Capitolo dieci
Sono davvero poche le volte in cui la mia mente viene trasportata, in modo così efferato e intenso, verso il profondo e inevitabile disgusto per il mondo intero.
Ad osteggiare il mio pisolino pomeridiano è un clangore metallico proveniente dall'appartamento accanto al mio.
Maledetto Arnold! Che diamine sta facendo?
Anziché rimanere nella mia silenziosa e confortevole stanza ad almanaccare in maniera instancabile, decido di scendere dal letto e infilare i piedi nelle ciabatte, avvicinandomi poi al muro e appoggiando lentamente l'orecchio su di esso. Percepisco subito un brivido percorrere la mia schiena non appena la mia guancia entra in contatto con la freschezza della parete.
Un colpo di martello mi fa balzare all'indietro e la mia mano scatta velocemente sul petto.
«Ehi!», sbraito, battendo energicamente il pugno contro il muro. «Mi sente?», domando a voce alta, ma come risposta mi arriva un altro colpo, che per poco non mi fa urlare. Il suono è talmente forte, che Arnold sembra quasi intento a voler entrare nel mio appartamento.
Attendo pazientemente per circa una manciata di minuti, ma il mio vicino decide di ignorarmi. So che mi ha sentito. Qui si sente letteralmente tutto. Mi allontano piano e mi rimetto a letto, coprendomi fin sopra il naso e sospirando profondamente. Ha deciso di smettere finalmente?
Chiudo gli occhi, rilassando i muscoli e stringendo al petto l'altro cuscino, ma un altro colpo furioso distrugge definitivamente la mia quiete.
E un altro ancora.
Mi alzo come una furia e vado a bussare alla sua porta, cercando di arrestare, in qualche modo, la collera che sta vorticando al centro del mio petto come un uragano. Non intendo avviare un alterco tra noi due, quindi mi limito ad aspettare che lui apra la porta, possibilmente con garbo e non con la sua solita rozzezza.
Mi appoggio con la spalla al muro, un po' impaziente, e cerco di intercettare il suono dei suoi passi, quindi do un'occhiata veloce intorno a me, e poi appoggio l'orecchio sul legno freddo della sua porta.
Quest'ultima si spalanca di colpo e scivolo in avanti, facendo scontrare il mio mento contro il suo petto peloso. Mio dio, è senza maglietta!
Mi rimetto composta in men che non si dica, cercando di fare finta di niente, e mi schiarisco la gola, un po' a disagio. «Salve, Arnold!», saluto educatamente, e sul mio viso si manifesta un sorriso da statuetta.
«Che cosa vuoi, ragazza?», domanda con il suo solito tono burbero. I miei occhi scivolano lentamente verso il basso e osservo i pantaloni in flanella a quadri rossi e neri, abbastanza larghi, che indossa. Faccio l'errore di guardare anche i suoi piedi scalzi e trattengo la smorfia di disgusto.
«Lei sta facendo troppo casino e io non riesco a riposare», gli faccio presente. Il modo in cui mi guarda mi fa desiderare di ritirarmi lentamente nel mio appartamento e non uscire mai più. Quest'uomo a volte mi rende nervosa.
«E a me dovrebbe importare qualcosa?», alza un sopracciglio, ridendo di gusto. La sua pancia tonda oscilla ad ogni suo movimento.
«Be', se ha un minimo di rispetto per i suoi vicini, allora sì, dovrebbe importarle», mormoro, non riuscendo a guardarlo in faccia per più di qualche secondo.
«Sorpresa, allora!», esclama con un sorriso menefreghista. «Io ho da fare e non mi interessa niente del tuo riposino! Inoltre, sono le sei, chi diavolo dorme a quest'ora?», con un gesto brusco della mano fa per sbattermi la porta in faccia, ma blocco la sua azione e cerco di non lasciare che la mia solita risata da pazza senza controllo esca fuori.
«E invece lei farà silenzio, altrimenti chiamerò la polizia. Mi ha sentito?», minaccio, puntandogli il dito contro.
«Ma levati!», grida stizzito, dandomi definitivamente una spinta e chiudendo la porta con un tonfo. Rimango con la bocca spalancata ad aspettare per qualche minuto, sperando che mi apra nuovamente e mi porga le sue umili scuse per il modo grossolano in cui mi ha appena trattato. Ma no, ciò non accade. Sento nuovamente un'altra martellata contro il muro e, ormai del tutto rassegnata, decido di rientrare nel mio appartamento, chiudendo la porta con forza e gridando a pieni polmoni: «Mi hai rotto il cazzo!».
