Capitolo nove
In un mondo così vasto, le minuzie sono quelle che più mi rendono felice.
Per esempio, avere l'occasione di rimanere a casa di pomeriggio, adagiata sul divano e intenta a sgranocchiare cibo poco salutare, mentre provo finalmente a finire le innumerevoli serie tv che ho iniziato qualche mese fa, per me non è altro che una piccola soddisfazione che ho raggiunto. Avere un po' di tempo per se stessi dovrebbe essere la normalità.
«Maeve Wiley, io darei la mia vita per te», mormoro schiaffandomi in bocca una patatina.
L'effluvio pungente dei gelsomini, che ho adagiato premurosamente sul tavolo davanti al divano, si confonde con l'odore di paprika delle patatine, e arriccio il naso, provando ad annichilire la tentazione di gettare i fiori dalla finestra. Chissà cosa avevo in testa quando li ho presi.
«Otis, ho finito gli insulti per te! Ma diamine, sembri idiota come me!», grido verso lo schermo.
Sbuffo e metto in pausa, trascinandomi in cucina a fare rifornimento. Prendo una lattina di coca cola, un altro pacco di patatine e una bustina di M&M's.
Mi alzo sulle punte e afferro la scatola dei pop-corn, osservandola indecisa.
«Perché no?», dico a me stessa, poi prendo una delle confezioni e la metto nel microonde. Attendo che siano pronti e mi appoggio al balcone della cucina, guardando fuori dalla finestra. La nebbia opalescente ha quasi inghiottito la città.
Appena sento il timer, verso i popcorn in una ciotola, prendo il tutto e mi sposto di nuovo sul divano, sorridendo maliziosamente tra me e me.
Sto per premere nuovamente play, ma il trillo del cellulare mi distrae.
Leggo spiacevolmente il nome di mia madre sullo schermo e per poco non mi strozzo con i popcorn.
Videochiamata. Perché una videochiamata?
Mi passo velocemente una mano tra i capelli disordinati, cercando di sistemarli, e poi afferro il cellulare con poca delicatezza e rispondo.
«Mamma!», dico con finto entusiasmo.
Sullo schermo del cellulare appare all'improvviso soltanto il suo naso, con le narici ben puntate verso la fotocamera.
«Ma perché non ti vedo?», chiede.
«Mamma... Grazie per la deliziosa immagine del tuo naso in primo piano», commento sarcastica.
Mia madre si tira indietro e cerca di tenere bene il cellulare con una mano, mentre con l'altra prova a sistemarsi meglio gli occhiali sul naso. I capelli biondi sono raccolti in una coda ordinata e la sua espressione indagatrice riesce a rendermi nervosa anche attraverso un semplice schermo. Si acciglia durante l'incontro dirompente dei nostri sguardi.
«Kendra, figlia mia, ma che cosa hai addosso?», domanda, gli angoli della bocca si piegano lievemente all'ingiù mettendo in evidenza ancora di più la sua delusione, e abbasso lo sguardo sulla maglietta con la stampa di Topolino in versione bianco e nera mentre è impegnato a ficcarsi due dita negli occhi, e leggo per l'ennesima volta la scritta grande "Kill me" sul petto.
«È... È un regalo», mi ritrovo a mentire per la millesima volta. In realtà è una maglietta oversize che ho trovato scontata da Primark. Era perfino l'unica rimasta.
«Cosa stai facendo?», spinge la testa verso lo schermo, come se potesse vedermi meglio.
«Stavo lavorando», invento, sorridendo freddamente e allungando la mano nel frattempo verso il mio personal computer, che Eileen ha lasciato sul tavolo, accanto al mazzo di fiori.
Ogni volta che passa da me e non vuole guardare le serie TV che guardo io, usa il mio computer.
«Ah, sì? E tu lavori conciata così? Ma chi pensi di prendere in giro, Kendra?», mi rimprovera aspramente. Con lo sguardo puntato sullo schermo e un sorriso imbarazzato a dipingermi il volto, provo a premere qualche pulsante a caso sulla tastiera del computer, per accenderlo, dato che Eileen l'ha lasciato in standby.
«No, mamma, lo giuro! Sto davvero lavorando, guarda!», con un'espressione contenta giro il cellulare verso il laptop, ma sento mia madre urlare.
