Veronika. Kukla

Sapevo che sarebbe successo prima o poi. Sapevo che sarei crollata. La vita da buona massaia non faceva per me. Io ero fatta per le feste che iniziavano verso tarda serata e finivano il mattino dopo alle quattro, di solito con qualche sfigato in ospedale. Ero fatta per il sesso libero da freni e l'alcol che scorreva a fiumi nel corpo, per la mente annebbiata dal fumo e alleggerita dalle sniffate.

E Mike ne era consapevole. Aveva atteso con calma il momento opportuno, pianificato con cura ogni dettaglio e contato con pazienza i giorni, per riprendermi con sé. Ero debole e lui aveva fatto leva su questo, sapendo di avere la vittoria in pugno. Per quanto io potessi sfuggirgli, sarei tornata da lui sempre. Sulle mie gambe o chiusa in un sacco nero, sarei tornata. Non importava come, ma sarei sempre stata sua. Se non lo ero fisicamente, lo ero mentalmente. E se non lo ero con la mente, lo ero con i sentimenti. Perché sì, Mike si era impossessato lentamente del mio corpo, dei miei pensieri e del mio cuore in frantumi, senza mai restituirmeli. Era il minimo che potessi fare, diceva.

Per quanto avessi cercato di allontanarlo da me, lui era sempre lì: una presenza costante tanto quanto maledetta. Potevo quasi sentirlo, l'orologio invisibile che ticchettava fastidiosamente e faceva scivolare inesorabilmente il tempo ricordandomi che non avevo scelta. Che quella era una battaglia già persa in partenza. Che stavolta non ci sarebbe stata nessuna pietà.

Se la prima volta l'avevo scampata, non sarei stata così fortunata la seconda. Mike mi avrebbe trovata, volente o nolente, ripresa e uccisa. Per questo non faceva nulla. Attendeva e basta.

Non era più entrato in casa di Ryan e Sunny da quel giovedì sera, non mi aveva mandato nessun messaggio minatorio, non si era fatto più vedere in giro. Ed era questo che mi spaventava maggiormente. Avrei preferito mille volte sentirlo urlare come un pazzo furioso, vederlo abbattere la porta dell'abitazione e afferrarmi con forza per i capelli. Se avesse agito così, almeno avrei saputo come reagire. Cosa fare. Come difendermi.

E invece lui se ne stava là, rintanato chissà dove ad aspettare. Era come una vipera, non sai di essere la sua preda finché non ti attacca.

Avevo paura. Non quella che avverti quando guardi un film horror o quella che sentivi quando tuo fratello ti raccontava una storia spaventosa per farti calmare, no, era piuttosto un terrore sottile e gelido che s'insinuava ovunque, nel tuo corpo, nella tua mente, nei tuoi sogni.

I giorni passavano ma io continuavo a scattare a ogni movimento, a scansarmi quando Sunny, nei suoi dolci e affettuosi gesti, mi sfiorava e a svegliarmi di notte in preda agli incubi, nonostante la presenza confortevole e sicura di Ryan accanto a me.

Da quando mi aveva promossa a sua assistente mi permetteva di restare a dormire con lui a patto di restare nella mia parte di letto, di non toccare le sue cose e non infastidirlo troppo. Avevo scoperto che era un ragazzo gentile ma dai modo burberi e scontrosi, con il quale avevo più cose in comune di quante ne desse dimostrazione e... che parlava nel sonno.

Più volte l'avevo sentito mormorare un paio di nomi e qualche frase sconclusionata. Io non gli avevo mai chiesto cosa l'avesse ridotto su una sedia a rotelle e lui non aveva fatto domande sul mio passato né su cosa mi legasse a Mike. Lo accompagnavo in bagno, gli preparavo il letto, lo aiutavo a vestirsi quando le cose gli diventavano impossibili e davo una mano a Sunny nelle faccende di casa. In cambio loro mi permettevano di restare con loro. Non ero mai stata tentata di derubarli di qualcosa. Più volte avevo notato oggetti preziosi, il Rolex di Ryan, i gioielli di sua sorella, il pendente della nonna defunta, che sicuramente mi avrebbero fruttato fior di quattrini se li avessi venduti, ma il pensiero di prenderli non mi aveva sfiorato nemmeno l'anticamera del cervello. Non volevo ringraziarli in quel modo, non dopo tutto il riguardo con il quale mi avevano trattata, senza mai far domande invadenti. Non avevano provato a indagare su chi fossi davvero, non avevano chiamato la polizia. E gliene sarei stata eternamente grata.