Forse dentro di me sentivo davvero il bisogno di dare vita a questo sfogo, perché subito dopo mi metto a ridere da sola, anche se dall'altra parte non tarda ad arrivare la sua risposta: «Anche tu!».
Mi porto la mano sul petto con fare offeso e vado nella mia stanza, strascicando le ciabatte contro il parquet.
Afferro il cellulare dal comodino e guardo l'ora, facendo una smorfia.
Con la scusa di andare a comprare il pane, decido di fare una breve passeggiata, cercando di eliminare definitivamente il fastidio e concentrarmi sulle cose importanti: me stessa.
Forse dovrei iniziare a correre o fare esercizi all'aperto. Magari quando finalmente riuscirò a permettermelo, seguirò anche un corso di yoga.
Mi stringo nel cappotto beige, sistemo meglio il basco nero in testa ed esco di casa, con il cellulare stretto in una mano e le cuffiette infilate nelle orecchie.
Sollevo lo sguardo verso il cielo e sorrido mentre il vento fresco mi sfiora delicatamente il viso. Gli occhi curiosi seguono la tenue luce dei lampioni, che illumina le fronde degli alberi sul marciapiede.
Infilo le mani nelle tasche del cappotto e cammino con aria disinvolta. Canticchio mentalmente Cleopatra, dei Lumineers e raggiungo il panificio, sedendomi sulla panchina davanti, in attesa che alcune persone escano fuori. Non mi piacciono i posti troppo affollati.
Batto la punta dello stivaletto contro il margine del marciapiede e tamburello a ritmo le dita sul ginocchio, facendo oscillare la testa. Sistemo meglio il basco sulla testa e non appena il posto inizia a svuotarsi, decido di entrare. L'aroma del pane appena sfornato mi riempie i polmoni, facendomi chiudere per un attimo gli occhi per godermi appieno questa meravigliosa sensazione.
«L'ha attirata il profumo, non è così?», chiede la signora che traffica dietro al banco, impegnata a sistemare il pane sugli scaffali.
Mi limito a sorridere e ad annuire.
«Queste le abbiamo appena sfornate», indica le pagnotte fragranti.
«Ne prendo due», le dico. Ho già l'acquolina in bocca. «Mi dia anche due di quelle ciambelle straripanti di cioccolato e caramello salato». E più i miei occhi fissano tutto questo ben di Dio, più il mio stomaco fa casino e mi spinge quasi a prendere anche dei muffin.
Tuttavia, riesco a contenere l'appetito e mi limito ad aspettare il mio turno per pagare.
Sento la porta aprirsi e giro la testa, vedendo entrare nientemeno che Cole.
E in questo momento vorrei tanto diventare invisibile ai suoi occhi, ma penso mi abbia già notata, dato che si blocca all'entrata e solleva le sopracciglia.
Riporto l'attenzione sulla signora davanti a me e prendo i soldi dalla tasca, pagando velocemente.
«Prendo solo il pane», dice Cole alle mie spalle. «Oh, e mi dia anche un muffin con gocce di cioccolato e granella di nocciole.» Il mio preferito.
Prendo il mio sacchetto, saluto ed esco velocemente fuori.
In questo momento sembro quasi sul punto di mettermi a correre verso casa, tutto pur di non intavolare un discorso con lui.
Quella foto è ancora ben impressa nella mia mente. Il modo intimo in cui si stavano abbracciando, la sua mano sulla sua nuca...
Mi chiedo se sia semplice gelosia la mia oppure tanta insicurezza accumulata durante gli anni. Forse mi ha tradito o forse no. Ma so per certo che il nostro rapporto non era comunque come prima. Forse lo stavo annoiando?
Diventare noiosi per qualcuno non è altro che l'esordio di un calamitoso rapporto di odio con noi stessi; la nascita di una brutale animosità contro il nostro riflesso. È ciò che sta accadendo a me in questo momento.
«Kendra», sento la sua voce alle mie spalle e mi blocco sui miei stessi passi.
«Cosa?», chiedo mordace, girandomi di poco verso di lui.
