Veronika. Mille lacrime e una lettera
Sabato 15 luglio, mattina
Seduta sul morbido sedile in pelle dell’auto di James, lottavo contro i postumi di una sbornia maledetta.
Avevo un mal di testa atroce e la voglia di vivere pari a quella di un calzino rivoltato.
E poi cominciavo ad odiare quella brutta cintura di sicurezza che mi stava stritolando dolorosamente le gemelle.
Del giorno precedente ricordavo poco o nulla. Della sera non parliamone. Ricordavo, per esempio, lo shopping sfrenato, il momento in cui - al bar con Kaylee - la mia vocina aveva cercato di convincermi a versarle in testa il suo frappè al cioccolato, quando avevo trascinato Kay dal tatuatore per farmi fare un piercing sulla lingua, i corpi sudati che si strusciavano gli uni contro gli altri, James.
Ricordavo di aver bevuto fino a stare male e a dimenticare perfino me stessa.
Il resto invece si perdeva in una nube confusa e frastagliata.
Ma una persona non ero riuscita a scordare: Ryan.
Nemmeno le strisce di coca o le due canne che mi ero fatta – con gente a caso – non erano servite a molto.
Anzi non erano servite proprio a nulla.
Ryan continuava ad essere una presenza fissa nei miei pensieri, un fiore appassito nel mio cuore e una lacrima invisibile sulla mia guancia.
Più di una volta mi era parso di vederlo tra migliaia di volti anonimi, di sentire la sua voce al di sopra delle altre.
Gettarmi tra le braccia di James e di tanti prima di lui, non l’aveva cancellato dalla mia mente.
In quei tre giorni ero stata a letto con talmente tanti uomini da non ricordare neanche più i loro visi o i loro nomi.
Questo non riguardava l’ex modello. Lui era l’unica persona il cui ricordo bruciante seguitava a vivere dentro di me.
Forse sarei dovuta tornare. Da lui.
Rimangiarmi le mie parole e distruggere la prima decisione che avessi mai preso in vita mia.
Forse avrei dovuto passare una gomma invisibile sugli ultimi avvenimenti e fare finta di nulla.
Forse avrei dovuto calpestare ciò che rimaneva della mia dignità ancora una volta.
Mi sarei accontentata di vederlo.
Sarei stata felice. Sì.
Scossi la testa affranta e scacciai via quei pensieri frivoli. Accanto a Ryan non sarei mai stata felice. Sarei stata bene. Ma non felice.
Perché lui non mi avrebbe mai dato ciò che io gli chiedevo. Quello era riservato solo al ricordo sbiadito di Kate e della piccola Zoey.
Non alla puttana che gli era piombata in casa tra capo e collo.
Non alla puttana che gli aveva distrutto la stanza in un raptus di follia e che poi l’aveva baciato disperata.
Non alla puttana che aveva combinato ogni cazzata possibile immaginabile come una bambina.
Non alla puttana che segretamente aveva cominciato ad amarlo.
Mi lasciai andare contro lo schienale e chiusi gli occhi, dando il permesso alle lacrime di scivolarmi lungo le guance.
Silenziose e continue.
…
Bussai alla porta con impazienza.
James mi aveva scaricata davanti alla casa della mamma di Kaylee – che tra l’altro ancora non ero riuscita a scoprire chi fosse – senza una parola.
Meglio così. Quello che era successo tra di noi sarebbe rimasto qui a Washington.
Durante il tragitto nessuno dei due aveva parlato, se non per capire dove fossimo diretti.
O forse ero stata io a troncare qualsiasi desiderio di scambiare due chiacchiere, chiudendo gli occhi e girandomi su un fianco.
Quando ero scesa, mormorando solo un saluto distratto, lui non mi aveva fermata.
Nessuno dei due aveva pensato di chiedere all’altro un secondo appuntamento, nessuno aveva pensato a scambiarsi i numeri di telefono
Semplicemente io mi ero avviata verso la casa e lui era partito sgommando, diretto per chissà dove.
Non mi era dispiaciuto affatto.
Anche se era un figo di ragazzo, James non mi aveva entusiasmato più di tanto.
