Veronika. La vera me
Domenica 1 luglio (sera)
Mi fissava, esattamente come io fissavo lui. Sotto quello sguardo distaccato, sentii le viscere rimestarsi e aggrovigliarsi tra di loro.
«Perché non ti dai una possibilità, Ryan?» chiesi tristemente.
Non pensavo più a nulla. Non a Mike, non ai documenti che avevo trovato quel pomeriggio, non al fatto che solo pochi minuti prima avessi mollato un ceffone in pieno volto al ragazzo davanti a me.
Lui si scostò brusco la mia mano dal petto e si voltò dall’altra parte.
«Perché non me la merito» replicò, giocherellando con un pelucco sulla coperta.
Sbuffai e gli afferrai il polso, costringendolo a tornare con lo sguardo sul mio viso. «Perché sei così duro con te stesso? Perché non ti sciogli un po’? Perché ti fai del male? Credi di migliorare la situazione comportandoti in questo modo?»
Vidi l’espressione di Ryan mutare di colpo, passando da un’ interesse annoiato a un guizzo di incredulità e di sconcerto.
«Che intendi dire?» domandò, tutt’a un tratto sospettoso.
Sospirai e mi feci più vicina. Quello che stavo per dire non avrebbe fatto altro che peggiorare la cosa, ne ero consapevole, ma tentai ugualmente.
Mi dispiaceva troppo per quel povero ex modello, con il quale la vita era stata ingiusta anche più della sottoscritta.
«So tutto» sussurrai, abbassando lo sguardo. «Di Kate, di Zoey e dell’incidente» e tirai fuori i documenti che avevo nascosto sotto la maglietta.
Ryan sbiancò e io mi coprii il volto.
Quando, quel pomeriggio, ero tornata a casa dopo avere girato per San Diego senza una meta precisa, per due ore buone, avevo passato tutto il tempo da sola, in compagnia dei miei pensieri, del ticchettio dell’orologio in salotto e del rumore solitario e ipnotico del rubinetto che perdeva in cucina. Mi ero pentita di non aver voluto accompagnare Ryan e Sunny a quella mostra, dato che almeno avrei fatto qualcosa. Ma era stato solo per un momento, dato che avevo trovato una piacevole distrazione guardando la tv. All’improvviso mi era venuta voglia di leggere qualcosa, nonostante le mie difficoltà. Mi ero alzata, ignorando il dolore acuto alla caviglia, e mi ero avvicinata alla grande libreria in salotto. Avevo preso il primo volume che mi era capitato sotto tiro ed ero tornata a posto. Appena l’avevo aperto, però, dalle pagine ingiallite e consunte dal tempo era sfuggito qualcosa. Era una foto. In essa erano ritratte tre persone, tra cui avevo riconosciuto solo Ryan, senza la sedia a rotelle. Accanto a lui posavano, bellissime e sorridenti, una donna e una bambina. Girando la foto, avevo scoperto una breve dedica:
Alle mie due principesse, Kate e Zoey. Vi porto nel cuore, R.
Inizialmente non avevo capito. Mi ero chiesta chi fossero quelle due e perché non abitassero con Sunny e suo fratello. Perché in quella foto Ryan sembrasse tanto felice e più diverso rispetto ad ora. Perché avesse perduto la sua leggerezza, diventando scorbutico e brontolone come un vecchio scaricatore di porto.
Scettica avevo sfogliato il libro che avevo tra le mani, scoprendo che in realtà era un collage di pagine di giornale, di foto e pagine interamente scritte a mano.
Mi ero fermata su una facciata a caso e avevo cominciato a leggere, divorata dalla curiosità.
E lì avevo compreso tutto. Avevo capito chi fossero Kate e Zoey, associandole finalmente a quelle frasi confuse che Ryan mormorava nel sonno. Avevo trovato risposta ai miei dubbi. Perché non abitassero con i due fratelli, perché non ci fosse una cameretta arredata per una bambina, perché la casa non fosse tappezzata di foto, disegni e ricordi. Avevo capito perché il ragazzo non era più lo stesso della foto. Avevo capito il motivo del suo modo di comportarsi.