Cole avanza a passo lento e poi allunga la mano verso di me. Osservo il muffin sul suo palmo e scuoto la testa. «No, sono a posto», sollevo il sacchetto e poi gli faccio un cenno con la testa, riprendendo la mia camminata.
«Come stai?», continua a chiedere dietro di me.
«Abbastanza bene. Tu?», ribatto educatamente, stringendo i denti e aumentando il passo.
«Rallenta un secondo, Kendra!», mi afferra per la spalla e mi costringe a girarmi verso di lui.
Il suo sguardo scende sul mio viso e sorride non appena i suoi occhi si soffermano sul basco che indosso.
«Non è quello che ti ho preso a Parigi?», chiede e spalanco gli occhi.
«Oh, quindi me l'hai preso tu?», chiedo, accigliandomi.
«Sì, non ricordi?», sorride, ma lentamente lo tolgo dalla testa e lo lancio in aria, dicendo: «Dallo alla tua nuova ragazza. Io non lo voglio più.»
«Non fare la bambina», mi rimprovera, abbassandosi per riprendere il basco da terra, dandogli qualche colpetto per eliminare le tracce di polvere.
«Non voglio più sapere niente di te, Cole», la rabbia mi corrode all'interno, ma cerco di non mostrarmi fragile davanti a lui.
«Kendra, comportati da adulta! Sono cose che in una relazione a volte succedono. Non mi hai nemmeno dato il tempo per farmi perdonare», cerca di rigirare la frittata, quindi scoppio a ridere e gli do le spalle, marciando verso casa.
«Andiamo! È stato uno sbaglio, Kendra. Non avrei dovuto stare da solo in macchina con lei, scusami!», grida alle mie spalle e alcuni passanti si girano verso di noi. L'ultima cosa che vorrei fare è mettermi a piangere o sbraitargli contro in pubblico, ma in questo momento sono iraconda, quindi mi giro verso di lui come un fulmine e premo l'indice contro il suo petto.
«Sai cosa è stato uno sbaglio?», sibilo, guardandolo attentamente negli occhi.
«Ma non mi dire...», borbotta con fare annoiato. «Dirai che lo sbaglio più grande è stato quello di esserti innamorata di me e bla, bla, bla, come tutte le ragazze.»
«No, stronzo! No», grido. «Lo sbaglio più grande è stato quello di guardarti negli occhi e decidere di fidarmi di te, donandoti tutta me stessa. Non mi dispiace essermi innamorata di te, perché ogni relazione mi lascia qualcosa, che si tratti di una lezione o dei semplici ricordi. Tu, però, mi hai lasciato soltanto un'enorme sensazione di disgusto alla bocca dello stomaco, tant'è che ogni volta che ti vedo, mi viene automaticamente voglia di vomitarti sulla faccia!»
A qualche metro più in là intercetto la risata divertita di una ragazza, ma appena incontro il suo sguardo smette di ridacchiare e solleva il pollice in su.
Corrugo la fronte e riporto lo sguardo su Cole.
«Sono tutti film mentali che ti stai facendo, lo vuoi capire? Non ti ho tradito, casomai l'hai fatto tu a quella stupida festa! Ma sai cosa? Io ti amo e ti sto dimostrando che a differenza tua sono una persona matura, dunque ti perdono e cercherò di farti capire quanto tutto ciò sia sbagliato.» Non ce la faccio. Mi ha appena accusata di averlo tradito? Io?
Trovo finalmente il coraggio e gli dico: «Ho bisogno di tempo.»
«Tempo per cosa? Per farmi le corna e poi fare la vittima? Eravamo una coppia meravigliosa», mi afferra la mano e si avvicina a me, abbassando il capo verso il mio. Trattengo il respiro, il suo naso tocca il mio. «Mi manchi, Kendra», con il pollice sfiora il mio labbro inferiore e io chiudo gli occhi. «E sì, forse le cose stavano diventando un po' fredde tra di noi, perché non ti vedevo spesso e mi mancavi. Mi mancava guardare i film con te la sera, bere un bicchiere di vino e poi fare l'amore», il suo sospiro si infrange contro la mia bocca e una miriade di ricordi mi travolge come un'onda. «Lo so che ti manco... Smettila di resistermi. Smettila di essere così dannatamente cocciuta.»
