Veronika. Tutto da capo

Martedì 10 luglio (notte fonda)

Un letto non mi era mai sembrato così freddo e inospitale quanto quella volta. Nemmeno quando ci avevo dormito, dopo che avevo baciato Ryan per la prima volta, mi aveva infastidita tanto, quella lontana notte di più di una settimana prima. Così lontana da dare l'impressione di non essere mai esistita, di essere stata solo una vecchia e stanca proiezione della mia mente.

Forse mi sembrava lontana solo perché ormai ero completamente abituata a dormire e a svegliarmi accanto a Ryan.

Quante cose erano cambiate, in quel lasso di tempo sia breve che lungo, da quando ero scappata dall'ospedale ed ero crollata davanti alla porta di casa dei due fratelli, pensai con un'amara punta di malinconia, tracciando dei cerchi immaginari sul lenzuolo.

Non sapevo nemmeno il motivo di quella tristezza improvvisa. Possibile che mi mancasse la mia vecchia vita? Possibile che mi mancasse passare da un uomo a un altro - o da una donna all'altra - senza il minimo pudore o un minimo di coscienza? Possibile che mi mancasse venire picchiata puntualmente ogni giorno, ogni ora, ogni minuto per un pretesto qualsiasi, a volte anche inesistente? Possibile che mi mancasse stringere tra le mani denaro sporco per poi vedermelo strappare subito dopo che mettevo piede dentro casa?

Tu sei malata...

La ignorai, concentrandomi su altro.

...Hai un tetto sulla testa e puoi finalmente riscattarti e tu cosa vuoi? Tornare in quel bordello?

Mi girai verso la finestra, trovandomi costretta a darle ragione. Nonostante tutto.

Anche se il passato mi avrebbe seguita ed etichettata per sempre, era ora di lasciarmelo alle spalle. Chiuderlo dentro un forziere che non avrei mai più dovuto aprire. Un forziere che poi avrei riposto lontano dalla vista, in un angolino remoto del mio cervello, e l'avrei lasciato lì: a prendere polvere.

L'aveva fatto Ivanna, provando a dimenticare mia madre e il suo suicidio insensato, lo stava facendo Ryan. Perché non sarei dovuta riuscirci anche io?

Ryan è un debole.

Alzai gli occhi al cielo, seccata. Solo perché le avevo dato ragione non era detto che dovesse continuare a irritarmi i nervi con la sua presenza astratta. Ma sapevo che se avessi cercato di scacciarla via con la forza avrebbe ripreso il controllo su di me e sarei finita dentro la stessa gabbia dell'altra volta.

Quindi dovevo solo ignorarla.

Non sto scherzando, Ryan è un debole davvero.

«Tu sei debole...» biascicai.

Non so a chi fosse riferito, se a me o a lei. Dopotutto eravamo due facce della stessa medaglia.

Io la reale, lei quella finta.

La immaginai scuotere la testa spazientita e alzare gli occhi al cielo.

Prima vi ha difese? Eh? Ha fatto qualcosa? No, è rimasto lì a guardare.

Tentai di giustificarlo, pensando che non fosse colpa sua. Che avesse provato a fare qualcosa ma le sue gambe glielo avessero impedito. Che senza il suo taser non sarei mai riuscita a combinare nulla. Che... tante altre cose.

Ah sì? E come mai non sei con lui?

Ammutolii. Non seppi più come ribattere.

Dopo che avevo aperto la porta a un Jona trafelato e turbato, qualcosa mi aveva impedito di andare a stendermi vicino a Ryan e così ero fuggita nell'altra stanza, chiudendomi silenziosamente l'uscio alle spalle.

Un qualcosa che ancora adesso mi impediva di alzarmi dal letto e correre da lui. Era vergogna? Imbarazzo? Delusione? Non ero capace di trovare una risposta. O forse non volevo cercarla.

Ed era sempre lo stesso qualcosa che, nella fretta, non mi aveva permesso di afferrare la borsa del ghiaccio e di portarmela dietro, per premerla contro il livido sullo zigomo. Ora quella giaceva ancora abbandonata sulla mensola su cui l'avevo poggiata, prima di aprire la porta a Jona.

Visto? Ryan è debole.

Mi morsi il labbro e scossi la testa.

Non aveva deciso lui di fare un incidente stradale e di finire in carrozzina. Non aveva deciso lui di cancellare la possibilità di camminare, correre e alzarsi in piedi.