E, stringendo il volume al petto, ero scoppiata in lacrime.
«Hai osato ficcare il naso in cose che non ti riguardano?» sibilò l’ex modello sconvolto. «Chi cazzo ti credi di essere?»
Sollevai i palmi con aria di scuse. «Mica l’ho fatto apposta! Volevo leggere e per caso ho tirato fuori questo diario.»
«E tu hai pensato bene di tenerlo!» ringhiò, afferrando il libro dal materasso e portandoselo in grembo. «Dammelo!»
Fece voltare la carrozzina e, premendo sui comandi, schizzò verso la porta.
Scattai in piedi e in quattro falcate lo raggiunsi, frapponendomi tra lui e l’uscio.
«Dove stai andando?» indagai, allargando le braccia.
«Levati! Vado a rimetterlo a posto, dato che qualcuno qui non ne è capace.»
Gli tolsi il diario dalle mani con forza e lo nascosi dietro la schiena.
«No! Ora io e te parliamo» replicai cocciuta.
Ryan alzò un sopracciglio. «Non abbiamo nulla da dirci. Ora ridammi quel cazzo di libro … altrimenti ti licenzio.»
Fu il mio turno a spalancare gli occhi «Davvero vuoi farlo? Davvero avresti il coraggio di licenziarmi?» lo sfidai.
Aveva già minacciato di farlo, prima quando eravamo immersi nella vasca, e gli avevo pure creduto, ma ora non mi interessava più di tanto. Avevo cominciato quella storia e sarei andata fino in fondo.
«Sì.» L’ex modello si allungò verso di me, ma prontamente io sollevai le braccia sulla testa, portando il diario fuori dalla sua portata. Lui s’infervorò e mi puntò un dito contro. «Sei licenziata!»
Feci le spallucce. «Ok. Ora parliamo.» E senza dargli tempo di replicare, mi piazzai dietro di lui e riportai la sedia a rotelle al posto.
«Sei licenziata, ho detto! Sparisci!» sbraitò l’ex modello.
Mi sedetti sul letto, accavallando con grazia le gambe. «E io non ti ho ascoltato. Perché ti neghi una possibilità?» continuai imperterrita.
Ryan sbuffò e incrociò le braccia sotto al petto, fissandomi truce. «Perché mi fai domande di cui sai già le risposte?»
«Perché voglio sentirlo dire da te» replicai, guardandomi le unghie.
«Ma che romantica!» berciò lui, poi quando si accorse che non l’avrei lasciato libero nemmeno sotto tortura, lasciò andare un sospiro pesante e si abbandonò contro lo schienale della carrozzina. «Non puoi sperare di tornare a vivere, ad essere quello di prima, se hai condotto alla morte, con le tue stesse mani, persone innocenti» replicò alla fine.
«Chi lo dice?»
«Io.»
«E perché?»
Ryan sbuffò irritato. «Cos’è questo, un interrogatorio?»
Non replicai, mi limitai a guardarlo negli occhi. Avevo fatto una domanda ben precisa e una risposta precisa mi aspettavo. Non mi ero mai intestardita su qualcosa, ma era anche vero che c’è una prima volta a tutto. E se avrei dovuto sperimentare “la prima volta” in questione con un modello schizzato come mezzo universo, l’avrei fatto. La sera prima mi ero sfogata io e ora attendevo paziente che lo facesse lui.
«Non ce la faccio più» sbuffò lui. «Come puoi anche solo pretendere di continuare con la tua vita come se niente fosse, quando le persone a cui tenevi più di tutto sono sottoterra, ridotti a cibo per vermi? Come puoi pretendere di avere la coscienza pulita dopo il tuo gesto? Avrai sempre le mani sporche del loro sangue. Ma di che mi lamento, sei solo una ragazzina che non ha ancora capito come gira il mondo.»
