Capitolo cinque

Fallita è la parola che dovrei incidermi sulla fronte, possibilmente a caratteri cubitali.

Il rammarico che provo nel guardare i diversi video su Tik Tok è sconfinato. Sapevo che avrei dovuto lanciarmi su qualcosa di più semplice e meno pesante. Cosa mi è passato per la mente nel momento in cui mi sono iscritta all'università?

Perché addottrinarsi? Perché fare tutti questi sacrifici? Basterebbe fare un balletto imbarazzante su TikTok. Diventerei famosa anche io e farei una vita spettacolare, sarei circondata dall'agiatezza e rinuncerei definitivamente alle preoccupazioni che hanno trovato rifugio nella mia testa da troppo tempo ormai. Passerei dall'avere addosso l'odore di pollo fritto ad applicare sul collo gocce di Chanel n° 5. Che sogno!
Anche se molto probabilmente finirei per scegliere un altro profumo. Chanel è sopravvalutato.
Perché non posso avere anche io questa fortuna?

Beh, hai studiato proprio per non arrivare a fare queste banalità, Einstein!

Ugh! Forse il colpevole del mio malumore è il cattivo tempo. O magari è soltanto il mio solito stato d'animo invariabile, che mi accompagna sin da quando mi alzo al mattino, a quando torno a casa.

Mi scappa una breve risata amara e chiudo Tik Tok, poi apro Google e vado alla ricerca di qualche annuncio di lavoro, magari qualcosa che faccia a caso mio. Finirò per usare la laurea per asciugarmi le lacrime che verserò nei mesi a venire.

«Oggi è una giornata tranquilla», enuncia Christian, sedendosi al mio stesso tavolo.

«Già, ed è bellissimo», dico senza staccare gli occhi dallo schermo del cellulare.

«Ti vedo molto concentrata, cosa stai facendo?», domanda, sporgendosi sopra il tavolo. Piega la testa per osservare meglio e le sue sopracciglia si congiungono, fino a dare vita ad un'espressione confusa.

«Cerco lavoro», rispondo brevemente.

«Ma tu ce l'hai un lavoro», mi fa presente e rido di nuovo come se fossi sul punto di ribaltarlo insieme al tavolo.

«Sì, certo, perché secondo te io continuerò a servire panini e lascerò che mia cugina diventi la vip della famiglia, vero? Lei ha la sua bella carriera già avviata, ha una macchina nuova di zecca nel garage, si è comprata perfino la casa!», grido, spegnendo lo schermo del cellulare e prendendomi il viso tra le mani.

«Oh, la solita competizione tra cugine?», chiede, un sorriso divertito dà un tocco di vita al suo sguardo.

«La mia famiglia pensa che io abbia ottenuto il lavoro dei miei sogni. Se dovessero scoprire la verità, farei una pessima figura. Inoltre, perderei anche quel briciolo di felicità e orgoglio che mia zia ha negli occhi quando mi guarda. Ma che ci posso fare! Sono proprio una perdente», sospiro e mi appoggio svogliatamente contro lo schienale del divanetto.

«Non preoccuparti, vedrai che riuscirai a trovare qualcosa. Sei una ragazza intelligente», mi arruffa i capelli, un gesto fin troppo confidenziale, e metto su un sorriso tirato. Certo, ce la farò! È più probabile che l'attuale presidente d'America vinca di nuovo le elezioni.




Qualche ora più tardi mi ritrovo a sbraitare contro un cliente. Tutta la sala ha gli occhi puntati su di me. Occhi spiritati, confusi, preoccupati che mi trapassano come spade.

«Lei è un maiale», grido, puntandogli il dito contro. Le mani prendono a tremare, la gola graffiata dalla mia stessa voce.  Non è il momento ideale per pensare a Piton e Harry Potter. Dovrei rimuovere l'immagine buffa che ho in mente adesso.

«Shh, Kendra, andiamo! Rischi di perdere il lavoro così», Christian cerca di farmi ragionare, afferrandomi per il braccio con dolcezza e facendomi indietreggiare.