Rimango immobile a fissare la pagina porno ancora aperta, che Eileen probabilmente non ha chiuso.
«Oddio, no! Non pensare male, non sono stata io», tento di giustificarmi, mentre il calore inizia a diramarsi dalle gote fino alle orecchie e al collo.
«È questo il tipo di lavoro che stai facendo, Kendra Josephine Collins?», sbraita dall'altra parte. «Stai registrando video porno? Mia figlia è diventata una sgualdrina?»
«Mamma, no... È una di quelle pubblicità indesiderate che spuntano sullo schermo quando meno te lo aspetti. Hai presente quando guardi qualche film in modo illegale su internet?», le chiedo, sperando di riuscire a farla ragionare, ma lei scuote la testa con disappunto.
«Ti sei data anche all'illegalità, adesso?», la sua espressione è sempre più disgustata.
«N-no», balbetto, guardandola mortificata. Inizia ad attaccare di nuovo con uno dei suoi discorsi intrisi di indignazione e scoramento, facendomi sentire come se fossi l'essere più inutile dell'intero universo.
«Io non voglio crederci. Kendra, se fossi realmente fidanzata, non sentiresti il bisogno fisico di guardare quella robaccia, né tantomeno di praticarla! Il tuo fidanzato dorme, per caso?», il suo sguardo tagliente mi mette paura.
«Ma non stavo facendo... Cose», abbasso la voce, non riuscendo più a guardarla in faccia.
«È assurdo! Per la millesima volta dimostri di essere una delusione, santo cielo! Stai tradendo il tuo ragazzo con quei video osceni. Adesso riesco a comprendere meglio il dispiacere di Cole.»
«Non tutto gira intorno a Cole...», borbotto inespressiva.
«Io verrò a Londra, signorina! Devo controllarti con i miei occhi. Non ti ho pagato gli studi per ritrovarmi una sgualdrina in casa», stringe le labbra e mi osserva come se volesse incenerirmi.
«Non sono una sgualdrina», sussurro, abbassando lo sguardo. «Stavo davvero lavorando.»
«Adesso basta con le bugie! La professione da bugiardo è atavica nella nostra famiglia. Hai preso da tuo nonno, oh quel grande menzognero!», continua a marcare in modo vigoroso il suo disprezzo nei miei confronti me.
«Va bene, hai ragione! A volte dico le bugie, e se proprio ci tieni a sapere la verità, tra me e Cole al momento va di merda! Va bene? E sì, mamma, sto cercando di conoscere gente nuova, di uscire di casa e socializzare, perché non voglio diventare pazza come te! E per la cronaca, il ragazzo che sto frequentando ha un nome: si chiama Kenneth e sei pregata di toglierti dalla testa il nome di quel coglione di Cole!», butto fuori con rabbia e soltanto pochi secondi dopo realizzo ciò che ho appena detto.
Lei è rimasta in silenzio, lo sguardo duro e la mascella stretta. «Bene, bene. Niente può impedirmi di farti visita, e voglio proprio vedere chi frequenti. Magari ti insegnerò a mettere dei limiti a questa tua schifosa vita», chiude la videochiamata e in un impeto di rabbia getto via il pacco di patatine e grido.
«Vaffanculo», rido guardando lo schermo spento. «Davvero, vaffanculo mamma», scivolo giù dal divano e mi prendo la testa tra le mani, scoppiando in un pianto orribile.
Rivoli di sudore scendono sulla mia schiena, le tempie mi pulsano dalla rabbia.
Spengo anche la tv, prendo il computer e vado nella mia stanza, sbattendo la porta alle mie spalle. Continuerò a leggere i manoscritti, mi porterò avanti con il lavoro a costo di chiudermi fuori da questa miserabile realtà, smettendo di pensare a mia madre e al suo odio nei miei confronti.
Anche se mi impegnassi con tutte le mie forze ad essere la figlia modello che ha sempre desiderato, in realtà non smetterà mai di calpestarmi. D'altronde, continua a farlo sin da quando ero bambina.
Non sarò mai all'altezza, perché lei le altezze le aumenta sempre di più ogni volta che sto per raggiungere un traguardo.
Piove.