Avvertii l’indignazione montarmi dentro come un’onda gigantesca. «Ragazzina? A me? Ma ti rendi conto di quello che stai dicendo?»
Ryan si strinse nelle spalle. «Solo perché hai aperto le gambe a ogni tizio che ti passava davanti, non vuol dire che tu sia matura. Anzi. Scommetto che hai deciso di dedicarti a questa vita quando ti sei accorta di non avere nulla. Che ne so, magari, quando tua madre ti ha ripudiata. L’avrei fatto anch’io.»
Le mani mi prudevano dalla voglia di tirargli un pugno sul naso.
Scattai in piedi. «Non ti permetto di parlare così di mia madre!» urlai, la vista offuscata dalla rabbia. «Se le cose fossero andate così, come dici tu, almeno avrei la certezza che sia ancora viva. E di certo non sarei diventata quello che sono ora.»
Ryan si fece improvvisamente più attento. «Ah sì? Si è defenestrata quando ha scoperto di avere una figlia del genere?»
Mi voltai dall’altra parte e diedi un pugno alla parete, con un ringhio acuto. E ne diedi un altro. E un terzo. Mi scagliai contro il muro come una forsennata, sfogando su quell’orrendo intonaco bianco tutta la mia rabbia e la mia frustrazione. Tutto per non colpire direttamente quello stronzo in carrozzina.
Tutto in quel momento mi dava sui nervi. Tutto mi sembrava un maledetto errore. E soprattutto mi portava indietro nel tempo.
Picchiavo il muro, ma era come se immaginassi di prendere a pugni il bel faccino di Ryan.
Che schifo di colore!
Piantai nella parete le unghie e tirai verso il basso.
Perché non si toglie? Perché è ancora lì?
Mollai un calcio, ma quasi non sentii dolore, impegnata com’ero a colpire qualcosa che non mi avrebbe mai risposto.
Levati!
Le unghie si spezzarono.
Perché non ascolti? Mia madre è morta per colpa tua!
«Ora basta!» ruggì Ryan, afferrandomi per la vita e strattonandomi verso di se.
Mulinai le braccia a vuoto, cercando di raggiungere il muro, ma l’ex modello fece scattare indietro la sedia, portandomi lontano.
Mi divincolai dalla sua presa, cercando di mordergli qualche parte del corpo o di schiaffeggiarlo «Lasciami!»
Ryan, però, capì il mio piano e mi afferrò entrambi i polsi, storcendomi le braccia dietro la schiena.
«Stai ferma! Fermati cazzo!»
Lo fissai senza capire una sola parola, cominciando pian piano a calmarmi. Smisi di dimenarmi e il respiro accelerato pian piano tornò regolare, finché non si trasformò in forti singhiozzi. La testa mi cadde mollemente sul petto, mentre i singulti mi scuotevano il corpo. Ma non piansi. Il mio attacco aveva finito tutte le lacrime.
L’ex modello mi liberò i polsi e mi passò una mano sulle spalle, a disagio. «Ok… basta. Succede. È colpa mia, scusa. Ora smettila di frignare.»
Alzai di colpo il viso, incrociando i suoi occhi. Ero seduta sulle sue gambe ma non m’importava. Avevo le nocche e le dita sporche del mio stesso sangue, ma non me ne preoccupai. In quel momento niente avrebbe risvegliato il mio interesse.
Fissai Ryan a lungo, finché non assunse la forma di un’altra persona. Sapevo che era lui, l’ex modello, ma al contempo non lo era.
«Sai che ti dico?» sbottai «Hai proprio ragione!» E senza dargli tempo di rispondere, gli afferrai il volto e lo baciai.
…
Lunedì 2 luglio (prima mattina)
Avevo caldo.
Il letto degli ospiti era scomodo. Era freddo, duro, vuoto e mi faceva male alla schiena. Mi girai su un fianco, portando una mano tra la guancia e il cuscino, e fissai il muro spoglio davanti a me. Nonostante la luce accesa dell’abat-jour, il lenzuolo bianco che mi accarezzava la pelle e la stanchezza che mi avvolgeva le membra e m’intorpidiva la mente, non riuscivo a prendere sonno. Il mio corpo era fiacco, sfibrato fino all’anima, ma respingeva l’idea di rilassarsi e i miei occhi rifiutavano di chiudersi, seguitando a rimanere spalancati.