«Ma come hanno fatto ad assumerla? Lei è una cafona, signorina! Spero la licenzi», grida l'uomo, ormai rosso in viso.

«Lei mi ha toccato il sedere mentre stavo andando via», ribatto, stringendo i pugni. Non so cosa sia più umiliante: il non essere creduta oppure essere vittima dell'ennesimo evento nefasto?

L'altra mia collega sta lì ferma a fare la pentola a due manici anziché intervenire. Possibile che nessuno lo abbia visto?

«Mi lamenterò con il responsabile di questo posto», continua a minacciare l'uomo.

«Faccia pure», digrigno i denti e ci guardiamo negli occhi come se volessimo metterci le mani al collo. Forse dovrei fare fagotto e nascondermi in qualche quartiere malfamato e non farmi vedere mai più in giro, perché chi diavolo vorrà assumermi di nuovo?  Non che il mio quartiere non sia già messo male...

Mi allontano lentamente fino a sparire dietro il bancone, poi raggiungo la cucina.
«Terribile! È stato terribile, José», grido al ragazzo che prepara i panini, ma lui non capisce bene l'inglese quindi annuisce e sorride.

«Sì, lo so che non capisci niente, anche io faccio questa faccia quando mi parlano di cose strane», le sopracciglia s'incurvano verso il basso, la tristezza marca i miei lineamenti.

«José, forse verrò licenziata», gli dico, lanciando le braccia in aria, in un gesto esasperato.

«Estoy feliz», risponde lui, barlumi di luce illuminano le iridi azzurre.

«Grazie, José, apprezzo la sincerità», sfrego in modo frustrato le mani sulle guance. «Estoy desesperada», continuo a gridare con un accento spagnolo orribile.

José si porta la mano davanti alla bocca, sorpreso.

«Lascia stare», muovo il palmo davanti al viso e mi siedo sullo sgabello. Christian entra in cucina come una furia, guarda me e José, poi scuote la testa con disappunto.

«José, la nostra collega è nei guai», gli spiega Christian.

«Guai», ripete José, come se stesse cercando di ricordare il significato della parola.

«Estoy en la mierda. Comprendi?», spiego io e lui apre nuovamente la bocca, formando una O perfetta.

«Da quando parli lo spagnolo?», indaga Christian, ma rimango in silenzio masticando le brutte parole che vorrei far uscire dalla mia bocca e guardando per terra. Non posso di certo dirgli che adesso la mia vita è più incasinata delle telenovelas spagnole che guardo nel tempo libero. 

«Al lavoro!», grida la nostra collega, muovendosi come un tornado. Il suo sguardo cade su di me e i suoi occhi fulminei mi fanno sussultare. Cerca di nascondere il ghigno, ma l'odio nei miei confronti non passa di certo inosservato.

Mi acciglio e metto le mani sui fianchi senza smettere di guardarla. Una guerra di sguardi duri e taglienti. Christian si fa da parte, José mormora: «Madre de Dios, es guerra».

Mi giro verso di lui, inarcando un sopracciglio: «Sì, bravo, hai indovinato. Comunque, io e te forse dovremmo uscire qualche volta. Hai bisogno di qualcuno che ti insegni l'inglese», non so esattamente con quale tono l'abbia detto, perché la sua espressione leggermente ambigua mi mette in imbarazzo e mi rende perfino confusa. Sfrega la mano sulla nuca, gli occhi irrequieti vagano per la cucina, il petto si solleva e si abbassa velocemente.

«Okay», risponde lui con un sorriso terrorizzato sul viso. Perché si comporta come se gli avessi appena chiesto di aiutarmi ad ammazzare la regina?

«Vai a lavorare, qualcosa mi dice che questo sarà il tuo l'ultimo giorno», sghignazza la mia collega. Guardo il nome sulla sua uniforme e faccio una smorfia: Martha.

Anche mia cugina si chiama Martha. Avrei dovuto immaginarlo, dopotutto sono entrambe odiose, arroganti e antipatiche.

