Veronika. Epilogo

Due anni dopo

Mercoledì 5 dicembre

Mi portai le dita alle labbra, pensierosa. Assorta quasi. Distratta. 
Braccia incrociate sotto al seno, spalla contro il muro appena verniciato, nascosta dietro il vetro di una finestra d'ospedale, scandagliavo attentamente la strada sotto di me.

Sogna, sorridi, ama. 
Sogna, sorridi, ama. 

Tre parole, il mio cambiamento. 
La mia vita. La mia vera vita. 
Quella che avevo imparato a costruire, anzichè farmela confezionare apposta da qualcuno. 
Quella che era nata nello stesso istante in cui avevo detto il mio primo 'no'. In cui mi ero ribellata per la prima volta al mio destino. 
Quella per la quale avevo lottato duramente, con le unghie e con i denti. 

Per un momento, mi sembrò di tornare indietro nel tempo. A quella lontana e fredda notte di luglio, in cui tutto aveva avuto inizio. 

Mi rividi, sapete? 
Mi rividi là, ferma, intirizzita, appoggiata contro un muro lercio in un vicolo che puzzava di piscio e di morte. 
Con un sigaretta fumante tra le dita, l'ennesima. In pericoloso bilico su tacchi vertiginosi. I piedi doloranti che imploravano pietà, dopo ore, giorni, sottoposti allo stesso supplizio.
Rividi le ragazze, Sylvia, Eleina, Yorela, appostate dietro una vecchia cabina telefonica con fialette di liquore e spinelli rollati male. 

Rividi il mio corpo nudo sotto un giaccone che non mi copriva per niente e nemmeno mi scaldava. 
Gli occhi stanchi, le tempie torturate da un mal di testa continuo e martellante. 

In mente, un solo mantra: Mike ti picchierà... picchierà... Resisti... Un cliente... Uno solo...

Alla fine quel cliente non era mai arrivato e io me n'ero andata, stufa, delusa, impaurita. 
Priva anche della più piccola speranza. 

Avevo aspettato, avevo pregato. Mi ero imposta la pazienza e alla fine ogni mio sforzo era stato ripagato. 
Giocherellai con il piercing che avevo sulla lingua, quello che non mi ero mai tolta da quella settimana di follia passata con Kaylee, osservando il traffico srotolarsi lento lungo le strade di Milano. 

Stavolta non ci sarebbe stato nessun Mike ad aspettarmi con una bottiglia di birra in un mano e un'asta d'acciaio nell'altra. 
Nessun cliente da aspettare, nessun denaro da spillare, nessuna lacrima di paura da versare. 
C'ero solo io e il mio futuro. 
Basta. 

Poi, certo, ci sarebbero state sicuramente nuovi ostacoli da superare e nuove insidie da raggirare, ma non mi sarei più fatta intimidire. Mai più. 

Ero cambiata, non ero più la ragazzina che credeva di essere innamorata del suo patrigno solo perché lui la costringeva a donargli il suo cuore a suon di schiaffi e pugni; non ero più quella che cercava conforto nella droga o nel fumo. Ero un'altra. 

Poi è vero: anche se ero cresciuta,  diventando una donna finalmente, la vecchia Veronika non se n'era mai andata da me. Era ancora lì, nascosta da qualche parte, al buio. Per impedirmi di dimenticare. Chi ero, cosa avevo passato e quanto avevo sofferto. E per impedirmi di ripetere gli stessi errori del passato. 

Sogna, sorridi, ama.
Tre parole, il mio nuovo destino. 
Quello che Ryan aveva promesso di riscrivere con me. E ce l'aveva fatta. Ce l'avevamo fatta. 

Il suo pensiero mi dirottò inevitabilmente lo sguardo al mio anulare sinistro. Vuoto. 
Distrattamente mi accarezzai il punto in cui avrebbe dovuto esserci un bellissimo anello scintillante ma che per motivi sconosciuti era ancora racchiuso all'interno della scatolina di velluto. 