Mi trovavo bene con loro... eppure la loro gentilezza non mi aiutava a dormire meglio. Gli incubi c'erano e ogni notte si facevano più spaventosi, più frequenti, più dolorosi. Vedevo Mike ogni volta che chiudevo gli occhi.

Mike che m'inseguiva. Mike che mi acciuffava. Mike che mi stringeva a se e mi baciava. Mike che poi mi spingeva a terra e mi picchiava furioso. Mike che impugnava la spranga di ferro. Il dolore, il sangue sulle piastrelle e poi il nulla.

Ogni sera mi coricavo con la speranza di fare sogni tranquilli o di non sognare affatto e puntualmente mi svegliavo poche ore dopo, sudata fradicia e tremante, per non dormire più e restare con gli occhi spalancati fino al mattino seguente. Ormai il sonno era diventato un miraggio e gli incubi un'abitudine, i miei fedeli compagni di vita, che scandivano le mie giornate noiose e ripetitive.

Il mattino sfumava nel pomeriggio, il pomeriggio nella sera e la sera nella notte. Poi tutto ricominciava da capo. Venerdì era arrivato e veloce aveva lasciato il posto al sabato che a sua volta stava scivolando via in favore della domenica. Il sole nasceva dietro le montagne e moriva alle spalle della città. E di Mike nessuna traccia.

A volte mi sembrava di vederlo girare per casa, stravaccarsi sul divano, sedersi a tavola con noi. Mi sembrava di sentire il suo profumo, di udire la sua voce roca e profonda. Seguiva ogni mio movimento e non mi perdeva mai d'occhio. Poi mi riscuotevo e vedevo le cose come stavano. Quella che, magari, avevo scambiato per Mike appoggiato al muro era in realtà una tenda. L'oggetto che mi era parso la sua mano pronta a stringermi il collo, era nella verità un vaso.

L'ansia mi stava facendo impazzire.
Logorata dalla paura, diventavo più taciturna, più assente e con la mente rivolta altrove. Partecipavo sempre meno alle chiacchiere dei padroni di casa. Se Sunny m'invitava in una qualche uscita tra ragazze, io declinavo l'offerta e mi chiudevo nella camera di Ryan. Se la ragazza cercava di coinvolgermi in una chiacchierata piacevole, facevo finta di non sentirla e mi concentravo su quello che stavo facendo. Se suo fratello mi chiedeva di andare a prendergli qualcosa, gliela portavo senza protestare. Se Sunny mi rivolgeva uno sguardo preoccupato, mi voltavo dall'altra parte e la evitavo.

Alla fine la ragazza non riuscì più a reggere la situazione e scoppiò, facendo esplodere anche la mia bolla di apatia.

Eravamo in cucina. Lei era impegnata ai fornelli e io asciugavo con uno strofinaccio le stoviglie e le rimettevo a posto. Feci per aprire un cassetto quando sentii un tonfo e il rumore di una mano che sbatteva con forza sul piano cottura.

«Si può sapere cos'hai?» esclamò esasperata Sunny. «Sono giorni che ti comporti così.»

La guardai confusa. «Così come?»

La ragazza misurò a grandi passi la cucina, le mani dietro la schiena e la fronte corrucciata. «Come una depressa. Sei più schiva del solito, non che quando sei arrivata fossi più loquace, chiariamoci. Se ti chiedo di uscire inventi una scusa dopo l'altra, non mangi più con noi e, non negarlo, sei sempre attaccata a mio fratello.» S'interruppe e mi raggiunse, poggiandomi una mano sulla spalla. «Che ti succede?» domandò più calma.