«No, querida», José sventola le mani davanti, come se volesse in qualche modo darmi conforto. Aggrotto le sopracciglia ancora di più e poi, con uno sbuffo, prendo l'ennesimo ordine e continuo a svolgere il mio lavoro.




Il profumo fresco di lavanda mi permea le narici non appena mi chiudo la porta alle spalle. Metto le chiavi sul piccolo mobiletto in legno bianco posizionato all'entrata.

«Meglio la vaniglia, dio che schifo di odore», brontola Eileen alle mie spalle. Alzo gli occhi al cielo e ci togliamo le scarpe. «Sto morendo di fame», esclamo dirigendomi verso la cucina. «Fai uno spuntino insieme a me?», le chiedo, ma lei si è già rifugiata nel salotto.

«No, sono a posto», grida.

Apro il frigo e faccio una smorfia di disgusto. Prendo il formaggio e lo butto direttamente nella pattumiera. Cibo andato a male, frigo ormai vuoto e la disperazione aleggia nell'aria.
Prendo due fette di pane e il burro di arachidi e mi preparo un toast.
Raggiungo Eileen mentre mi lecco gli angoli della bocca e mastico con poca voglia il pane. La mia migliore amica è piegata davanti alla mia pianta con uno spruzzino tra le mani.
Si gira verso di me, un sorriso turbato le accarezza le labbra. «La tua pianta forse sta male.»

«Oh, no! No, no», grido e corro verso l'orchidea. Prendo il vaso tra le mani e lo sollevo all'altezza del viso, osservando attentamente il colore delle radici.

«Oh, merda!», afferro lo spruzzino e bagno velocemente le sue foglie.

«Secondo me sei pazza», esclama Eileen, guardandomi come se avesse davanti una strana creatura.

«Orchidea non deve morire, altrimenti la prossima a saltare in aria sarò io», controllo per bene la pianta e poi l'abbraccio.

«Hai chiamato l'orchidea, Orchidea! E la stai abbracciando», mi fa notare con una leggera amarezza.

«Avrei voluto chiamarla Petunia, ma mia madre me l'ha proibito. Ha detto che ha già il suo nome, Orchidea. E non posso darle torto, lo sai...», mollo il vaso sul davanzale e mi muovo lentamente verso Eileen. Lei annuisce comprensiva.

«Mal che vada ne potrai prendere un'altra identica», suggerisce, inclinando il capo e sollevando un sopracciglio.

«No!», scuoto la testa. «Mia madre mi ha regalato questa maledetta pianta-», mi fermo, girandomi verso l'orchidea e aggiungendo «Non ti offendere!», poi punto di nuovo lo sguardo sulla mia migliore amica «Me l'ha regalata con tutto il cuore e lei di solito non mi regala niente. Dice che racchiude tutto il bene che io le voglio. Se la pianta morirà, mia madre mi farà fare la stessa fine. È già fermamente convinta che la farò appassire.»

Eileen indietreggia e va a sedersi sul divano, guardandomi con una smorfia.
«Ma è solo un'orchidea. E se vogliamo dirla tutta, quella stupida pianta dovrebbe racchiudere tutto l'amore che tua madre prova per te e non il contrario.»
Abbasso lo sguardo e sorrido tristemente. So che sa già che tipo di persona sia mia madre, ma non capirà mai appieno il mio dolore o la gioia che provo nel sentirmi presa in considerazione da lei. Come se quel minimo di attenzione da parte sua potesse migliorare in qualche modo il nostro rapporto. La mia vita dipende dal suo umore e io sono esausta.

«“Se non sai prenderti cura di un'orchidea, allora sicuramente non saprai prenderti cura nemmeno di me quando sarò vecchia”», ripeto le sue testuali parole, ricordando a malincuore i miei sterili tentativi di farle capire che non sono così brava a prendermi cura delle piante.

«Va bene, ma allora innaffiala e basta, non devi fare nient'altro!»