Avevo chiesto molte spiegazioni, volevo sapere perché nonostante tutto, ancora Ryan non me lo avesse ancora messo al dito. 
Dopotutto... la proposta gliel'avevo fatta io. 
La sua risposta? Lo sapevi che l'impazienza non ti dona per niente? Devi aspettare, Veronika, solo aspettare. 

E io avevo aspettato, continuando a farlo tutt'ora. Senza mai dubitare di lui, nemmeno per un secondo. 
Ryan mi amava e non aveva bisogno di un anello per dimostrarmelo. 
E io mi fidavo di lui, delle sue azioni e delle sue idee. 
Dovevo solo aspettare e... avere pazienza. 

Vi ricorda qualcosa questa frase? Esatto, prima la ripetevo per riuscire ad andare avanti e sperare nell'arrivo di un principe azzurro che mi avrebbe salvata dalla fossa in cui stavo lentamente sprofondando, ora la dicevo perché finalmente il mio principe era arrivato e a breve mi avrebbe fatta diventare la sua principessa. 

«Veronika?»
Mi voltai e sorrisi all'affascinante rossa che era appena entrata nella sala d'attesa. 

«Dimmi.»

«Puoi entrare, ma... Facciamo in fretta» aggiunse in un sussurro divertito. 

Ridacchiai, capendo al volo cosa Arleen volesse intendere, e la seguii all'interno dell'ambulatorio.

...

«Finalmente la riabilitazione sta cominciando a dare i suoi frutti. Certo la strada è ancora lunga, ma con con costanza e riusciremo...»

Non ascoltai le parole fiduciose del medico, al quale Arleen era stata affiancata nel suo tirocinio. Non m'importavano. Per me erano solo un unico blaterare. 
L'unica cosa che era degna del mio interesse era lo spettacolo che stava avendo inizio in quel preciso istante davanti a me. 

Se me lo avessero detto prima non c'avrei mai creduto. 
Anche perché era così difficile immaginare che sarebbe accaduto. Così complicato, da sembrare impossibile quasi. 

Eppure... Alla fine era successo.
I sogni erano diventati realtà e la realtà, adesso, era lì davanti ai miei occhi pieni di lacrime. Tangibile, vicina.

Ryan. 

Era di fronte a me, con il suo caratteristico sorriso strafottente e la tipica espressione da "nessuno può competere con me".

Ma il suo sguardo... Oh... Il suo sguardo era diverso. Brillava di una luce nuova. Era come il mio. 
Pieno di lacrime di gioia a fatica trattenute, che parevano voler gareggiare tra di loro per rotolargli lungo le guance magre. 
Perché Ryan era riuscito finalmente a fare l'ultimo passo. Era di fronte a me, sì, ma era in piedi. 

Certo con le protesi alle gambe e due infermieri, uno per lato che si affrettavano a sorreggerlo nel caso lo vedessero barcollare, ma era in piedi e stava avanzando lentamente verso di me. 

Passo dopo passo, camminava.
Ryan camminava! 

Coprirmi il viso con entrambe le mani fu istintivo, liberare le lacrime un sollievo. 

Senza rendermene conto scivolai a terra, fino a sedermi sui talloni, e continuai a mormorare qualcosa che alle mie orecchie doveva avere senso.
 
«Oh... Mio... Ryan... Oh...»

Lui mi sorrise, caldo e rassicurante, e con un cenno seccato allontanò da sé gli infermieri. 

«Via, via! Mi rovinate la scena, così!»

Il suo italiano stentato e condito dal forte accento californiano, non suonò minaccioso - come sicuramente avrebbe dovuto essere - tuttavia sortì l'effetto desiderato. I due infermieri lo lasciarono andare con un sorriso divertito, ma si allontanarono solo di qualche passo pronti a intervenire in ogni caso. 