Allora va' da lui.

Piantai di più i denti nella carne e affondai la testa nel cuscino. Anche se non era stata colpa sua, al momento ancora non ero pronta a raggiungerlo.
Non sapevo il perché.
Forse era per questo che il mio letto sembrava così freddo, complice del mio senso di colpa e diario dei miei pensieri meschini.

O forse era freddo perché mi ero accorta che il debole non era Ryan.

Ero io.

Io sola non volevo andare da lui. Io sola l'avevo difeso per poi colpevolizzarlo. Io sola non avevo il coraggio di avvicinarmi, perché per la prima volta mi ero ritrovata davanti all'atroce dubbio di aver puntato sul cavallo sbagliato.

Io sola.

Mercoledì 11 luglio (mattina)

Con la coda dell'occhio osservai Ryan, seduto vicino a una colonna, e lo salutai con un sorriso. Lui ricambiò con un bel pollicione in su.

Era bello quel giorno. Qualcosa di indefinito lo rendeva misteriosamente attraente al mio sguardo e scatenava un uragano di farfalle impazzite nel mio stomaco.

«Sei molto bella.»

La frase mi riportò alla realtà e mi costrinse a tornare con gli occhi sul ragazzo davanti a me.

Finsi di arrossire e scavai a fondo della mia memoria alla ricerca della mia battuta.
Una battuta che avevo imparato con così tanta fatica, qualche ora prima.

«Lo dici a tutte» replicai, accarezzando distrattamente il bordo arrotondato del tavolo.

Matthew sorrise e si strinse nelle spalle. «Vero. Ma nessuna lo è come te.»

Roteai gli occhi, come da copione, e arrossii di nuovo. Siccome non ero una che lo faceva spesso, per non dire quasi mai, Arleen mi aveva insegnato un piccolo trucco: trattenere il fiato, senza dover gonfiare le guance come un roditore. E funzionava, anche se dopo svariati istanti in cui non succedeva nulla.

«Dai...» cicalai civettuola. «Smettila! »

A quel punto avrei dovuto ridacchiare e dargli una pacca scherzosa sul petto.

Solo che non misurai bene la cosa e gli mollai un pugno sulla spalla. Forte.

Se Chiappe d'Oro aveva provato dolore, non lo diede a vedere ma notai un fastidio divertito nei suoi occhi.

Matthew andò al mobiletto e tirò fuori una bottiglia di vino, versandone il contenuto in due bicchieri di scena, spuntati dalle magiche mani dello staff.
Me ne porse uno e io con un sorriso scemo lo accettai e lo portai alle labbra.
Quel ruolo stava cominciando a darmi sui nervi. Più volte mi ero ritrovata a ingoiare frecciatine e battutine acide in rispetto al copione.
Ma davvero le sottomesse erano così?

Matthew tornò alla carica.
«Allora... Che fai stasera? Oh, a proposito, non mi hai detto come ti chiami.»

Quella era facile. Ancora non mi ero trovata sul punto di una crisi d'identità.

«Mi chiamo...» iniziai ma mi bloccai quando vidi Ryan girare la carrozzina e dirigersi veloce verso la porta. Era arrabbiato.

Dimenticai tutto.

«Scusami...»

Feci per corrergli dietro quando un urlo infuriato risuonò nella sala.

«No! Stop! Stop!»

Christopher comparve al mio fianco, arrivato da solo Dio sa dove, e mi strinse un braccio.

«Dove credi di andare?» sibilò incollerito. In quegli ultimi giorni l'avevo visto molto stressato, ma non avevo tempo per fermarmi e fargli da psicologa.

Mi divincolai e gli schiaffai sulle mani il bicchiere, ancora pieno di vino.

«All'esterno» replicai criptica, prima di fiondarmi alla ricerca dell'ex modello.

Lo trovai che divorava veloce il marciapiede allontanandosi dal parcheggio dell'hotel.

Gli corsi dietro, i tacchi che ticchettavano sull'asfalto.

«Ryan! Ryan!»

Lui si fermò e chiuse gli occhi, ma non diede l'impressione di avermi sentita.

Azzerai la distanza tra di noi e piombai al suo fianco.
«Ryan?»

Lui mi guardò, senza una parola.