La pioggia cade così violentemente, come se fosse fiera di essersi impossessata del cielo; come se sfidasse le persone a provare a scacciarla via, imperiosa e irrefrenabile. E io non posso fare a meno di detestare ogni singola goccia che si schianta sul suolo.
Mancava soltanto lei a rendere cinereo l'inizio di questa giornata.
Non mi spiego il motivo per cui abbia dato adito ad una simile idea stupida, ovvero quella di non aprire l'ombrello nel breve tragitto tra casa mia e la macchina posteggiata davanti. Adesso, non solo i miei capelli mi donano l'aspetto di un cane bagnato, ma sto anche tremando per colpa del freddo.
Guido con l'umore a terra finché non arrivo al lavoro. Cerco di aumentare il passo, rischiando anche di scivolare sulle scale, e il portiere si fa subito da parte, guardandomi in modo preoccupante. Penso si sia abituato alla mia presenza poco gradevole in questo posto.
Esiste qualcuno più sfigato di me?
Sfioro con le dita le ciocche bagnate e cerco di tenere sotto controllo l'ira che si diffonde prepotentemente in tutto il corpo.
«Poverina... Esistono gli ombrelli», commenta Tiffany alle mie spalle e mi giro, pronta a sbraitarle contro, ma dietro di lei intravedo la figura torreggiante di Kenneth. Sta venendo verso di noi.
Mi mordo il labbro, impedendo alle mie parole furiose di uscire fuori.
«Smettila di guardarlo. Lui non ti calcola minimamente e non lo farà mai», il veleno nelle sue parole mi scivola addosso, ma in qualche modo il suo disprezzo nei miei confronti mi riporta impetuosamente nella mente il discorso tra me e mia madre.
Do le spalle ad entrambi e proseguo verso il comitato di lettura con una camminata decisa e i pugni stretti lungo i fianchi.
«Buongiorno, Kendra», la voce di Kenneth è come un cubetto di ghiaccio che mi scivola sulla pelle.
«Buongiorno», rispondo, girandomi per un breve istante.
«Qualcuno sembra di cattivo umore», constata in tono divertito.
«Può capitare a tutti», ridacchia Tiffany e mi fermo di colpo, bloccando il loro passaggio.
Mi giro come un fulmine, ma quando sono sul punto di fare uscire dalla bocca un marea di parole poco carine, Kenneth mi anticipa: «Al lavoro! Non perdetevi in chiacchiere inutili.» Il suo sguardo si sofferma per pochi secondi su di me, come se volesse ammonirmi in silenzio, e stringo le labbra, non proferendo più parola. Gli occhi scivolano languidamente sul suo abbigliamento, meno formale degli altri giorni, ma rimango comunque piacevolmente sorpresa. Oggi ha optato per il look total black, e io sto quasi per sospirare davanti a questa sua avvenenza. Indossa un cappotto nero che gli arriva sopra il ginocchio, una camicia ad evidenziargli il petto ampio e l'addome piatto, un paio di jeans a fasciare le sue gambe toniche e un paio di anfibi ai piedi.
Supera entrambe, con il solito portamento elegante e deciso, e vorrei tirarmi un altro schiaffo in faccia, perché ho un enorme debole per gli uomini che indossano i cappotti lunghi e neri, ma non posso permettermi di fare simili pensieri sul mio capo.
«Hai sentito? Lavora!», sibila Tiffany al mio orecchio e trattengo la voglia di spingerla oltre la ringhiera, facendole perdere accidentalmente l'equilibrio.
Passo accanto alla segretaria, che anche oggi mi guarda come se fosse sorpresa di vedermi qui, e mi fermo soltanto per dirle: «Si metta l'anima in pace! Sono stata assunta.»
Lei batte piano le palpebre, ma non dice niente.
Kenneth è davanti alla porta del suo ufficio e ha lo sguardo puntato su di me. Mi sta studiando da lontano, come se volesse dirmi qualcosa.
Ma lo scopo precipuo della mia presenza qui, è quello di non farmi licenziare sin da subito, quindi sorrido e faccio un passo in avanti, ma vedo alcuni dipendenti assieparsi curiosi, cercando di captare qualche dettaglio in più del nostro scambio di sguardi.