Fissai la sua mano bianca e curata, al contrario della mia più scura e con le unghie mangiucchiate, e mi scostai brusca. «Niente» brontolai. «Non ho niente, lasciami perdere.» Feci per superarla, ma mi trattenne per un braccio e mi costrinse a tornare con lo sguardo sul suo viso.

«No. Ora mi dici cos'hai e non usciremo di qui finché non avrai parlato» ribatté ostinata, gettandomi un'occhiata che non ammetteva repliche.

Sospirai irritata e mi lasciai cadere sulla sedia dietro di me. Sapevo quanto Sunny fosse testarda, me l'aveva raccontato Ryan una sera mentre lo aiutavo a stendersi sul letto, quindi sperare di spuntare una discussione con lei era pressoché impossibile. Però non potevo neanche dirle la verità. Mi avrebbe presa per pazza e, forse, non avrebbe avuto nemmeno tutti i torti.

Non potevo dirle che, nonostante tutto, Mike mi mancava. Che lo amavo ancora. Che il suo silenzio era più sfibrante e letale di un'arma. Che morivo dalla voglia di conoscere le sue prossime mosse.

Quando si accorse che non avrei aperto bocca nemmeno sotto tortura, si appollaiò sul piano cottura, le gambe a penzoloni, e incrociò le braccia al petto. «Allora?»

Avrei dovuto dirglielo. Sarei stata sicuramente meglio e mi sarei liberata di un peso.

«Ho paura» sussurrai alla fine. Non era una bugia.

Sunny aggrottò la fronte. «Parli di quel depravato? Tesoro, devi stare tranquilla. Se n'è andato e non tornerà. Nel caso lo facesse io e mio fratello glielo impediremo.»

Mi venne voglia di ridere. Impedire a Mike di fare qualcosa? Impossibile. Lui otteneva sempre quello che voleva, in un modo o nell'altro. Non si arrendeva mai e non l'avrebbe fatto sicuramente ora che io gli ero sfuggita e l'avevo messo in ridicolo. Quando, tre giorni prima, mi ero svegliata su quel lettino e con una flebo infilata nel braccio, la prima cosa che avevo fatto era stata incontrare i suoi occhi. Freddi. Duri. Lampeggianti d'odio. Appena l'avevo visto avvicinarsi, mi ero appiattita contro la testiera e avevo tirato le gambe al petto, circondandomi con le braccia.

«Vattene via» avevo sussurrato, mentre le lacrime avevano cominciato ad appannarmi la vista. Avevo un mal di testa atroce e dei puntini neri che mi danzavano davanti agli occhi.

Mike aveva preso tra le dita una ciocca dei miei capelli e l'aveva rigirata, sovrappensiero. «È così che mi ringrazi dopo che ti ho salvato la vita?»

Volevo schiaffeggiargli la mano, allontanarlo e urlare aiuto. E invece l'unica cosa che potei fare fu scoppiare in singhiozzi. «Vattene! Se tu non avessi tentato di uccidermi io non sarei qui ora. Vattene via o chiamo le guardie. Giuro che lo faccio!»

In tutta risposta lui aveva sghignazzato. «Chiamale» mi aveva sfidato. «Su, fallo. Vediamo quanto può essere coraggiosa la piccola Veronika.» La sua mano era scesa a lambirmi il collo.

«Vattene, ti prego» avevo singhiozzato. «Non ti voglio più vedere.»

Lo sguardo di Mike si era incupito e le sue unghie mi avevano graffiato la carne, strappandomi un miagolio di dolore e paura. «No... Tu mi appartieni, piccola puttana. Sei mia, e infatti ho deciso che tu ora verrai a casa con me.»

Mi ero divincolata e mi ero gettata disperata sul comò, alla ricerca del pulsante per chiamare le infermiere. Lui, però, mi aveva afferrato il braccio e bloccato i polsi sulla testa con una mano, mollandomi un ceffone in pieno viso con l'altra. L'urlo di dolore mi era sfuggito senza che me ne rendessi conto e Mike mi aveva colpita di nuovo, per farmi tacere.