«Eileen, i tuoi consigli sono orribili. Lo sai che quella pianta potrebbe morire per overdose d'acqua?», apro le braccia, esasperata. Lei corruga la fronte e scuote lentamente la testa. Come immaginavo! Il problema non è l'orchidea, ma è la paura di deludere mia madre per l'ennesima volta.

Mentre Eileen solleva un dito, intenta a dire un'altra delle sue insensatezze, un rumore che entrambe conosciamo bene attira la nostra attenzione.

Il brutto dell'abitare in un palazzo dove l'affitto si paga meno del normale, ma in ogni caso troppo per me, è che le pareti sono esageratamente sottili. Così sottili che ogni mattina mentre mi lavo i denti sento il mio vicino mentre fa la pipì. E molte volte tiriamo lo sciacquone contemporaneamente. Una volta l'ho sentito perfino imprecare ad alta voce e inveire contro una zuppa di fagioli. In quel bagno si sentivano suoni simili a colpi di cannone.

«Va bene, io per oggi ne ho abbastanza», mi massaggio le tempie e marcio a passo svelto verso la porta.

«Ma dove stai andando? Non fare sciocchezze», mi ammonisce Eileen, ma non ne voglio sapere niente. Tra l'orchidea che sta morendo e i vicini che ci danno dentro, non so cosa sia peggio.

Apro la mia porta e allungo il braccio verso quella dell'appartamento accanto. Inizio a bussare e aspetto che qualcuno venga ad aprire. Riesco a udire qualcuno che strascica i piedi verso la porta, quindi mi schiarisco la gola e assumo una postura rigida e sicura di me.

Appena la porta si apre, schiudo le labbra per dire qualcosa, ma vengo bloccata sul colpo con un gesto brusco della mano.

«Se il preservativo risulterà bucato, sarà tutta colpa tua», la voce arrabbiata e stentorea.

Rimango a bocca aperta, frastornata.
«Scusi, può farlo più... piano?», riesco a chiedere, con l'imbarazzo che mi prende in pieno.

«Perché? È crollato qualche mattone dall'altra parte?», chiede ridendo di gusto.

«No, ma vorrei riposare. Ho avuto una giornata stressante oggi», spiego con garbo.

L'uomo si gratta la barba ispida e mi rivolge un sorriso menefreghista. Fa finta di pensarci su ancora per un po', dopodiché esclama: «Se guardi qualcuno mentre mangia, automaticamente verrà fame anche a te. Forse non è la stanchezza il motivo, ma altro... Se capisci quello che intendo», gesticola con fare arrogante, mandandomi su tutte le furie.

«Sta insinuando che io...», lascio la frase in sospeso e lui mi fa l'occhiolino, rientrando nell'appartamento e chiudendomi la porta in faccia.

Non ci credo. Io non ho bisogno di fare sesso per stare meglio. Cafone!

Gonfio le guance, pronta ad esplodere in una serie di insulti e imprecazioni, ma una voce cordiale e armoniosa mette in pausa i miei film mentali.

«Hai litigato con Arnold?», chiede l'altro vicino, quello che abita davanti a me. In realtà vive con il suo compagno. È una coppia gay a cui non importa molto socializzare in questo posto. E non mi chiedo nemmeno il perché. Il motivo è abbastanza ovvio.

«Eh, già!», premo le labbra una contro l'altra per pochi secondi. «Mossa ardimentosa, la mia. È molto probabile che l'abbia fermato sul più bello.»

Jacob ride, mostrandomi l'apparecchio. So il suo nome perché l'ho letto sulla cassetta postale. Siamo solo noi tre al secondo piano, e quello di Arnold lo conosco già. È sempre lui a parlare con il proprietario. Mi è capitato di beccarli più volte davanti alla porta mentre discutevano di qualche guasto.

«Stai tornando ora dal lavoro?», chiedo, notando il suo abbigliamento formale  e la borsa da lavoro che stringe in una mano.

«Sì, il capo sta dando un po' di matto ultimamente e siamo un po' in crisi», mi fa sapere, e mentre ride arriccia il naso.