Sollevai la testa e guardai la radiosveglia sul comodino: le tre meno cinque.
Sprofondai afflitta sul guanciale.
Ripensai a poche ore prima e mi morsi con forza il labbro inferiore per non gridare di frustrazione.
Perché mi ero umiliata in quel modo? Non ne avevo abbastanza di prendere a calci la mia dignità? Perché non mi trattenevo mai?
Sollevai le mani, gonfie e sanguinolente. Non le avevo fasciate né ci avevo messo sopra del ghiaccio. Semplicemente le avevo lasciate così, in quello stato, senza preoccuparmene più di tanto. Non riuscivo a muovere i mignoli, ma per il resto potevo considerarmi fortunata. Di volta in volta, l’indice destro scattava, laddove avevo beccato il nervo. Ma non era doloroso, solo un po’ fastidioso.
Solo fastidio.
Non era la prima volta che succedeva. Era già capitato in passato che l’ira mi offuscasse la vista e che io mi scagliassi contro qualsiasi cosa che avevo davanti. Una volta avevo colpito perfino Sylvia.
Era già capitato in passato che quel lato di me riaffiorasse e distruggesse ogni cosa. Dunque non era una novità.
E allora perché ci stavo così male? Perché mi vergognavo così tanto? Perché credevo di voler picchiare Ryan, quando in realtà non desideravo altro che accasciarmi a terra e scoppiare in lacrime?
Forse perché ero stata rifiutata. Io che rifiutavo ero stata respinta. Io che in quel bacio avevo riposto tutte le mie speranze.
Quando avevo premuto le labbra contro quelle dell’ex modello, per un rapidissimo secondo mi ero sentita a posto. Ero ritornata la bambina felice che correva e si rotolava sull’erba, sotto lo sguardo attento di sua madre. Là nella mia lontana e gelida terra natale.
Mi ero sentita bene, priva di paure.
Poi Ryan aveva spezzato l’incantesimo.
Sconvolto si era tirato indietro e mi aveva allontanata da sé, passandosi il dorso della mano sulla bocca.
«Ma sei impazzita?!»
Io, che ero finita carponi a terra, avevo inghiottito l’amarezza e la delusione e mi ero alzata lentamente in piedi. Mi ero sfiorata le labbra con la punta della lingua, facendo mio il buon sapore dell’ex modello, e mesta avevo scosso la testa. Poi, senza una parola, avevo lasciato la stanza. Nessuno di noi si era accorto che, nel frattempo, il diario era scivolato a terra e aveva sparpagliato sul pavimento tutto il suo prezioso contenuto.
Probabilmente era quello il motivo che m’impediva di dormire.
Il caldo divenne insostenibile e scalciando stizzita, allontanai le lenzuola.
Perché soffrirci? Tanto quel giorno me ne sarei dovuta andare e non lo avrei più rivisto. Ero stata licenziata, ma almeno avevo ottenuto una piccola soddisfazione.
Se fossi stata in un’altra occasione, avrei esultato. Ma non in quella.
Mi girai verso la finestra aperta.
Perché continuare a pensarci? Quella non ero io. Io ero la ragazza che poteva avere tutti, aprendo solamente le gambe. Io ero la puttana che prendeva senza dare. Quella senza cuore e con una mente fragile e trasparente come una lastra di ghiaccio.
Perché lui?
Osservai le tende ondeggiare ipnoticamente, sospinte dalla brezza notturna, e compresi.
Avevo tentato di cambiare, ma non ero riuscita ad arrivare fino in fondo. Nessuno può mutare ciò che è e io avevo cercato di farlo, senza capire che in realtà non ne avevo bisogno.
Scattai in piedi, boccheggiando per il caldo asfissiante della stanza.