A parte il bel viso e i pettorali da urlo, non aveva nient’ altro.
Perfino il suo amichetto era piccolo.
Bussai con più forza, sbuffando seccata dalle narici e picchiettando la punta del piede contro il pavimento.
Già ero nervosa per non essermi fumata la mia sigaretta quotidiana e per aver finito il pacchetto, se avessi pure dovuto aspettare sarei esplosa.
La porta rimase chiusa.
Torturai coi denti il piercing – scomparso il dolore iniziale, diventava una cosa troppo fantastica! – pensierosa.
Perché Kaylee non apriva? Stava ancora dormendo? Sarebbe stato alquanto strano dato che la mattina prima mi aveva svegliata alle nove.
E ora erano le undici e mezza.
«Kay?»
Iniziai a preoccuparmi. Forse con il ninja che era lei non avrei dovuto farlo, ma non potei impedirmi di entrare in paranoia.
Possibile che le fosse successo qualcosa?
Mentre entravo mi era sembrato di vedere una berlina nera di grossa cilindrata parcheggiata davanti al cancello, come una di quelle che usano i boss mafiosi.
Mi spieghi perché vedi boss mafiosi ovunque?
Finalmente, dopo ore di assenza, Veronika due – avevo pensato di darle generosamente il mio nome, quando due sere prima Kaylee si era messa a ballare in topless sul bancone del bar e ridacchiando aveva biascicato che vedeva due Veronike – aveva deciso di onorarmi con la sua irritante presenza.
Noiosa.
Ma questo non spiegava come mai la ragazza ancora non mi avesse aperto la porta.
E se davvero le fosse successo qualcosa? Tipo quello che era accaduto a Kat a casa di Ryan?
Serve ricordarti che ti stai preoccupando per una che ha cercato di strozzarti come un pollo?
Mi attaccai al campanello con entrambe le mani.
Sì che serve.
«Kaylee!»
La porta si aprì, ma non fu Kay ad accogliermi sulla soglia. Fu Gonçalo.
Quindi l’auto da mafioso era sua!
Inarcai un sopracciglio nello stesso istante in cui lo fece lui.
«Che ci fai qui?» domandò scontroso. Come se fosse casa sua…
Scacciai la fastidiosa sorpresa di essermelo trovato davanti. «Che ci fai tu qui?! Dov’è Kaylee?»
Però nel mentre che lo dicevo mi accorsi che non m’importava davvero cosa ci facesse lui lì.
Che fosse venuto a cercare la ragazza non era affar mio.
Senza attendere una sua risposta, lo scansai con il braccio ed entrai in casa. «Levati. Ho fame. E sete. E ora che ci penso anche il vomito.»
“Perché ci sei tu” avrei voluto aggiungere, ma ingoiai quello e tutti gli epiteti poco lusinghieri che mi sarebbe piaciuto lanciargli.
Avevo sonno. Tanto sonno. Volevo solo buttarmi sul letto e dormire fino al prossimo Natale. Così mi sarei svegliata, avrei mangiato e poi sarei tornata a letto.
Non era male come piano e avrebbe anche potuto funzionare, se non avessi visto Kaylee appoggiata contro la parete, le braccia incrociate sotto al seno, con il viso di una sull’orlo delle lacrime.
Mi tolsi i tacchi, sospirando di sollievo, e la raggiunsi.
«Kay? Che succede?»
Ma prima che potesse aprire bocca, Gonçalo entrò nel soggiorno e rispose a posto suo.
«Succede che torniamo a San Diego.»
Mi girai lentamente. «Ti chiami Kaylee? »
Lui roteò gli occhi, ma non disse nulla.
Solo in quel momento mi accorsi che era diverso. Sembrava turbato da qualcosa.
Tornai a guardare stranita la ragazza. «Avete discusso?»
Kay si passò il palmo della mano sulla guancia e tirò su col naso, sorpassandomi.
«No.»
Era successo decisamente qualcosa.
Nemmeno mia madre, quando la facevo arrabbiare, mi parlava con un tono così freddo.
Oscillai lo sguardo tra lei e Gonçalo, pensierosa.