Ancora più preoccupante. Temevo che gli fosse successo qualcosa.

Gli posai una mano sulla spalla.
«Cosa c'è? » domandai affannata.

Ryan sospirò, ma continuò a rimanere in silenzio.

«Va tutto bene?» riprovai, la fronte corrugata.

L'ex modello emise un altro sospiro frustrato, come se dovesse liberarsi da un peso, e guardò in basso.
Ma durò solo un momento perché subito dopo tornò a intrecciare gli occhi coi miei.
«Dobbiamo finirla qui» mormorò.

La Terra smise di girare.
E il mio cuore si arrestò con lei.

«Cosa?» biascicai. Forse non era quello che stavo immaginando. Forse era altro. Doveva esserlo.

Non poteva essere quello scenario che, nonostante i miei sforzi di mandarlo via, continua a presentarsi davanti ai miei occhi.

No.

Ryan tolse delicatamente la mia mano dalla sua spalla, con un falso mezzo sorriso di rassegnazione.

«Il nostro rapporto» spiegò. «Deve finire. Torniamo come prima. Non sono adatto per te e tu non sei adatta per me. Cercatene un altro.»

Ogni mia speranza finì in frantumi.

Se prima il mio cuore si era arrestato, ora s'incrinò fino a rompersi completamente.

«Cosa?» ripetei in un sussurro, la gola in fiamme.

«Devo farti un disegno? Finiamola. Non avrebbe senso continuare. Hai presente il detto "restiamo amici"? Ecco» replicò giulivo. Ma avvertivo qualcosa di forzato nel suo tono di voce, come se quelle parole le stesse sputando fuori a forza, e ciò fece riaffiorare un minuscolo spiraglio di speranza.

«Puoi continuare ad essere la mia assistente, se ti interessa» aggiunse, fissandosi le unghie.

A quel punto non ci vidi più. La mia mente si scollegò completamente dal resto del corpo e vidi rosso.

Mi scagliai su di lui e prima di trattenermi gli mollai uno schiaffo così forte che, quando la ritirai, la mia mano bruciò come se l'avessi infilata in un camino acceso.

La testa di Ryan scattò verso destra.

«Stronzo!» gli gridai con le lacrime agli occhi.

Non ci ero rimasta male perché stava troncando un rapporto appena nato, ma perché era convinto che sarei rimasta volentieri al suo fianco. Come se ai suoi occhi io non valessi un cazzo. Come una puttana.

L'ex modello s'inumidì le labbra con la lingua e si voltò di nuovo verso di me.

Un segno rosso era comparso sulla sua guancia, eppure non mi sentivo soddisfatta. Neanche un po'.

Una vena aveva iniziato a pulsargli minacciosa sulla tempia e un rogo infuriato gli aveva incendiato le iridi verdi.
Perfetto. Adesso eravamo in due ad essere arrabbiati.
Certo, due caproni inalberati sono meglio di uno!

«Sei contenta ora?» sibilò lui.

«No!» ringhiai «Tu sei contento! Contento di avermi ridotta in questo stato! Credi che io sia cartastraccia? Da usare e buttare quando vuoi?»

«Ma che cazzate vai sparando?»

«Io? Ma se sei tu che mi stai lasciando!» vociai. Avevo smesso di cercare di trattenere le lacrime e ora le lasciavo rotolare liberamente lungo le mie guance, permettendo loro di spegnere pian piano il fuoco che mi stava divorando dall'interno. Era meglio che bruciassi fuori anziché dentro. Così non mi sarei consumata da sola.

Mi accorsi che stavamo dando spettacolo. Con la coda dell'occhio, infatti, vedevo qualche ficcanaso appostato in lontananza, abbastanza distante per non mettersi in mezzo e passare per un viandante, ma non tanto per poterci ascoltare in tutta tranquillità. Li vedevo allungare il collo da giraffa verso di noi, eppure nessuno osò avvicinarsi di più. E facevano bene. Altrimenti avrei lanciato in testa a ciascuno un sasso.

Che persona educata!

«Lasciando?» esplose Ryan. «Non stiamo neanche insieme!»

Mi bloccai.

Perfino le lacrime sembrarono frenare la loro folle corsa verso il basso.

Era vero. Noi due non eravamo una coppia.

Come tu sia riuscita a scordare un dettaglio del genere è ammirevole... Applausi alla signorina!