«Vieni a casa con me», mi ritrovo a dirgli. Lui sorride contro le mie labbra e poi mi afferra la mano, camminando velocemente verso la sua auto.
Poco dopo ci ritroviamo all'ingresso del mio appartamento. I sacchetti per terra, le mie mani sul suo collo e le sue sui miei fianchi.
La sua lingua accarezza dolcemente la mia e la sua mano sale a toccarmi il seno. Un attimo dopo la maglietta e i pantaloni sono per terra e lo sto trascinando nella mia stanza. Si toglie velocemente i vestiti e poi si inginocchia davanti a me baciandomi l'addome e scendendo sempre più giù.
«Mi è mancato tutto questo», mormora con la bocca contro la mia pelle.
«Cole, ti prego, non parlare», e come risposta mi spinge sul letto e sorride malizioso.
«Ogni tuo desiderio è un ordine», afferma, poi mi bacia di nuovo.
Pochi minuti dopo fisso il soffitto con i sensi di colpa che si annidano poco a poco dentro di me. Non sono venuta. Non è andata secondo i piani e adesso lui si sta rivestendo, dopo avergli detto di abbandonare la mia abitazione per il bene di entrambi.
«È stato stupendo», preme le labbra contro la mia fronte e poi sposta il lenzuolo con cui mi copro e si abbassa per abbassarmi il seno, mordicchiando leggermente il mio capezzolo.
«Ahi», gli do una spinta e lui ridacchia.
«Serviva ad entrambi, lo sai», cerca di convincermi. Beh, sono stata io ad averlo trascinato a casa mia, nel mio letto.
«Ci rivedremo», mi fa l'occhiolino, prende il suo cappotto e se ne va, ma prima si sofferma un po' troppo con lo sguardo su di me.
Appena rimango da sola mi mordo il labbro e premo le gambe contro il petto, stringendo forte le ginocchia con un braccio. Sono una cogliona.
Affondo il viso nel cuscino e poi urlo.
Il cuore batte come un tamburo contro il petto. La tristezza inizia ad abbarbicarsi su di me.
Lascio da parte i sensi di colpa, mi avvolgo nel lenzuolo e mi trascino alla scrivania. Apro il portatile, decidendo di mandare finalmente l'email a Kenneth.
Nonostante io cerchi sempre di trovare qualcosa per distrarmi, la maggior parte delle volte le mie emozioni decidono di riflettersi prepotentemente in ogni mia azione.
E mentre mi impegno a scrivere l'email in modo decente e a scusarmi per il ritardo, non riesco a fare a meno di guardare il mio letto.
A volte l'amore non sembra altro che la paura di restare da soli. Il passatempo dei cuori solitari, che stanno bene da soli, ma che al contempo hanno bisogno di provare qualcosa.
E ciò che ho appena fatto con lui ne è la dimostrazione.
Il giorno dopo, sorprendentemente, arrivo molto in anticipo al lavoro. E, per anticipo, intendo un'ora prima.
Sono così afflitta, che perfino stare nella mia macchina mi sembra soffocante.
Quindi mi sono seduta sulle scale, ignorando il freddo e la polvere, con la testa appoggiata sul palmo della mano e la borsa ai miei piedi.
I pensieri girano roventi nella mia mente mandando in cortocircuito il mio cervello. Non dovrei nemmeno soffermarmi così tanto sulle parole di Cole in questo momento, eppure lo faccio. Sfioro con i polpastrelli il collant nero in microfibra che fascia le mie gambe e avverto dei passi decisi farsi sempre più vicini.
Sposto gli occhi sulle scarpe nere davanti a me e poi sollevo lentamente la testa, finché non incontro il viso di Kenneth. Intercetto uno sfolgorio nelle sue iridi verdi.
«Kendra», dice, aggrottando le sopracciglia. «Cosa ci fai qui a quest'ora?»
«Niente», mi stringo nelle spalle, deglutendo rumorosamente. «Non avevo sonno e quindi mi sono recata qui.»
«Sei in anticipo», mi fa presente battendo piano le palpebre, come se fosse confuso.
«Lo so.»
«E per quale assurda ragione sei rimasta qui fuori?», fa per abbassarsi, ma rimane con la schiena dritta.
«Non lo so», mormoro, giocherellando con l'orlo della gonna svasata.