«Zitta stronzetta! Non farmi arrabbiare» mi aveva tirato i capelli e strattonato la testa, «o finisce male.»

Il sangue mi colava dal labbro spaccato, mescolandosi con le mie lacrime, e il dolore alla testa divenne allucinante.

«Aiuto...» avevo biascicato, tra i singhiozzi, sperando che quella mia disperata richiesta venisse udita da qualcuno.

Mike mi aveva tirato il terzo schiaffo. «Taci!»

Avevo riprovato con più forza, mentre le lacrime m'imbrattavano il volto. «Aiuto! Aiutatemi per...» Non ero riuscita a finire la frase. Il pugno mi aveva colpita prima ancora che avessi potuto metterlo a fuoco e io ero stata inghiottita dal buio, ancora una volta.

Guardai Sunny. «Lui ottiene sempre quello che vuole. Oggi, domani, tra un mese lui mi avrà. Non potrò stargli lontana a lungo» replicai sconsolata.

La ragazza saltò giù dal ripiano e mi fece alzare. «Non lo farà. Non finché ci saremo io e mio fratello. Se dovesse riprovarci andremo dalla polizia.»

Mi scappò un sorriso amaro. La polizia...

Non le avrei detto che la polizia a Mike faceva un baffo. Erano loro a temerlo, non il contrario. Era lui a manipolare la giustizia, lui a sentenziarsi, lui a decidere della propria vita. Poteva passare un giorno, una settimana, un mese forse, in cella ma ne usciva sempre senza neanche il bisogno di evadere.
Non le avrei mai detto che la polizia era più marcia e corrotta di lui.

E, infatti, l'unica cosa feci fu mormorare un «grazie», senza preoccuparmi di farlo sembrare sincero.

Sunny mi sorrise dolcemente e contro ogni aspettativa mi strinse a sé in un lungo abbraccio. Io non riuscii a ricambiare. Semplicemente rimasi lì con le mani lungo i fianchi, chiedendomi il motivo di un gesto tanto strano quanto spontaneo. Nemmeno Sylvia mi aveva mai abbracciata in quel modo.

«Non ringraziarmi. Sei mia amica e farei questo e altro.»

Spalancai la bocca stupefatta. Amica...

Non avevo mai avuto un'amica, non lo ero mai stata. Quella parola che era uscita con così tanta facilità dalla bocca di Sunny, alle mie orecchie suonava estranea. La ripetei alcune volte, giusto per abituarmi, finché non perse significato, diventando pesante e fastidiosa anche da immaginare scritta su un pezzo di carta.

Poi capii. Non avevo bisogno di riflettere sul suo significato. Non avevo bisogno di sapere come dovesse comportarsi un'amica. Non avevo bisogno di sapere il motivo che aveva spinto la ragazza a stringermi con così tanto trasporto.

Ma avevo bisogno di un'amica.

Così le passai una mano sui fianchi e ricambiai l'abbraccio.

...

«Vi ho sentite parlare prima» esordì Ryan quando entrò in camera, spingendosi in avanti. La carrozzina però s'incastrò tra la scrivania e la sedia e lui imprecò.

Gettai la sigaretta ormai consumata fuori, chiusi con uno scatto la finestra e corsi da lui, liberandolo con una rapida manovra.

«Ah sì?» domandai con noncuranza. Accostai la sedia al letto e mi piegai sulle ginocchia, spostando i poggiapiedi ai lati e sciogliendo le cinghie di cuoio. Mi piaceva aiutarlo, mi rilassava e mi liberava la mente. Se qualcuno mi avesse detto un mese prima che mi sarei ridotta ad aiutare un paralitico, senza secondi fini, non gli avrei creduto e gli avrei dato del pazzo. E invece...

«Sì. Perché hai paura? Mi prendi la maglia grigia per cortesia?» Ryan si puntellò sulle braccia e con un grugnito riuscì a scivolare sul materasso. Aveva la fronte imperlata da piccole gocce di sudore e il volto arrossato. Ogni volta che faceva un movimento finiva sempre così, provato e ansimante.