Non servì, comunque. Perché Ryan, contro ogni aspettativa, piegò le gambe e cadde davanti a me. Sudato, affaticato ma sorridente. E non con il suo sorriso appena accennato, invisibile, ma uno vero. Luminoso come mille soli in un'unica stanza. 

«Visto?» si pavoneggiò. «Non c'è niente che non possa fare, io.»

Io intanto, continuavo a piangere, incapace di parlare o emettere un suono che non fossero singhiozzi di gioia. 
Ryan mi tolse la mano sinistra dal viso e la strinse forte, portandola accanto al cuore e facendosi tutt'a un tratto serio. 

«Veronika... Sono consapevole di trovarmi in un ospedale, seduto su un pavimento che profuma - o puzza vedi te - d'ammoniaca, circondato dagli infermieri e dalla tua ex focosa e irritante, ma...» 

«Grazie per il complimento» lo interruppe Arleen, beccandosi immediatamente un'occhiata poco amichevole. 

«Sono nel bel mezzo di un discorso importante, ti dispiace?»

La rossa accennò a un sorriso tenero e gli strizzò l'occhio. «Scusami.»

Ryan tornò con lo sguardo emozionato sul mio viso. 
«Dicevo... Ma non posso aspettare ancora. Non posso. Non ce la faccio. Anche se me l'hai già chiesto tu, non posso non rifarti la stessa domanda. Sono un uomo, il mio ego ne risentirebbe!» 

La battuta smorzò la tensione e mi strappò un risolino imbarazzato.
«Scemo!» biascicai, ridacchiando tra la lacrime. 

Ryan annuì solenne. «Lo so, ma fammi finire. Veronika...» Strinse ancora più forte la mia mano. Solo in quel momento mi accorsi che gli tremava il labbro inferiore e forse per la prima volta lo vidi in dolce difficoltà. 

«... Non sono uno romantico e nemmeno uno che sappia cosa dire nei momenti importanti. Ma questo... Questo è il nostro momento. Quello in cui finalmente io, Ryan Morgan, m'inginocchio davanti a te e ti dono il mio cuore. Non ti posso promettere una montagna di soldi, una vasca ricoperta d'oro, una vita lussuosa, ma posso prometterti me stesso, un lungo bacio prima di andare a letto, quando ti svegli la mattina con l'alito infernale e i capelli sparati in tutte le direzioni, quando sarai arrabbiata, triste, allegra o pensierosa. Non posso prometterti che una volta fuori di qui potrò correre al tuo fianco in riva al mare, che camminerò dritto e senza il supporto di qualcuno tenendoti la mano, ma posso prometterti tutto il mio conforto, la mia comprensione, la mia forza e le mie speranze. Non ti garantisco che sarò sempre cordiale, che sorriderò sempre, che non ti farò ancora del male, ma darti il mio amore sì. Questo te lo garantisco. Ti amo e non smetterò mai.»

Sorrise, tirando fuori dai pantaloni una famigliare scatolina di velluto. «Veronika Danièlsson, vuoi tu sposare questo egocentrico e vanitoso burbero in carrozzina, amarlo, sopportarlo e sposarlo finché...» Allontanò la mia mano dal petto e delicatamente mi fece scivolare lungo l'anulare l'anello tanto atteso. «...morte non vi separi?»

A una proposta del genere, la gente normale avrebbe annuito e avrebbe sigillato quella promessa con un lungo e schioccante bacio. 
Io, invece, scoppiai a ridere tra le lacrime e mi gettai su di lui. 
Come avevo fatto l'anno prima, alla festa. 

E tra gli applausi scroscianti degli altri, gli presi il volto tra le mani e urlai: «Sì... Sì... Sì... SÌ!»

Tra le grida di giubilo e gli auguri, però, a nessuno dei due sfuggì l'esclamazione da bambina ferita di Arleen, che nel frattempo si era accovacciata di fianco a noi:
«Sì ma io voglio fare la damigella!»

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