Avrei picchiato pure lei se solo fosse stata reale. Ma non lo era e solo io ero costretta a subirmi una feroce lotta mentale.

Sbattei velocemente le palpebre, mentre cominciavo ad avvertire uno strano tic all'occhio destro.
Mi stavo agitando.
D'istinto mi portai una mano al petto e mi piantai le unghie nella cicatrice, iniziando a grattarla furiosamente.

«Perché vuoi farlo?» sussurrai stancamente.

«Te l'ho detto. Non siamo fatti l'uno per l'altra e...»

Non lo lasciai finire. Mi catapultai di lui e gli tappai la bocca con la mano.
«No! Non me ne faccio niente delle tue frasi da manuale! Io voglio la verità.»

«Questa è la verità! »

«No! Questa è quella che tu vuoi farmi credere sia la verità, ma io voglio la vera versione dei fatti.»

Ryan distolse lo sguardo.
«Sono inutile» mormorò alla fine.

Tolsi gradualmente la mano dalla sua bocca e lo fissai confusa.
«Inutile? Perché dici così?»

L'ex modello emise uno sbuffo di dolore. «Mi hai visto? Io. Non. Ho. Le. Gambe. Non posso alzarmi in piedi, non posso fare un cazzo di bagno senza l'aiuto di qualcuno, non posso nemmeno proteggere due ragazze da un attacco in casa mia!»

Mi asciugai le lacrime ormai cristallizzate sulle guance con un gesto stizzito della mano e m'inginocchiai davanti a lui, stringendogli una mano tra le mie.
Per la prima volta da quando l'avevo conosciuto, mi apparve non più come uno stronzo distaccato, ma come un bambino con cui la vita era stata ingiusta.

«Ma...»

«Matthew è molto meglio di me. Va da lui» m'interruppe.

Lo fissai con un sopracciglio inarcato. «Che c'entra Matthew?»

«Può fare tutto quello che non posso fare io. Può correre in spiaggia con te, può camminare al tuo fianco, può proteggerti. Io no.»

«È questo che ti preoccupa?» mormorai dolcemente. «Ryan, devi smetterla di vederti come uno sbaglio, come una persona senza possibilità di riscatto.»

Tuttavia lui non diede l'impressione di avermi sentita.
«Va' da lui» ripeté come in stato di trance.

Persi la pazienza. Lo afferrai per le spalle e lo scossi.
«Ma io non voglio Matthew!» sbraitai esasperata. «Voglio te. Te. Voglio Ryan Morgan, non Matthew Evans. Voglio l'uomo che mi ha parato il culo quella volta al supermercato, l'uomo che mi ha difesa davanti a Mike, l'uomo che mi ha accolta in casa sua, l'uomo che mi ha promossa assistente e che ha perdonato ogni mia cazzata, l'uomo che mi fa sorridere con le sue battute sarcastiche, l'uomo che durante la notte mi stringe a sé e mi coccola. Voglio lui, non quello con un culo di marmo con cui devo recitare solo un benedetto ruolo!» esclamai. Avevo parlato senza fermarmi un secondo, così alla fine mi ritrovai senza fiato. Ma ebbi comunque la forza di aggiungere un'altra cosa.
«E non mi interessa se si sposta su una carrozzina, anziché sulle sue gambe.»

Ryan che, all'inizio del mio discorso si era rilassato, ora tornò ad oscurarsi.

«Anziché sulle sue gambe?» ripetè sconvolto. «Davvero?»

Provai a rimediare al mio errore. «No... io intendevo...»

«No, no, tu intendevi proprio quello che hai detto. Lasciami in pace, guarda.»

Sbuffai e lanciai un gemito di frustrazione. Poi all'improvviso mi venne un'idea.
Scattai in piedi e mi piazzai dietro di lui.
Ryan si mise subito sulla difensiva.

«Che vuoi fare?»

«Andiamo a casa. Voglio fare una cosa.»

«Ma le prove... e poi posso andarci da solo!»

Lo ignorai e mi feci spazio tra quella piccola folla di curiosi.

...

«Togliti la maglia.»

Ryan inarcò un sopracciglio.
«Perché?» fece sospettoso.

Mi misi le mani sui fianchi, come una vecchia bisbetica, e lo fissai truce. «Toglitela e poi stenditi a pancia in giù sul letto» ordinai risoluta. «Se non lo fai tu lo farò io» aggiunsi quando lo vidi esitare.