Spalancai le ante dell'armadio e frugai all'interno. «Perché sì. Perché è solo questione di tempo prima che il mio patrigno mi riprenda con sé.» Tirai fuori due t-shirt. «Quale delle due? Quella semplice o quella con lo schiribizzo?»

«La prima.» Gliela porsi e attesi che si cambiasse, guardando dall'altra parte. «Lo farà solo se sarai tu a permetterglielo. Se reagisci, invece, ti lascerà stare.»

Raccolsi la maglietta che aveva gettato a terra, la ripiegai con cura e scossi mesta la testa. «Mike non mi lascerà mai andare. Lo conosco. Lotterà per riavermi e quando lo farà...» Le parole mi morirono in gola. «Beh c'è solo da sperare che non la tiri per lunghe.»

Ryan piegò le braccia dietro la testa. «Che scemenza. Se gli dimostrerai di aver paura ovvio che farà leva su questo e ti distruggerà. Devi tirar fuori le palle.»

«L'ho fatto una volta e guarda come mi ha ridotta. Ti sembra un volto umano, questo?» sibilai risentita, fissando il mio riflesso nello specchio accanto alla finestra. Dato che non mi rispondeva, continuai più alterata: «Ho più cicatrici io addosso che un soldato mutilato dalla guerra!» M'indicai l'occhio pesto. «Sai quando me l'ha fatto questo? Quando ero in ospedale, dopo che lui mi ci aveva spedita colpendomi con una maledetta spranga di ferro!»

Sentivo che mi sarebbe venuto un attacco di panico di lì a poco e mi portai le mani al petto, allentando i bottoncini del pigiama. Mi mancava l'aria. Avevo bisogno di fumare di nuovo o bere qualcosa di forte. L'ansia aumentò quando mi venne in mente che avevo finito le sigarette e i pochi alcolici in quella casa erano custoditi gelosamente da Sunny.

Ryan, intanto, continuava a non dire niente e ciò non aiutava. Anzi non faceva nemmeno lo sforzo di sembrare interessato e fissava annoiato il soffitto scrostato, sbadigliando di volta in volta, ma a me non importava. Le cateratte si erano rotte e le parole mi uscivano dalla bocca come un torrente in piena. Impossibile tentare di fermarle.

«Ogni volta che provavo a ribellarmi a Mike, mi ritrovavo con una sua mano stretta attorno al collo e parecchie costole incrinate. Se non erano quelle, erano il polso slogato, il naso rotto e la schiena piena di segni rossi.» Tirai il colletto e un bottone saltò via, permettendomi finalmente di respirare.

Mi voltai furiosa verso Ryan. «E sai cosa faceva dopo?» Le mie unghie vennero a contatto con la pelle raggrinzita della cicatrice che avevo sul petto. «Mi fotteva. Davanti a tutti.»

Vidi il colore defluire lentamente dal volto di Ryan e il suo sguardo passare dallo sconvolto al disgustato. Ora avevo la sua completa attenzione.

«Ma è il tuo patrigno!» esclamò indignato.

Mi grattai furiosamente finché non sentii il famigliare fastidio e il sangue impiastricciarmi le dita. «Vaglielo a dire.»

Facevo sempre così. Ogni volta che diventavo nervosa, mi sfregavo quella cicatrice fino a farla sanguinare e non mi calmavo finché il liquido scarlatto mi macchiava i vestiti. Me l'ero procurata quando avevo solo sei anni e mia mamma era ancora viva. Ero inciampata nel tappeto sgualcito della catapecchia in cui vivevamo ed ero caduta sui cocci del vaso, che era scivolato precedentemente dalle dita di mia madre. Lei mi aveva asciugato le lacrime, tranquillizzata contro il suo petto finché il pianto era stato sostituito dai singhiozzi, mi aveva disinfettato la ferita e poi vi aveva depositato un bacio delicato.

