Dove sei?
Non sapevo di preciso cosa fosse la disperazione, o come ci si sentisse. Speravo di non doverlo sapere mai, ma era una speranza stupida.
È tutto nero e io sto precipitando.
Nel nero ci sono tanti puntini.
Io allungo le braccia, stendo più che posso le dita fino a sentirmi staccare le articolazioni.
Ma non trovo appigli.
Non c'è nulla.
Tocco il vuoto.
Chiamami.
Ti prego.
Vieni sotto casa mia, telefonami e dimmi di scendere, perchè sei lì giù che aspetti me, che sei tornato solo per me, perchè il sentirmi piangere ti fa stare male.
Ed io, rimanendo col telefono incollato all'orecchio per non perdermi un solo secondo della tua voce, con il cuore in gola e gli occhi gonfi di lacrime, mi precipiterò giù per le scale, aprirei il portoncino e mi bloccherei, non staccando neanche la chiamata.
Ti ritroverei con il braccio sinistro disteso appoggiato alla parete, l'altra mano a reggere ancora il telefono e lo sguardo indecifrabile abbassato.
Lo alzeresti, come tutte le altre volte, e come tutte quelle volte mi verrebbe un colpo al cuore nel vedere quanto i tuoi occhi possano diventare freddi e menefreghisti.
Quando il tuo sguardo è indecifrabile io ho paura.
Una paura matta, cazzo. Nel vero senso della parola.
Inizialmente faresti lo stronzo, continueremmo a pizzicarci e io inizierei, come ogni volta, a sentirmi sbagliata, a sentirmi esagerata, paranoica, depressa, troppo bisognosa di te, inadeguata, immatura e vulnerabile.
Non ho mai sopportato sentirmi così.
Ma credo sia proprio quel vedermi così indifesa, scoperta e vulnerabile ad ogni sillaba che ti esce dalle labbra a frenarti.
Allora cambieresti subito tono di voce, quel tono e quella voce di cui mi sono perdutamente innamorata inconsapevolmente.
Mi prenderesti il volto tra le mani asciugandomi le lacrime coi pollici e con i tuoi baci.
Mi stringeresti forte tra le tue braccia, sentirei il battere veloce e rassicurante del tuo cuore (solo il sentirlo battere, sapere che ci sei, che sei vivo, stai bene, mi riempie di gioia), ed inspireresti l'aria tra i miei capelli.
Te ne fregheresti di chi ti ha accompagnato sotto casa mia, chiuderesti il portoncino e mi baceresti.
Quei baci lì, quelli che mi dai in questi momenti, sono i migliori: i più belli, i più dolci, i più disperati, i più famelici, i più passionali, carichi di amore, di speranze e promesse.
Mi diresti quanto mi ami e che non mi lasceresti mai e saliremmo a casa mia oppure ti faresti riaccompagnare a casa.
Ma non sei qui.
Stavolta non ho sbagliato nulla.
Era solo la troppa voglia di viverti fino all'ultimo secondo.
Non so perchè ti ho stancato.
Hai permesso che mi sentissi scomoda, in più e lo sapevi.
Hai permesso che scendessi da quella macchina.
Non hai detto una parola.
Una cazzo di parola!
Non sei sceso, non mi sei corso dietro bloccandomi e dicendomi di rimanere con te.
Ho sperato fino alla fine, con tutta me stessa, in quei quattro passi che mi distanziavano da casa, che lo facessi.
Invece ho infilato le chiavi nella toppa, mi sono voltata e voi ve ne stavate già andando.
Non so di preciso dove, ma ho sentito qualcosa frantumarsi dentro di me in quel preciso istante.
Non ci credevo.
Non trovavo l'aria, avrei voluto urlare, sfogare la frustrazione e il senso di impotenza.
Ma avevo un'ultima speranza.
Sono entrata a casa in lacrime, non mi sono cambiata per dei buoni quaranta minuti, aspettando.
Aspettandoti.
Ti avevo lasciato, contro la mia volontà e la mia dignità, tre messaggi.
Non mi hai chiamata.
Non mi hai risposto.
Non sei venuto.
È un litigio, una cazzata come tutte le altre.
Ma stavolta tu non ci sei e il tuo amore non sta asciugando le mie lacrime.
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