Cerco di non alimentare la loro curiosità e, dopo aver salutato tutti, mi metto al lavoro.
«Buona giornata», grida Emma, sventolando una mano in aria in cenno di saluto.
«Anche a te», borbotto, poi mi tolgo il cappotto e accendo il computer.
Non voglio lasciare che le parole di mia madre mi distruggano così la giornata. Non voglio che il suo disprezzo mi faccia sentire così abbattuta. Eppure non faccio altro che torturarmi la mente da ieri sera. Ogni sua pretesa è un fardello in più che grava sulle mie spalle.
A pranzo, mentre tutti sono impegnati a satollarsi, aprendo diversi contenitori termici contenenti chissà quante prelibatezze, io rimango immobile a contare i loro bocconi. Chi è l'idiota che non ha pensato minimamente a portarsi qualcosa da mangiare da casa? Io, esattamente.
Decido di uscire fuori per non tormentarmi ulteriormente la mente e per non farmi odiare dal mio stomaco, che in questo momento sembra già abbastanza indaffarato. Il rumore che sta creando è imbarazzante.
È possibile abbandonare l'edificio per andare a mangiare fuori? Non ne ho idea e mi vergogno persino a chiederlo. Probabilmente Kenneth finirebbe per chiedermi per la seconda volta "Kendra, l'hai letto il contratto?". Mi pare perfino improbabile che abbia scritto una cosa del genere su quelle scartoffie, ma lo scoprirò solo quando ritroverò la voglia di rileggermi il contratto senza saltare le parti che reputo parecchio tediose.
Vado nell'area relax e mi consolo con del caffè, che in questo momento peggiora la situazione dentro il mio stomaco, e mi siedo su un divanetto ad osservare il soffitto.
In questo momento ho fame, ma non ho appetito. Vorrei gridare, ma non ho voglia di parlare. È incredibile quanto facciano male le parole quando pronunciate da una persona per noi importante.
Sì, le parole sono un'arma a doppio taglio, ma lo sono anche le carezze di chi dice di amarti. Finiscono per strapparti via la pelle e poi diventano improvvisamente cerotti per le tue ferite.
E lei è così brava a travestire le sue carezze da coltelli, che ogni volta abbocco alla sua falsa dolcezza, ritrovandomi infine con ferite ancora sanguinanti.
La sua sola voce sembra un frantoio di emozioni.
Evito spesso di chiamarla, perché la maggior parte delle volte non fa altro che riaprire ferocemente sempre la stessa ferita, aggiungendo indolentemente un altro strato di sale, e sparire, per tornare quando la ferita sembra sul punto di rimarginarsi.
Sospiro, il caffè rimanente è ormai diventato freddo. Per distrarmi, inizio a canticchiare mentalmente, tamburellando le dita sulla coscia.
Qualcuno si schiarisce la gola.
«È la seconda volta che ti trovo in questo posto. Ti ha, per caso, conquistata?», domanda Kenneth, appoggiandosi con la spalla alla porta di vetro.
«Un po'», rispondo, evitando il suo sguardo.
«Deduco tu abbia mangiato in fretta», so che ha intuito qualcosa. Lo capisco dal modo in cui mi sorride.
«No, in realtà non ho appetito», sussurro graffiando con le unghie i jeans.
«Non puoi lavorare a stomaco vuoto», mi rimprovera, tirando fuori il cellulare dalla tasca. «Cosa preferisci mangiare?», domanda.
«Di tutto, ma-», mi blocco non appena si porta l'iPhone all'orecchio e va via, lasciandomi da sola.
Non vorrei lasciarmi sfuggire altri pensieri a voce alta, ma so che prima o poi finirò per dargli nuovamente del maleducato.
Rimango per una manciata di minuti qui, a bere dell'altro caffè. Poi, non appena finisco, guardo l'ora sul cellulare e mi alzo per tornare alla mia scrivania.
«Kendra, vieni nel mio ufficio», dice Kenneth alle mie spalle.
«Ma è finita la pausa», protesta Tiffany, sempre appresso a lui. Nonostante sia il suo lavoro, inizio a non tollerare più la sua presenza qui.
«Lei può aspettare fuori», la zittisce e io seguo lui, leggermente impaurita. Che diavolo ho fatto adesso?