Grattare quella cicatrice e farla sanguinare mi aiutavano a calmarmi e a sentirla più vicina. Mi davano l'illusione che lei fosse ancora con me e che non si fosse impiccata.

Ryan si passò una mano sul viso. «Dio, che schifo...»

«Già, puoi dirlo forte» replicai, massaggiandomi il petto. Ormai le mie dita e la maglietta erano completamente sporche di sangue e l'ex modello se ne accorse.

«Cosa diavolo hai fatto?»

Io, però, elusi la sua domanda spalancando la finestra. Avvertii il desiderio di fumare farsi sempre più impellente e stavolta nemmeno grattarmi fino a scorticarmi sarebbe servito.

«Hai una paglia?» esalai disperata.

Lui mi guardò come se mi fossero spuntate all'improvviso due teste in più. «No, io non fumo... Sunny sì, ma sta dormendo.»

Smisi di ascoltare. Mi gettai sul mio giaccone, appeso dietro la porta e frugai nelle tasche, gettando a terra tutto quella che non fosse un pacchetto di sigarette. La prima conteneva solo alcuni fazzoletti usati, il numero da visita di alcuni clienti e la cartaccia di una gomma.

«No, no, no... NO!»

Passai all'altra e vi infilai entrambe le mani. Questa però era vuota. Il senso di panico crebbe a dismisura e mi strinse la gola. Dovevo fumare.

Poi mi ricordai della tasca interna, nascosta nel cappuccio, rivoltai la giacca e aprii la zip. E la trovai, finalmente. Una paglia rollata a mano, mezza piegata, ma comunque ancora utile. Tirai fuori, con le mani che tremavano, l'accendino e senza preoccuparmi di chiedere il permesso l'accesi. Mi sentii subito meglio.

«Lo fai fuori di qui?» domandò stizzito Ryan.

Mi avvicinai alla finestra e mi sporsi. In una mano tenevo la sigaretta e con l'altra mi tamponavo il petto. Non che fosse servito a molto, il pigiama era ormai scarlatto. Fumai con tranquillità e quando finii richiusi la finestra e feci per andare a letto ma Ryan m'impedì anche di fare un solo passo.

«Puzzi di fumo come un turco» gemette contrariato. «Sciacquati la bocca, poi torna... e, Dio, cambiati quella maglietta, che mi fai venire voglia di vomitare il cenone di sei anni fa!»

Mi strinsi nelle spalle. «Non ne ho. Questa è di tua sorella.»

Lui sbuffò. «E allora indossane una mia. E che sia chiaro, sarà la prima e l'ultima volta.»

Lo ringraziai con un mezzo sorriso e afferrai una T-shirt a caso dall'armadio. Andai in bagno, mi cambiai, mi lavai la bocca e tornai in camera. Prima di coricarmi al suo fianco, spensi la luce.

«'Notte» dissi.

Ryan grugnì in risposta e voltò la testa dall'altra parte.

Sorrisi e sperai di poter scivolare finalmente in un sonno tranquillo. Almeno per quella notte.

Domenica 1 luglio

Sunny fece un fischio d'apprezzamento e annuì convinta. «Questo sì che è un hotel!»

Mi guardai intorno e dovetti ammettere che la ragazza aveva proprio ragione. L'albergo di lusso in cui mi aveva trascinata quel mattino era imponente e trasudava ricchezza e potere da ogni dove. Dalla hall alle scale alle vetrate colorate. Il proprietario deve avere un mucchio di soldi per essere riuscito a finanziare un'impresa del genere, pensai.

«Sì» bofonchiai. Avevo appena finito di fumare la sigaretta che Sunny mi aveva gentilmente offerto e di bere il caffè, che poi non sembrava altro che acqua sporca, preso alle macchinette, e ora avevo l'impellente bisogno di correre in bagno.