Feci scivolare di poco i pantaloncini del pigiama, poi non contenta decisi di toglierli del tutto. La stessa fine la fece anche la maglietta, che lanciai dall’altra parte della stanza.
Ora respiravo.
E avevo le idee più chiare. Avevo bisogno di ritrovare me stessa.
In mutande mi avvicinai all’attaccapanni, sul quale era appesa una vecchia felpa di Ryan. La presi e la indossai con movimenti meccanici. M’infilai le scarpe coi tacchi vertiginosi, quelli che avevo sempre temuto ma che ora sembravano aver perso ogni potere su di me. Non m’importava più della caviglia gonfia.
Mi misi un paio di anelli di plastica e mi passai la mano tra i capelli, spettinandoli più di quanto già non lo fossero già.
Gettai un’occhiata al mio riflesso sulla finestra, prima di sgattaiolare dalla stanza.
Quando fui fuori, non potei fare a meno di sorridere.
Quella ero io: la Puttana Veronika.
La vera me.
…
Lunedì 2 luglio (giorno)
Strappai seccata il volantino da una vetrina e tentai di leggerlo, nonostante il mal di testa martellante. Le lettere si accavallavano le une sulle altre, inscenando una danza veloce e scoordinata proprio sotto i miei occhi stanchi.
Riuscii a capire solo due parole, che però ebbero il potere di risvegliarmi dal coma in cui stavo precipitando. Da quando ero uscita non avevo dormito un solo minuto, ma in compenso avevo le tasche piene di dollari fumanti di tradimento e lussuria.
Massaggi… domicilio...
Ryan si era sempre lamentato dei dolori alla schiena, al collo e alle gambe provate dall’handicap. Fargli trovare una massaggiatrice a casa mi sembrava un’ottima idea. Non era questo che fanno tutte le assistenti?
Ma tu non sei più la sua assistente, mi ricordò una vocina fastidiosa nella testa.
M’incupii. Era vero anche quello.
Resistetti alla tentazione di accartocciare il manifesto tra le dita e ripresi a camminare sul marciapiede affollato. Avrei potuto fare un tentativo, però. Nessuno me lo avrebbe impedito. Mi sembrava carino, magari come gesto di ringraziamento.
Strizzando gli occhi, lessi anche il nome della ragazza che offriva questo tipo di servizio: Arleen.
Mi scappò una risata sarcastica e scossi la testa. Non ci credevo.
L’amica di Sunny, la stessa che il pomeriggio prima in hotel mi aveva scoperta con la borsetta della sorella di Ryan in mano mentre le rubavo le chiavi dell'auto. A nulla erano valse le mie scuse, quella ragazza non aveva abboccato nemmeno per un secondo.
Ovviamente avrei potuto anche sbagliarmi. A San Diego di Arleen ce n’erano a migliaia, ma una fastidiosa sensazione mi suggeriva che la giovane dei massaggi fosse proprio quella che avevo conosciuto io.
Mi strinsi nelle spalle. Non era a me che serviva il massaggio.
Annuii tra me e me. Sì, non era male come idea, a prescindere dalla persona. Mi frugai nelle tasche alla ricerca del telefono, quando mi ricordai che io non ne avevo uno. Non lo avevo mai avuto.
Cercare una cabina telefonica era fuori questione e fermare un passante a caso equivaleva a beccarmi occhiatacce ed essere scambiata per una ladra maldestra.
Sospirai pesantemente. A quanto pareva dovevo tornare a casa.
…
Lunedì 2 luglio (sera)
Entrai nel bar a testa china, digrignando i denti per il dolore atroce ai piedi. La caviglia era gonfia il doppio di prima e faceva un male dell’inferno. Mi ero ostinata a camminare per tutto il giorno, senza mai fermarmi o togliere i tacchi. Ben mi stava.
Il fatto che poi avessi passato la notte in bianco non faceva altro che peggiorare la situazione.