Lei stava facendo finta di cercare qualcosa sul pavimento, lui era impegnato a fissare un punto indefinito oltre la finestra.
Entrambi evitavano di guardarsi, toccarsi o rivolgersi la parola.
Mmh.
«Ti devo parlare.» Poi senza aspettare la sua risposta, afferrai per il polso la ragazza e uscii dalla stanza, trascinandomela dietro.
Gonçalo non disse nulla né provò a seguirci.
Corsi in bagno e chiusi a chiave la porta.
Ma non eri claustrofobica?
Ah già.
Che genio.
«Veronika fammi uscire» mi ordinò stancamente Kaylee.
Mi appoggiai alla parete. «No. Che è successo?»
La ragazza sospirò afflitta e si passò una mano tra i capelli, scompigliandosi la frangetta.
Vidi le lacrime fare di nuovo capolino dai suoi bellissimi occhi di smeraldo.
«Sono nella merda» sussurrò dopo alcuni secondi di silenzio.
Inarcai un sopracciglio. «In che senso?»
Orario.
Ma smisi di stare attenta.
Le mani iniziarono a formicolarmi e la cicatrice sul petto a prudermi. Dovevo fumare.
«Aspetta!» strillai.
Ah pure ritardata.
Kay mi fissò confusa. «Veramente io non…»
«Torno subito. Resta qui.»
Spalancai la porta, mi fiondai fuori e tornai in soggiorno.
Gonçalo, che nel frattempo si era seduto su una poltrona, quando mi sentì entrare sollevò lo sguardo.
Lo raggiunsi in due falcate.
«Hai una paglia?»
Lui mi fissò come se fossi un insetto da schiacciare.
Ah quindi io adesso sarei uno scarafaggio?
Cos’avesse Veronika due quel giorno, non l’avrei mai saputo dire.
«Eh?»
Alzai gli occhi al cielo.
«Voglio fumare, Gonçalo. Hai presente?»
Lui non cambiò espressione. «E quindi?»
Lo stava facendo apposta.
Gli presi il viso tra le dita. « Mi. Dai. U. Na. Si. Ga. Ret. Ta?» scandii.
Gonçalo si allontanò seccato da me.
«Che caga cazzo» sbuffò, ma s’infilò una mano in tasca e tirò fuori un’elegante portasigarette d’argento.
Povero.
Con uno scatto lo aprì e me lo porse.
Sorrisi sorniona e presi una paglia. Poi come ripensandoci ne presi altre due.
«Ma…»
Gli feci l’occhiolino birichina. «Grazie!»
Tornai in bagno. E immediatamente il sorriso si cancellò dalle mie labbra, sostituito da una smorfia di fastidio.
Nonostante tutto, Gonçalo continuava a non starmi simpatico.
Kaylee non si era mossa. Mentre fissava pensierosa il lavandino, ne approfittai per aprire il finestrino e accendermi una sigaretta.
Me la portai alle labbra e presi una grossa boccata, rilassandomi subito. Il piercing, contrariamente a ciò che pensavo, non m’intralciava nei movimenti.
«Dimmi.»
Kay alzò il viso e i nostri sguardi s’incrociarono nello specchio.
Si stava toccando la pancia.
«Credi sia giusto uccidere una persona innocente per far vivere un’altra?» domandò in un sussurro.
Aggrottai la fronte. «Che intendi?»
Lei si accarezzò il ventre con movimenti circolari.
«Quello che ho detto. Lo faresti tu?»
Aveva un tono strano.
E per la prima volta mi fece paura.
Quella non era Kaylee, era una bambola rotta. Non era il ninja che aveva steso un ladro davanti a tutti, e nemmeno la ragazza esuberante che aveva inscenato una danza sensuale - per quanto goffa - sul bancone del bar.
Spensi la sigaretta sul davanzale e la raggiunsi cauta.
Lei si girò verso di me.
Io la presi per le spalle.
«Perché dici così? Perché ti stai toccando la pancia? Ti è venuto il ciclo?»
Fu in quel momento che Kay perse la sua maschera e scoppiò in un pianto a dirotto.
D’istinto la strinsi a me.