Accartocciai il bicchierino di plastica, impiastricciandomi le dita con lo zucchero bollente, e lo gettai in un bidone della spazzatura lì vicino. Mentre la ragazza blaterava qualcosa sulla bellezza dell'hotel, decantandone le lodi, feci oscillare impaziente lo sguardo nella hall alla ricerca del fantomatico cartellino bianco e nero o di una qualche hostess. Non scorsi nulla né vidi nessuno e strinsi le gambe. Se non trovo subito un bagno la faccio in un vaso, costi quel che costi, giurai a me stessa.

Guardai Sunny e la interruppi alzando una mano e beccandomi un'occhiata seccata. «Sai dove posso andare a pisciare?» domandai con una certa urgenza.

Il viso della ragazza si rilassò in un sorriso divertito e lei si strinse nelle spalle. «Non ne ho la più pallida idea. Ma vieni, andiamo a cercarlo.» Fece per prendermi a braccetto, ma mi ritrassi e la mano che mi aveva teso ricadde desolatamente nel vuoto. Non ci potevo fare nulla, essere toccata da qualcuno che non fosse Mike per me era un tabù. L'abbraccio che ci eravamo scambiate pareva dimenticato.

Imboccammo rapide un corridoio, quando Sunny venne avvicinata da una ragazza alta e formosa che le buttò le braccia al collo. «Ciao!» cinguettò felice.

«Arleen!» esclamò di rimando la prima.

Quando cominciarono a scambiarsi i primi convenevoli e i pettegolezzi tipici di chi da tempo non vedeva un amico e aveva troppe cose da raccontargli, decisi di andare a cercare il bagno da sola. Tuttavia, dopo che mi ritrovai per tre volte davanti a un vicolo cieco, optai alla fine per chiedere aiuto. Intercettai una hostess che camminava a testa china reggendo tra le mani un plico di fogli e una penna a sfera tra le labbra; il cappellino bianco e nero le era scivolato sulla fronte spettinandole la crocchia stretta sulla nuca.

«Ehi scusami...» la chiamai picchiettandole la spalla. «Sapresti indicarmi dove posso trovare il cesso?» Non mi interessava apparire educata o di moderare i termini, volevo solo trovare un luogo dove svuotare la vescica il prima possibile e in santa pace.

La giovane strabuzzò gli occhi e fece una smorfia a metà tra l'infastidito e il disgustato. Tipico. Ogni persona che veniva a contatto con me per la prima volta restava schifata dal mio volto tumefatto.

Sollevò la testa e con il nasino a punta indicò una breve rampa di scale in fondo. «Là» rispose laconica, prima di fuggire via. Per un attimo, mi parve di vedere nel suo sguardo freddo un lampo di dispiacere e tristezza infinita, ma non ne fui del tutto sicura.

Scrollai le spalle con noncuranza e mi diressi di corsa verso quella direzione, scendendo velocemente i pochi gradini che mi separavano dal bagno.

Stavo per saltare gli ultimi scalini quando un'ombra si parò davanti a me, ma non riuscii a schivarla e ci finii contro. Caddi a terra con un lamento e mi presi con le mani il naso dolorante, avvertendo alcune gocce calde iniziare a scorrermi tra le dita.

«Ahia» mugugnai seccata.

Quella non era proprio giornata.

«Guarda dove metti i pie... Oh!»

Alzai lo sguardo, per capire chi mi avesse spinta a terra, e incontrai un viso spigoloso contornato da fluenti capelli biondi. La donna mi fissava allucinata, da sotto le ciglia nere allungate dal mascara, e potei giurare, anche se era la prima volta che la vedevo, che fosse visibilmente sbiancata.

Tirai penosamente su con il naso e mi rimisi faticosamente su due piedi, pulendo le mani chiazzate di rosso sulla maglietta che Sunny mi aveva prestato. Quella era la seconda T-shirt che le sporcavo di sangue.

Occhieggiai a lungo il volto livido della donna davanti a me, prima di scostarla malamente da un lato. «Si sposti, ho bisogno del bagno» borbottai.