Stancamente cercai con gli occhi un posto vuoto dove sedermi. L’unico libero era vicino al bancone di mogano, dietro al quale un giovane riccioluto era impegnato ad asciugare un bicchiere di cristallo e a chiacchierare amabilmente con una ragazza, e andai verso quella direzione, lasciandomi poi cadere con un grugnito sullo sgabello.
Il barista si voltò incuriosito verso di me ma, appena vide in che stato era ridotto il mio volto, preferì distogliere lo sguardo e puntarlo sull’entrata alle mie spalle.
«Che ti porto?» domandò, sfregando distrattamente il bicchiere cesellato che teneva tra le mani.
Sbuffai silenziosamente e alzai gli occhi al cielo. «Vodka liscia.»
Lui annuì con un lieve sorriso e si girò, cominciando a preparare gli ingredienti.
La sua attenzione, però, era tutta dedicata alla rossa che mi sedeva al fianco. Lui la punzecchiava e lei rispondeva tranquillamente a tono.
Sembravano divertirsi, anche se la donna manteneva un certo portamento distaccato e fiero.
Distolsi lo sguardo e lo lasciai vagare per il locale, osservando distrattamente i presenti. Quello era un bar di lusso, a cinque stelle, e ogni persona là dentro s’intonava perfettamente con l’ambiente. Era un posto per ricconi, cosa ci facevo io lì?
Lessi un certo fastidio negli occhi delle donne presenti e capii il motivo: ero mezza nuda, dopotutto. In pratica era come se avessi scritto “puttana” in fronte.
Gli uomini mi lanciavano qualche sguardo lascivo, ma senza osare di più.
Accavallai le gambe e mi tirai il cappuccio fin sopra la testa, estraniandomi dal mondo.
Il barman mi piazzò davanti il calice con la mia Vodka con delicatezza, ma senza indugiare troppo sulla cosa. Era ancora coinvolto nella discussione con la rossa.
Afferrai seccata il bicchiere e me lo portai alle labbra, mordendo la cannuccia. Non era granché come cosa, ma almeno m'impediva di crollare addormentata sul bancone.
«…di furti poi a San Diego ce ne sono molti, ultimamente.»
Quella frase mormorata con disinteresse mi arrivò dritta al cervello, come una secchiata d'acqua fredda, scacciando anche gli ultimi residui di sonno. Sollevai il capo e mi girai verso la donna vicino a me.
«Eh già» replicai, succhiando in modo molesto la bevanda nel calice.
La ragazza si voltò.
La Vodka mi andò di traverso.
«Strano che sia proprio tu a dirlo» pontificò Arleen.
Il giorno prima, mentre cercavo le chiavi della macchina nella borsetta di Sunny, l'avevo incontrata. Mi aveva fissata con un sopracciglio inarcato per tutto il tempo e alla fine avevo dovuto capitolare, consegnandole la pochette. Le chiavi dell'auto però, ero riuscita a prenderle e di nascosto le avevo infilate nella tasca dei pantaloncini.
Le sorrisi sbarazzina. «Perché? Io non rubo mica.»
Il barista, intanto, ci fissava interrogativo.
«Vi conoscete?» domandò rivolto alla ragazza.
Arleen liquidò la faccenda con un gesto della mano. «Sì e no. Non ti preoccupare.»
Il giovane scrollò le spalle e abbozzò un' affascinante sorriso. «E chi si preoccupa!» ribattè.
La ragazza tornò con lo sguardo sul mio viso. «Ah no? Strano.»
Sorseggiai con calma la mia Vodka, soppesando bene le parole.
Non mi andava di rispondere alle sue provocazioni né di restare zitta. Ero stanca e l'unica cosa che volevo era dormire.
Tutto il mio corpo urlava pietà, i miei piedi soprattutto, e bisticciare era assolutamente l'ultima cosa che avrei desiderato.
Ad appesantire la cosa c'era il fatto che avevo bevuto già durante la notte e che mi ero fatta un paio di strisce.