Ryan sbuffò. «Okay, lo faccio, ma perché mi va, non perché me l'hai detto tu» bofonchiò e si levò la t-shirt dalla testa. Non si distese prono, ma sorvolai sulla cosa.

«Che bambino» borbottai, lottando contro una risata impertinente che mi stava solleticando la gola.

Mi arrampicai sul letto e mi portai dietro di lui, deglutendo rumorosamente.

Eccole lì. Le cicatrici. I segni del suo passato che lui temeva e nascondeva. Eccole lì, lunghe e profonde.

Ma non mi feci intimidire.

Gli strinsi le spalle e mi chinai in avanti.

«Veronika?» esordì Ryan scettico. «Che diavolo vuoi fare?»

Non risposi.

Poggiai un dito sulla prima cicatrice e delicatamente ne traccia la forma, in una lieve carezza.

Le sfiorai, andai a scoprirle tutte, dalla prima all'ultima. Toccai anche quelle che stavano sbiadendo. Non tralasciai nulla, neanche la più piccola.

«Veronika?»

Alle mie dita sostituii le labbra. Baciai ogni singola ferita, senza provare disgusto o voglia di ritirarmi.

Mia mamma lo faceva sempre e ricordo che stavo subito meglio. Se avesse aiutato Ryan, perché non farlo?

Circondai il collo dell'ex modello con le braccia e mi sporsi in avanti, la mia guancia premuta contro la sua.
«Visto?» sussurrai. «Non mi fai schifo, Ryan. Le tue cicatrici non mi fanno paura. E non mi fai paura tu.»

Lo avvertii irrigidirsi sotto di me e non ne capii il motivo.

«Non sai quello che dici.»

Gli baciai il collo.
«Invece sì» mugolai.

Ryan mi strinse il polso, costringendomi ad alzare il viso e a guardarlo.
La sua espressione non presagiva a nulla di buono.

Tempesta in arrivo...

«Non è baciando le mie cicatrici che cancellerai il peso del passato. Non è baciando le mie cicatrici che mi restituirai le gambe.»

Provai a restare razionale.
«Era per farti capire che per me l'aspetto esteriore non conta.»

Ryan alzò la voce. «Sì, ma c'è modo e modo!»

Scattai all'indietro come sei mi avesse punto un calabrone.
«Che vuoi dire?» domandai tra i denti. Cos'è che gli dava fastidio? Il fatto che lo avessi costretto a spogliarsi? O le mie parole?

Non capivo.

L'ex modello mi guardò al di sopra della spalla. «Niente» sbottò. «Solo, non farlo più.»

Scesi dal letto e mi portai davanti a lui, incrociando le braccia sotto al seno.
«Perché?» lo sfidai.

Lui sbuffò seccato e si rimise la maglia. «Veronika non assillarmi!»

«No, ora voglio sapere cosa ti dà fastidio.»

Ryan scivolò a fatica sulla sedia a rotelle e si girò verso la porta, facendo intendere che non voleva più continuare quella conversazione.
Io però non ero dello stesso avviso.
A larghe falcate lo superai e mi frapposi tra lui e l'uscio.

«Tu non esci almeno finché non mi spieghi.»

L'ex modello roteò gli occhi. «Devo pisciare. Me lo permetti?»
Senza aspettare una mia risposta, mi scostò con il braccio e schizzò nel corridoio.

Lo seguii. «Allora entro con te.»

Ryan aprì la porta del bagno.
«Posso avere un po' di privacy in casa mia?!»

Non mi lasciò replicare. Appena azzardai un passo verso di lui, mi ritrovai con l'uscio chiuso a un palmo dal naso.

«Che rompi coglioniii!» strillai, allungando di proposito la i finale.

...

Ryan rimase in bagno dieci minuti e ventidue secondi. Troppi anche per un uomo.

Lo attesi appoggiata alla parete per tutto il tempo, riflettendo sulle frasi che gli avrei rivolto appena l'avessi visto tornare tra i vivi.
Sapevo che la porta non era chiusa a chiave, ma non mi andava di irrompere nella toilette tipo la polizia.
Quindi mi armai di una percentuale minima di pazienza e aspettai.

Aspettai.
Aspettai.
E aspettai. Sempre più stizzita, sempre meno tranquilla.