La signora aprì e richiuse la bocca ripetutamente, ma senza proferir parola. Alla fine, si sistemò l'elegante tailleur in cui era avvolta e scomparve su per le scale. Per un momento, ma solo una frazione di secondo, mi parve di averla già vista in un lontano passato, in un capitolo della mia vita che avevo sigillato per sempre quando Mike mi aveva presa con sé. Quel lontano passato in cui potevo ancora considerarmi una ragazza normale e non una prostituta pazza, innamorata dell'uomo sbagliato e priva d'identità.

Feci per spalancare la porta bianca che avevo di fronte, quando lo sguardo mi cadde sulla pregiata moquette verde. Alla donna era sfuggito un foglietto che lei, nella foga, non aveva raccolto. Mi chinai sulle gambe e lo presi tra le dita, sforzandomi di capire cosa ci fosse scritto. Avevo abbandonato la scuola quando ero sedicenne e facevo ancora molta fatica a leggere correttamente. Dovevo essere dislessica, ma non avevo mai fatto gli esami per accertarmene.

Era un biglietto da visita. - ELEANOR- recitava la scritta in alto. Alzai le spalle, quel nome non mi diceva nulla, e lo feci scivolare nella tasca posteriore dei pantaloni.

Spalancai della porta e m'intrufolai all'interno.

Non era un bagno. L'ambiente era immerso nella penombra ma fui sicura che non si trattasse della toilette. Nel buio potevo solo distinguere la silhouette alta e sottile di quelli che identificai come scaffali di ferro.

Aggrottai alla fronte; possibile che avessi sbagliato strada? O che la hostess si fosse confusa?

Allungai scettica una mano sulla parete destra, alla ricerca dell'interruttore della luce e quando lo trovai, premetti. Una lampadina sul soffitto si accese con una lentezza esasperante e inondò la stanza di un balugino malaticcio.

La prima cosa che vidi furono un paio di occhi verdi. Freddi. Canzonatori. Occhi che avevo creduto appartenessero al mio passato.

Capelli perfettamente pettinati all'indietro, mascella squadrata, fisico statuario, eleganza impeccabile, il mio vecchio incubo si staccò dalla parete alla quale era appoggiato e mi raggiunse con la sua camminata lenta e pacata.

«Chi si rivede non muore mai, eh?» Gonçalo Llanos giocherellò con i gemelli dorati e mi rivolse un sorriso sprezzante. «Vero Veronika?»

Aveva sibilato il mio nome come se fossi stata l'essere più spregevole esistente sulla Terra, come se fosse stata una blasfemia pronunciarlo, come se non meritassi di averne uno. Strinsi i pugni. Avrei voluto rispondere per le rime. Avrei voluto tirare fuori la parte combattiva di me e urlargli contro. Avrei voluto voltarmi e fuggire a gambe levate. Avevo le gambe lunghe ce l'avrei fatta sicuramente.

E invece l'unica cosa che fui in grado di fare fu aprire e richiudere la bocca, annaspando alla ricerca d'aria, come aveva fatto Eleanor poco prima. Non fui nemmeno capace di formulare una frase di senso compiuto. Credetti di essere di nuovo in preda alle allucinazioni e che la mia mente mi stesse giocando un brutto tiro. Gonçalo, però, era lì in carne ed ossa.

«Io... Tu... Cosa...?»

Non provai nemmeno a completare la frase, tanta era la confusione nella mia testa. Troppi pensieri, troppi ricordi, troppe voci. Eppure tutti convergevano in un'unica direzione, verso un'unica persona, verso un unico sentimento malato. La porta si chiuse alle mie spalle con un tonfo e udii il rumore soffocato di una chiave che girava nella toppa.

Mi voltai di scatto sentendomi morire. Il respiro si fece più irregolare, le mie dita cercarono la cicatrice senza però trovarla, le mie gambe non sorressero più il mio peso e io crollai a terra, il vuoto in testa e la chiara consapevolezza che stavolta non sarei mai riuscita a fuggire.

Mike avanzò strafottente verso di me, senza fretta e gustandosi con calma il momento della vendetta, con un coltellino svizzero in una mano e un rotolo di nastro adesivo nell'altra.

«Benvenuta nel gioco, Kukla

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