E il fatto che la giovane davanti a me mi affascinava. Il suo modo di parlare, di comportarsi, di pensare, mi davano l'idea che fosse una persona a cui piacesse avere il controllo.
Sbattei le palpebre un paio di volte, mentre l'alcol cominciava a darmi alla testa.
Chissà cosa avrebbe detto Ryan vedendomi in quello stato...
Cambiai argomento, tirando fuori il volantino rosa. «Sei tu che fai i massaggi?»
Arleen gli dedicò un'occhiata distratta «Sì.» Finì di bere e poggiò con grazia il bicchiere sul bancone. «Ma non lo faccio a chi ruba.»
Se non fossi stata in quello stato, probabilmente l'avrei stesa con un pugno. Trangugiai l'ultimo sorso di Vodka e mi alzai in piedi.
«Non è per me. È per Ryan, il fratello di Sunny» spiegai calma, anche se dentro di me ribollivo di fastidio. Fastidio per le sue parole, perché comunque era riuscita a capire chi fossi. Fastidio per me stessa, che non mi celavo bene. E perché, nonostante tutto, quella ragazza continuava ad affascinarmi. Fastidio anche per quel barista, elegante fino allo stremo, che non aveva smesso per un secondo di fissarci divertito.
Arleen si sollevò a sua volta. «Ryan?»
Mi sistemai il cappuccio sulla testa e abbassai i bordi della felpa, per coprirmi le cosce. «Sì. Domani. Chiamali.»
La salutai con un veloce cenno della mano e mi diressi verso l'uscita del locale.
Quando fui fuori, non potei fare a meno di sospirare di sollievo. L’aria fresca di San Diego fu un toccasana per i miei nervi tirati. Il sole si stava lentamente eclissando dietro le spalle della città.
Mentre camminavo sul marciapiede, passai davanti alla vetrina di un negozio di vestiti.
Mi fermai e fissai il mio riflesso pallido nel vetro. La felpa larga, il cappuccio sulla testa, i capelli spettinati, l’espressione stravolta. Ecco chi stavo diventando: un fantasma. La notte passata non era stata altro che uno strappo alla realtà.
Infilai le mani nelle tasche e ripresi a camminare, finché non urtai qualcuno e finii lunga distesa a terra. Sollevai di scatto il capo, pronta a insultare senza remore il coglione che mi aveva fatta cadere, e incontrai lo sguardo severo di un uomo.
Tutti gli epiteti che avrei voluto lanciargli mi morirono in gola, quando lui mi tese una mano e mi aiutò ad alzarmi.
«Ti sei fatta male?» chiese più per educazione che per altro.
Mi massaggiai il didietro e gli lanciai un’occhiataccia. «Sì» sbottai. «Mi hai praticamente spalmata sull’asfalto!»
Lui inarcò un sopracciglio, diventando tutt’a un tratto familiare. Possibile che l’avessi già visto prima?
«Non è colpa mia se non guardi dove metti i piedi!»
Non risposi. Il mio cervello lavorava a ritmi febbrili, alla ricerca di un’idea, un ricordo, un suggerimento. Qualsiasi cosa pur di sapere dove esattamente l’avessi visto, o quando.
Il suo nome mi appariva e scompariva proprio quando cercavo di afferrarlo.
«Che c’è?» domandò secco lui.
E di colpo ricordai.
L’avevo visto in TV il giorno prima, quando avevano trasmesso in diretta la mostra che si era tenuta! Aveva fatto un discorso su una collaborazione, prima di venire assalito da giornalisti molesti o fan curiosi. Quel regista famoso!
«Sei Christopher Roberts? Sei tu?»
Dopo un attimo di smarrimento, lui annuì. «Sono io. Ora se non ti dispiace devo andare.» Senza aggiungere una parola, mi superò a passo rapido e cadenzato.
Fissai il mio riflesso nella vetrina, mentre un’idea nasceva nella mia mente.
E all’improvviso mi vidi bella, piena di possibilità, fortunata.
Senza pensarci troppo, gli corsi dietro.
«Aspetta!»
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