, alla formazione degli scrittori.»

Non riesco nemmeno a prestare abbastanza attenzione alle sue parole, perché non faccio altro che pensare al mio nuovo posto di lavoro. Sono così felice che mi sto mordendo la lingua per non urlare.

«La mia assistente ti manderà il contratto tramite email. Leggilo attentamente e decidi se firmarlo o meno.» Vorrei lanciarmi su di lui e abbracciarlo, scordarmi dell'ultima scena imbarazzante tra di noi, quando eravamo alla festa, e iniziare da zero.

«Sono troppo felice!», esulto, non riuscendo più a domare il mio entusiasmo.

«Perché finalmente non servirai più panini?», mi domanda, dandomi un'occhiata fugace.

«No! Non vedo l'ora di lavorare come editor in questo posto», appena finisco la frase lui si ferma e si gira di poco verso di me.

«Come editor?», domanda, sconcertato.

«Sì, ovviamente! Sennò cos'altro potrei fare qui?», chiedo, il sorriso allegro inizia a spegnersi lentamente.

«Oh, no, niente affatto», scuote la testa.

«Come?»

«Sarai nel comitato di lettura. Non lavorerai come editor». E con una frase sola è riuscito a smontare ogni mio sogno, ogni mia illusione. Ha fatto a pezzi la mia unica speranza e adesso lo guardo come se avessi Tiffany davanti e la volessi strangolare.

«Può ripetere?», chiedo a disagio.

«Valuterai  i manoscritti», specifica, guardandomi accigliato.

«Io... Ma perché?», azzardo a chiedere.

«Non mi sembri molto adatta a quel tipo di professione, per adesso. Sembri molto maldestra, goffa e con la testa tra le nuvole. Sei in grado di leggere un libro e valutarlo?»

Arrogante, figlio di... Aaargh!

Mi sta davvero dicendo che sono un'incompetente? Ora capisco le parole di Jacob! Diamine, è davvero insopportabile.

«Allora, Collins? Hai bisogno di questo lavoro o no? Se pensi che sia troppo difficile valutare dei libri o che i soldi cadano all'improvviso dal cielo, mi spiace deluderti, ma vivi probabilmente in una favola», pronuncia l'ultima frase, guardandomi intensamente negli occhi. Sento lo stomaco rimpicciolirsi e una fitta lancinante mi fa chiudere gli occhi per un secondo. Ho bisogno di questo lavoro. Posso farcela, posso ignorarlo e comportarmi da persona matura.

«Allora? Prendere o lasciare?», chiede, a braccia conserte.

Non ho un lavoro. E non ho altra scelta.

«Dimostrami che vuoi davvero lavorare. Ogni tua fatica verrà ripagata, un giorno», i suoi occhi verdi mi deconcentrano. Due smeraldi che vengono brutalmente scheggiati da due insulsi occhi marroni. Se gli sguardi potessero fare male, lui adesso sarebbe ricoverato in ospedale.

Dopo una lunga attesa, mormoro: «Va bene, accetto».

Prima che lui vada via, si piega verso di me e dice con voce roca: «Qui si lavora, Kendra. Non voglio sentire niente che abbia a che vedere con ciò che è successo tra di noi. Sono stato chiaro? Io sono il tuo capo. Tu sei la mia dipendente».

«Lei mi fa venire voglia di andare a buttarmi davanti alla prima macchina che passa», mi lascio sfuggire a voce alta.

«Se hai bisogno di sostegno psicologico, posso offrirti il numero di una persona molto brava in questo campo. Non ti sto deridendo, sono serio. Non voglio che tu lavori con l'umore a terra, ne tantomeno che torni a casa con la voglia di volermi strangolare», la sua ultima frase mi fa scoppiare a ridere, ma mi tappo subito dopo la bocca.

«Mi fa piacere che lo trovi divertente», continua a dire, inclinando la testa e osservandomi con curiosità.

«Senti», inizio a dire. «Cioè, senta» mi correggo. «Vale la pena svolgere questo lavoro? La paga è decente?».

«Penso tu abbia una brutta opinione su di me. Tuttavia, se sei così restia a voler accettare questo lavoro, potrei trovarti un nuovo impiego presso Burger King o KFC. A te la scelta», si stringe nelle spalle. Vorrei svellere con tutte le mie forze quel suo sorriso strafottente dal viso, ma non gli darò questa soddisfazione.

«Ho detto: va bene, accetto», ripeto, stringendo la mascella.

«Perfetto. Torna pure a casa, dirò alla mia assistente di mandarti un'email con tutti i dettagli, l'orario, la paga», solleva una mano per salutarmi e borbotto a bassa voce: «Ma chi si crede di essere!»

Kenneth si ferma e si gira con uno sguardo impenetrabile verso di me. «Il tuo nuovo capo. E se non vuoi essere licenziata già da adesso, ti consiglio di non pronunciare più i tuoi pensieri ad alta voce».

Le mie guance stanno per andare a fuoco.

«Sì, come no», sussurro, alzando gli occhi al cielo.

«Alla terza sarai fuori e non tornerai più qui dentro», dice mentre si allontana.

Rimango da sola a fissare un punto indefinito davanti a me.

«Che fallita... Lavoro per una casa editrice e sono comunque una fallita».

Ti farò vedere io, Kenneth, chi è davvero Kendra! Ti rimangerai ogni singola parola. Quel posto sarà mio. Il posto che mi spetta davvero.

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