Poi quando vidi la porta aprirsi e Ryan ricomparire, mi lanciai su di lui come un missile.
«Si può sapere che stavi facendo là dentro? Non sto così tanto in bagno nemmeno quando ho il ciclo!»

L'ex modello sbuffò infastidito e mi sorpassò, andando in cucina.
Lo tallonai come un fedele cane da guardia.
Si stava scolando una birra ghiacciata.

Alla vista del suo sexy pomo d'Adamo che faceva su e giù, decisi di lasciar perdere la questione del bagno e delle cicatrici per concentrarmi su quella principale.
Ero certa che avessimo risolto tutto.

«Ryan... quindi?»

«Quindi cosa?»

Deglutii, tutta la mia sicurezza che sembrava svanita di colpo.

«Quindi... noi. Siamo "ancora amici"?»

Ryan gettò la lattina vuota nel contenitore della spazzatura e puntò lo sguardo su qualcosa oltre le mie spalle, prendendo tempo.

«Quindi niente. Resto fermo nelle mie convinzioni. È meglio dimenticare ciò che è stato tra di noi. Puoi restare con me e mia sorella quanto vuoi, ma basta rapporti intimi.»

Mi sentii male.
Per poco non caddi a terra.
Il mio cuore implorava pietà, aveva subito tanti di quegli affondi da essersi spezzato senza possibilità di ricollegare ogni pezzo all' altro. "Basta!" urlava. Basta, basta, non ne posso più.

«Ma perché?»

Ryan sospirò stanco. «Non farmelo ripetere.»
Si avvicinò a me e mi diede un paio di colpetti consolatori sulla spalla.
«Mi dispiace. Troverai sicuramente un altro, migliore di me.»

La tipica frase di chi crede di aver fatto una buon azione e vuole ripulirsi la coscienza.

La tipica frase di chi è nato stronzo senza possibilità di redenzione.

«Su col morale, ragazza!»

Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Con un urlo spostai la sua mano e balzai indietro.

«Non toccarmi!» sibilai folle. «Lasciami stare! Hai proprio ragione, non sei adatto a me. Le persone adatte per me sono quelle che mi pagano per aprire le gambe. Mica tu.»
Singhiozzi isterica. «Hai ragione! Sono quelle che mi violentano un giorno sì e l'altro pure. Grazie per avermelo ricordato!»

Non rimasi ad ascoltare le sue parole, mi catapultai fuori e corsi in camera.
Il petto era squassato da singulti rapidi e piccoli, ma non piangevo più. Ormai avevo esaurito tutte le lacrime.

Afferrai la mia roba dal cassetto, tutta quella che riuscii a infilare nelle tasche dei pantaloni, e presi i sandali coi tacchi vertiginosi, prima di tornare fuori e dirigermi come una furia verso la porta.

«Veronika!» urlò Ryan, ma io quasi non lo sentii.

Tolsi il telefono che mi aveva regalato e lo buttai con noncuranza sul divano.

«Veronika!»

Girai il pomello della porta di casa e mi fiondai giù per le scale.

...

Le risate e gli schiamazzi giungevano fino alla strada.
Salii i tre scalini della veranda e bussai col pugno chiuso alla debole porta di legno marcio.

Il cuore dava l'impressione di volermi schizzare fuori dal petto, dopo la corsa folle che avevo fatto per raggiungere la mia vecchia casa.

L'uscio si spalancò e Sylvia - la mia cara e piccola Sylvia - comparve sulla soglia.
Ma non mi accolse con gioia, anzi, il suo sorriso scomparve sostituito da una smorfia di disgusto.

«Che cazzo vuoi?»

Presi fiato. «Tornare da voi. Ricominciare tutto da capo.»

«Chi tradisce lo fa per sempre.»

Singhiozzai. «Ti prego Sylvia... mi sono pentita. Siete voi la mia famiglia.»

Strano come il mio patrigno avesse detto quella stessa frase una settimana prima. Aveva ragione.

La ragazza non si fece intenerire. «Hai mandato in prigione Mike» replicò sferzante.

Scoppiai in lacrime. «Lo so! Ma ora sono qui!»

Sylvia ci rifletté a lungo, fissandomi come un lupo. Poi tornò a sorridere.
Mi afferrò per un braccio e mi strattonò verso di sé.

«Bentornata sorella!» E mi baciò.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top