«Su, alzati e vieni con me!», caldeggia il suo invito, mostrandomi l'entrata con un cenno della mano, e, a malincuore, prendo la borsa e inizio a salire le scale. In realtà sto molto bene fuori, ma non si può dire di no al capo.
«C'è qualcosa che ti preoccupa oggi?», indaga mentre cammina spedito verso il suo ufficio. E io dove dovrei andare?
«N-no. Devo venire con lei?», domando, rallentando il passo.
«Sì, Kendra. Nel mio ufficio», apre la porta e mi fa cenno di entrare per prima.
«Perché? Vuole licenziarmi perché sono arrivata in anticipo?», il panico inizia ad avvinghiarsi intorno al mio stomaco. Kenneth mi lancia un'occhiata torva e mi fa cenno di sedermi sulla poltrona.
«Io non riesco a capire», esclama. «Perché hai sempre in mente questo pensiero ridicolo? Perché temi il licenziamento? Non c'è niente che possa indurmi a prendere una tale decisione in questo momento. E no, prima che tu lo dica, arrivare in anticipo non è una ragione abbastanza valida. Valuto il lavoro e i tempi, sì, ma solo quando sei seduta alla tua scrivania. Mai prima.»
Be', come faccio a dirgli che mi mette paura a volte? Mi è bastato vedere il modo rapido in cui ha licenziato Julia Michaelson. Quella povera donna, dev'essere distrutta adesso!
Mi siedo sulla poltrona e sbottono la giacca. I suoi occhi scendono sulla mia figura, ma distoglie immediatamente lo sguardo. Rimango in silenzio a fissare il tappeto.
«Quindi ho ragione», assottiglia le labbra. «Kendra, ogni volta che varcherai la soglia di questo posto, i problemi dovrai lasciarli automaticamente fuori.»
«Sì, be', tecnicamente sono rimasta fuori per questo motivo», rispondo, passandomi nervosamente una mano sul collo.
Fuori a pensare al fatto di essermi scopata Cole. E avrei preferito non farlo, però mi ha colto in un momento di debolezza e, diamine, ho pensato che il sesso potesse farmi dimenticare tutto per un secondo.
«No, non ci siamo», scuote la testa e posa il cappotto sullo schienale della poltrona, appoggiandosi in seguito alla scrivania e incrociando le braccia. Il suo petto ampio tende il tessuto della camicia ad ogni sua mossa.
«Lo so, non intendo svolgere male il mio lavoro», provo a giustificare il mio malumore, ma lui non non sembra per niente soddisfatto della risposta che gli ho rifilato.
«Kendra», pronuncia di nuovo il mio nome come se fosse un rimprovero, costringendomi a guardarlo in faccia.
«Il sole brilla incessantemente da miliardi di anni, e non si è mai stancato di tenere in vita gli esseri viventi che popolano questa terra. Ha un compito importante, non pensi? E se il sole non si è mai spento fino ad ora, non vedo per quale motivo debba farlo tu. Hai nelle mani un'unica responsabilità, ovvero quella di prenderti cura di te stessa. Non devi badare di certo al mondo intero come fa il sole, no?», mi dà le spalle e va a sedersi dietro la scrivania. Sbottona agilmente i polsini della camicia e inizia ad arrotolare di poco le maniche. Noto le vene sporgenti sugli avambracci e distolgo lo sguardo.
Sì, ma il sole non è un essere senziente, vorrei dirgli. Non si fa i film mentali come me.
«Avrai sempre un ragione per brillare ogni singolo giorno, anche nelle giornate più tetre», sembra quasi che stia cercando di non incontrare il mio sguardo. «Dico solo che dovresti focalizzarti su questa tua responsabilità e non dare per scontato la tua forza», stringe tra le dita una penna e apre una cartella.
Nonostante io muoia dalla voglia di guardarlo in faccia e di chiedergli come abbia fatto a percepire in modo così accurato il mio stato d'animo, decido di custodire gelosamente le sue parole dentro di me.
«Grazie...», mormoro, un po' stordita. L'ha già detto una volta: lui tiene al benessere dei suoi dipendenti. Eppure non riesco a comprendere come lui, tra tutte le persone che ho incontrato nella mia vita, sia riuscito a guardare dentro di me con tanta facilità.