Anche se era forte e in grado di tener testa a mille Gonçalo – e ce ne voleva -, restava comunque una donna. Una donna con le sue debolezze e con il bisogno di affidarsi agli altri una volta tanto. E io non le avrei negato il mio aiuto.
Per quanto misero fosse.
Le accarezzai i capelli e le baciai il capo.
«Ssh… Tranquilla… si sistemerà tutto… »
Una frase detta e ridetta. Una frase così tipica da sembrare falsa.
Ma in quel momento fu l’unica a suonare una vera.
Kaylee si sciolse dall’abbraccio.
«No! No che non si sistemerà tutto! »
«E invece sì! Devi solo provarci.»
Lei si chinò sulle ginocchia e afferrò furiosa il rotolo di carta igienica.
«Balle!»
I suoi movimenti erano nervosi, scoordinati e isterici. Infatti lo Scottex le cadde più di una volta dalle mani.
Alla fine si gettò sul lavandino e trafficò con le manopole dell’acqua.
Nessuna delle due ruotò e Kay urlò di frustrazione.
«Perché non funziona!»
Mi feci avanti.
«Aspetta… Ti aiuto io.» Le aprii il rubinetto e lei infilò le mani a coppa sotto il getto dell’acqua e si bagnò il viso arrossato.
Fu strano vederla in quello stato. Di solito ero io quella che aveva dei crolli emotivi.
Ma a quanto pare capitano a tutti.
Quando fui sicura che si fosse calmata abbastanza, chiusi l’acqua e la feci sedere sul water tenendole una mano sulle spalle.
«Mi dici che succede?» azzardai.
La ragazza rimase zitta.
Mi spostai davanti a lei e m’inginocchiai.
«Kay?»
Lei tirò su col naso.
«Sono incinta. E Gonçalo non vuole prendersi la sua responsabilità.»
Rimasi raggelata.
Kaylee era incinta. Stava portando in grembo un bambino. O una bambina.
Per un momento provai a immaginare come sarebbe stato esserlo. Diventare mamma. Farsi chiamare “mamma”.
Se Mike non mi avesse fatta abortire a suon di botte, probabilmente avrei dato alla luce a una femmina. Ne ero sempre stata convinta. Mi sarebbe tanto piaciuto chiamarla Isabelle, come mia madre.
Scacciai stizzita quel pensiero stupido. Quella speranza era morta tanto tempo prima.
«Sei sicura di quello che dici? Hai fatto il test?»
Ricordavo ancora quando Mike mi aveva costretto a farlo. Ricordavo l’angoscia, le preghiere che non fosse vero, il primo schiaffo, gli insulti, il sangue sulle piastrelle, Sylvia che correva in mio aiuto e poi veniva picchiata anche lei…
Ritornai al presente.
Kaylee stava scuotendo la testa.
«No, ma… sono giorni che non ho il ciclo.»
Forzai una risata. «E allora? Capitano a tutti dei ritardi, ma l’importante è non fasciarsi la testa prima essersela rotta. In quanto a Gonçalo, beh… è uno scemo. »
Lei mi fissò speranzosa.
«Dai principessa, fammi un sorriso che sei bellissima!» esclamai, lottando contro un doloroso groppo in gola.
Kaylee rise e si sollevò in piedi.
«Hai ragione» replicò sollevata, anche se percepivo qualcosa di forzato nel suo tono. «Torni con me a San Diego?» poi, come avvertendo il mio scetticismo, «tranquilla, non ti porto da Ryan. Starai con me e Ivana.»
Annuii forse con un po’ troppa veemenza. «Okay. Aspetta che faccia un bisognino e ti raggiungo.»
Kaylee accennò a un sorriso e lasciò il bagno, chiudendosi la porta alle spalle.
Rimasta sola, ripensai a ciò che ci eravamo dette.
Lasciai che i ricordi mi piombassero come un macigno addosso.
E giunsi a una deprimente conclusione.
Forse dopotutto tutti i maschi sono fatti della stessa pasta. Mike era uguale a Ryan. Ryan era uguale a Gonçalo.
Tutti e tre temevano la responsabilità di trovarsi un figlio davanti. Tutti e tre agivano, ma poi scappavano di fronte all’eventualità di dover fare i conti con la realtà dei fatti.