«Che lavoro fai?», sì, so che sono una ficcanaso, ma non mi capita mai di fare conversazione con i miei vicini, e questa sembra la volta buona che io mi presenti per bene. Spero solo di non sembrare una pazza.

Jacob si passa la mano tra i capelli corti neri e risponde: «Traduttore. Traduco libri». I miei occhi sono attraversati da uno scintillio.

«Anche a me piacciono i libri! Sto giusto cercando lavoro. Io sono Kendra, comunque!», esclamo ad alta voce. Forse l'entusiasmo trapela un po' troppo nella mia voce, ma non sembra che a lui dia fastidio, perché spalanca gli occhi sorpreso e sorride.

«Ma davvero? Io lavoro per una casa editrice. So che si è liberato da poco qualche posto, potresti fare un tentativo. Magari sarai fortunata. E io sono Jacob», prima che possa dire altro, allunga verso di me un biglietto da visita. «È questo qui il posto dove lavoro», leggo il nome e spalanco la bocca. «Se pensi di avere le competenze giuste, presentati al colloquio.»

«Ma io ci sono già stata qui, qualche mese fa», rammento la spiacevole esperienza mentre fisso la scritta  K. H. Publishing company. Non potrei mai dimenticare questo nome, poiché la prima volta non mi hanno nemmeno dato tempo di aprire bocca.

«Tiffany ha preso il mio posto», alzo un sopracciglio, guardandolo torvo.

«L'assistente?», chiede, accigliandosi. Dio, stiamo qui a cicalare davanti alla porta come due vecchiette.

«Cosa? No! Lei ha sicuramente un ruolo più importante. Forse stiamo parlando di due persone diverse», lascio cadere l'argomento e indietreggio verso la porta.

«Può darsi. In ogni caso, provaci!», mi rivolge un ultimo sorriso e va ad aprire la porta del suo appartamento.

«Senti», lo fermo. «Questa è un'importante casa editrice, chi sarebbe così folle da licenziarsi in un posto simile?». Domanda più che lecita, dato che io in questo momento pagherei oro per lavorare in una struttura simile.

«Il capo a volte sa essere parecchio tronfio e pretenzioso. O lavori, o sei fuori in un secondo. Labor omnia vincit. La fatica vince ogni cosa. È quello che ci ripete sempre, forse è per questo che ci sono più persone che svolgono più lavori banali che importanti lì dentro. Nessuno si impegna abbastanza», si stringe nelle spalle e io sorrido a disagio. Ma che razza di capo malato ha?
Rientro nel mio appartamento con il biglietto tra le mani e storco la bocca.

«Per caso Arnold ha scopato pure te? Ci hai messo un po' a tornare», mi schernisce Eileen, ma le sventolo il biglietto davanti agli occhi. «Forse ho trovato lavoro», le faccio sapere.

Lei si alza dal divano e viene come un lampo verso di me, gridando: «Davvero? Racconta!».

«Ho già fatto un tentativo mesi fa, adesso riproverò di nuovo. Spero soltanto di essere più fortunata.»

«Incrociamo le dita», viene ad abbracciarmi e poi aggiunge: «Forse dovresti farti una doccia e riposarti. A malapena riesci a reggerti in piedi.»

Annuisco e mi dirigo verso la mia stanza. «Potresti passare da me qualche volta.»

«Se avrò tempo...», mormoro con una punta di imbarazzo.

«Certo. Non vedo l'ora», mi sorride con dolcezza. «Scrivimi se hai bisogno di qualcosa, va bene?»

Come faccio a dirle che sono stanca di avere sempre bisogno del suo aiuto ogni volta che le cose si mettono male?

«Certo, ci sentiamo più tardi», l'abbraccio e lei mi saluta, poi va via.
Mi tolgo gli indumenti impregnati di odore di fritto e mi metto il pigiama. Mi siedo sul bordo del letto e prendo di nuovo il biglietto tra le mani, mormorando: «Ci proverò. E non riuscirete a mandarmi di nuovo a casa. Quel posto sarà mio, costi quel che costi.»

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