«Oggi lavorerai qui, con me», mi fa sapere e apro la bocca per ribattere, ma soggiunge: «Oh, e per sabato pomeriggio vorrei avere tutte le valutazioni dei manoscritti.»
«Sabato pomeriggio», ripeto, esagitata.
«Qualche problema?», accende il suo laptop e mi guarda.
«N-no, cercherò di farle avere tutto. Sabato è già una giornata impegnativa per me». Non solo devo assicurarmi che io svolga il mio lavoro in maniera impeccabile, ma devo pensare anche ad un modo per sfuggire alla furia di mia madre.
«Che tipo di impegno hai?», chiede, iniziando a digitare qualcosa sulla tastiera.
«Mia madre viene a farmi visita», dico a bassa voce, le sue mani si fermano all'improvviso e i suoi occhi cercano i miei.
«Quindi? Devi uscire prima? È una cosa urgente?»
Se solo sapesse...
«A mia madre non piace aspettare. Vuole vedermi a tutti i costi e io... ho fatto un casino», la mia disperazione decide di parlare al posto mio.
Kenneth sposta il laptop alla sua destra e incrocia le braccia sulla scrivania. Mi sta fissando e basta.
«Ma non importa, le farò avere tutto entro venerdì. Sono veloce a leggere.»
«Deduco che la tua disperazione sia riconducibile al nuovo ragazzo che tu frequenti», distoglie lo sguardo e riprende a lavorare al computer.
Ho colto la sua frecciatina.
«Cole è il preferito di mia madre... se ci sarà anche lui, spero di no, io sarò finita», mi mordo il labbro, prendendomi la testa tra le mani. Non riesco nemmeno ad immaginarmelo, un incontro con loro due. Soprattutto dopo ciò che è successo tra me e lui. Come farei a guardarlo negli occhi?
«Cole?», chiede Kenneth.
«Il mio ex ragazzo», spiego.
Lui si ferma di nuovo, afferra bruscamente la penna e inizia a scrivere qualcosa su un foglio, mentre il suo sguardo diventa sempre più cupo. «Il tuo ex ragazzo», ripete e vedo un muscolo guizzare sulla sua mascella. «Puoi iniziare a lavorare, Kendra», mi indica la parte libera della sua scrivania e rimango immobile a fissarlo.
«Qui? Con lei?», chiedo e i battiti iniziano a rallentare sempre di più.
Morirò.
«Sì, proprio qui. Mi sto soltanto assicurando che il tuo cattivo umore non interferisca con il lavoro. Bandisci dalla tua testa il tuo ex ragazzo e anche tua madre. Se desideri torturarti la mente, ovviamente potrai farlo, ma non quando sarai con me.»
Sposta alcune cose sull'altra parte della scrivania e mi fa spazio. Trascino la poltrona accanto a lui e deglutisco. Questo è dannatamente inutile!
Non riuscirò a leggere sapendolo così vicino a me. Inoltre, Tiffany si presenterà qui tra poco. Non posso lavorare con loro due. Inizia già a mancarmi l'ossigeno.
«La mente», inizia a dire, con lo sguardo puntato sullo schermo del computer. «È molto sensibile. Abbi rispetto e non tormentarla con tutti questi pensieri banali. È un qualcosa di cui ci si dovrebbe prendere cura. Tu la stai maltrattando in questo momento e ne pagherai le conseguenze, Kendra. E saranno le conseguenze delle tue azioni.»
Non so cosa dire. Le mani mi tremano per colpa del nervosismo, ma cerco di non darlo a vedere.
«Riprendi da dove sei rimasta.»
Impartisce ordini, ma ancora non si è minimamente accorto che non ho nemmeno un computer davanti.
Come se mi avesse letto nel pensiero, spinge il suo portatile verso di me e alzo le sopracciglia, sorpresa.
«Buon lavoro», si rigira la penna tra le dita, contraendo la mascella.
«Anche a lei», sussurro guardandolo di sottecchi. Un mezzo sorriso ombreggia le sue labbra piene. Si passa una mano tra i capelli e poi gira di colpo lo sguardo verso di me, beccandomi. «Non guardarmi così, Kendra. Lavora», ordina.
«Come la sto guardando?», domando, abbassando lo sguardo, imbarazzata.
Kenneth si piega leggermente verso di me e dice con voce profonda: «Oh, credimi, non vorresti saperlo, Collins. Non vorresti davvero saperlo.»
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