«Chiudi la porta, Kendra», ordina e alzo gli occhi al cielo. Un per favore non guasterebbe.
Mi avvicino alla sua scrivania e resto in piedi, ad osservare con finta curiosità le mie scarpe.
«Ho bisogno che tu dia un'occhiata a questo. Sono alquanto scostante oggi, e anche intrattabile. Puoi leggere a voce alta e spiegarmi come sia possibile che abbiano approvato questa trivialità?», spinge il manoscritto con poca delicatezza verso di me, contraendo la mascella e girandosi di lato, volgendo lo sguardo verso la finestra.
«Non tutti i manoscritti passano tra le mie mani. Pago la gente per un motivo, e la maggior parte del tempo è mio padre a gestire il tutto. Ma questo... questo è inconcepibile, è inaccettabile!», getta il manoscritto a terra, iracondo, e sospira profondamente, cercando di rattenere l'astio.
Mi abbasso e lo prendo tra le mani, osservando il titolo e dando una scorsa rapida a qualche paragrafo.
«Stanno... copulando in chiesa?», domando, stordita.
«Non è solo questo! Ha inserito all'interno di questo romanzo una pletora di oscenità, per nulla in grado di suscitare stupore nel lettore. Percepisco già da adesso il loro immane sdegno e il loro ardente desiderio di bruciare ogni singola pagina. Leggimi il nome di chi si è permesso di editare questo orrore, è scritto in cima», muove una mano, esortandomi a darmi una mossa.
«Julia Michaelson», mormoro.
Afferra il telefono e chiama qualcuno, cercando di mantenere un tono formale e serio. «Julia Michaelson, licenziata», poi riattacca e si gira verso di me.
«Dunque, cosa ne pensi?», domanda, ancora alterato.
«È orribile, ma-»
«Questo lavoro non è per tutti, ora comprendi? Puoi andare», fa un cenno verso la porta. «Oh, questo è per te», prende una busta da sotto la scrivania, dalla quale estrae poi un sacchetto marrone di carta.
«Vai a mangiare.»
«Ma la pausa è finita e dovrei-»
«Vai a mangiare, Kendra. Anzi, rimani qui», indica l'altra scrivania vuota e vado a sedermi. Dalle penne rosa e color turchese deduco appartenga a Tiffany.
Ora credo alle parole della segretaria. Finirò per scappare anche io?
Kenneth strappa in due il manoscritto e getta i pezzi di carta nel cestino, prendendosi la testa tra le mani.
«Grazie per il pranzo», mormoro, addentando l'hamburger.
Solleva di poco lo sguardo, ma non dice nulla, quindi aggiungo: «Sa, il terzo manoscritto che ho letto non sembra male... È molto interessante.»
«Non mi hai ancora fornito i dettagli dei manoscritti che hai bocciato, nonostante ti abbia detto di mandarmi tutto tramite e-mail», mi redarguisce e per poco il boccone non mi rimane incastrato in gola.
Lo mando giù con un sorso d'acqua e dico: «Ha ragione, rimedierò.»
Non nominare tua madre. Non nominarla.
«Ecco, io in realtà vorrei dirle una cosa», enuncio, pulendomi gli angoli della bocca con un fazzoletto di carta.
«Sì?»
«Ho per sbaglio detto a mia madre che frequento qualcuno, sa dopo il casino con il mio ex ragazzo, e mi stavo chiedendo se-»
«Capisco, hai bisogno d'aiuto», mi interrompe.
Mio dio, sono così prevedibile?
«Sì, quindi mi stavo chiedendo se lei...»
«No.»
«Ovviamente. Mi scusi, non intendevo.. mi dispiace», lascio l'hamburger a metà e mi alzo, con lo stomaco ormai sottosopra. «Torno al lavoro. Grazie ancora», so che potrei pulire il disastro e lasciare la scrivania ordinata, ma Tiffany adesso farà altro oltre che spettegolare.
Kenneth mi segue con lo sguardo finché non mi chiudo la porta alle spalle.
«Ti è andata male, eh?», ridacchia Tiffany, dirigendosi verso la stampante.
«Ma fottiti», sibilo, restando appoggiata con la schiena alla porta e maledicendo la vita.
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