Mike aveva paura che gli rovinassi gli affari.
Ryan che mi facessi mettere incinta solo per garantirmi un futuro.
Entrambi potevano valerne la pena, ma avevano deciso di farla.
A entrambi avevo donato il mio cuore, ma nessuno me l’aveva restituito. O meglio me l’avevano reso frantumato in mille coriandoli, così minuscoli da spazzare ogni speranza di riattaccarli gli uni agli altri.
Entrambi mi avevano illusa per poi lasciarmi da sola a fare i conti con una verità troppo dura da accettare e troppo eclatante per fingere che non esistesse.
Entrambi mi avevano abbandonata.
Sabato 15 luglio, notte
La lettera giaceva sul letto, a pochi centimetri da me. Se avessi allungato una mano, l’avrei toccata.
L’avrei presa. L’avrei aperta. L’avrei letta.
Il punto è che io non volevo leggerla. Non volevo aprirla. Non volevo prenderla. Non volevo toccarla.
Volevo lasciarla lì, sul materasso, e ignorarla.
Volevo avvicinarle l’accendino e darle fuoco.
Poi calpestare le ceneri e con un soffio farle sparire dalla mia vista.
All’inizio mi sarei probabilmente sentita in colpa, ma poi col passare del tempo me ne sarei dimenticata.
Ma sapevo che non sarei mai stata abbastanza coraggiosa per farlo.
Ero una vigliacca in tutto e per tutto, anche quando si trattava di accartocciare un foglio di carta e buttarlo nel cestino.
Quando Kaylee me l’aveva portata, dicendo che era da parte di Ryan, non ci avevo creduto. Pensavo fosse l’ennesimo scherzo di cattivo gusto che il destino mi giocava.
Poi avevo detto alla ragazza di poggiarla sul letto e da lì era rimasta.
Nel frattempo avevo cenato con Kay, suo padre e Ivanna, mi ero fatta un lungo bagno e avevo fumato le ultime due sigarette che mi restavano.
E ora? Cosa avrei dovuto fare?
Leggila.
Coi denti spostai in avanti il piercing fino a far sbucare la pallina nera fuori dalle labbra.
Ero pronta?
Leggila!
No. Non l’avrei letta.
La presi in mano. La carta riportava il logo del Parco dei Principi.
L’aprii piano, ma non l’avrei letta.
Avrei solo dato un’occhiata.
Una piccola e fugace occhiata.
Non era molto lunga.
Non l’avrei letta.
…
Veronika
Sai che non sono un tipo romantico né tantomeno il tipo da scrivere lettere. Ma ho bisogno che tu sappia cosa penso di te. Cosa sto passando in questo momento.
Non ti chiedo di tornare da me, ma solo di leggere queste righe. Poi potrai stracciare il foglio, buttarlo nel camino, gettarlo in un lago.
Ma leggile.
Ho sbagliato a dirti quelle cose. Ho sbagliato a illuderti. Ho sbagliato a chiederti di stare con me.
Se ho deciso di troncare ciò che c’era tra di noi è perché tu meriti molto di più. Meriti uno che sappia stare al tuo fianco, uno che ti protegga, uno che ricomponga il tuo cuore, uno che sappia capirti.
Io non sono così. Non sono stato al tuo fianco, non ti posso proteggere, non posso ricomporre il tuo cuore né sono bravo a capire le persone.
Tu, Veronika, meriti molto di più.
Non meriti uno stronzo in carrozzina.
Ti farei solo del male.
Ne ho fatto a Kate, cosa potrebbe fermarmi dal farlo anche a te?
Hai la possibilità di rifarti una vita accanto a una persona che sia cento, mille volte migliore di me.
Non sprecarla.
Però, lascia che ti chieda un ultimo favore.
Non tornare al bordello.
Non tornare ad essere una prostituta, perché tu non sei così.
Non sei la Veronika che ho avuto la fortuna di conoscere.
Tornare al passato non ti permetterà di vivere il futuro.
Ma rafforzare il tuo presente sì.
Ciao Veronika, abbi cura di te.
Ryan.
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