Ryan. Sleepover
Giovedì 28 giugno
«Ecco la lista; prendi quello che ho segnato e nient'altro. Capito? Stai alla larga dal reparto alcolici.»
Presi la lista della spesa con fare stizzito, gettando un'occhiataccia a mia sorella. «Non trattarmi come un bambino.»
«Devo, se ti comporti come tale.» Sunny ancheggiò via sulle sue gambe chilometriche evidenziate da cortissimi shorts inguinali. D'estate vestiva sempre come una poco di buono, cosa che mi faceva impazzire dal nervoso. Andava bene se potevo supervisionarla e tenere lontano da lei tutti i pervertiti, ma dato che Sunny aveva l'abitudine di girare così anche in tarda serata e da sola... beh, diciamo solo che avevo finito le unghie da mangiare.
Mentre azionavo la carrozzina e mi davo da fare per prendere tutto il necessario – Sunny aveva imparato a segnare solo gli alimenti che potevo trovare nei ripiani più bassi; era una lezione che avevamo appreso dopo vari momenti per me imbarazzanti – riandai con la mente al belloccio che si era presentato a casa nostra qualche giorno fa, il regista. Mia sorella mi aveva decantato le sue lodi non appena aveva chiuso la porta – dopo avermi strigliato per bene per averlo praticamente buttato fuori a calci. Ma se lo meritava. Flirtava con lei come se io non ci fossi nemmeno. Farabutto!
Diedi un'occhiata in giro. Sunny non si vedeva, e il paradiso era proprio dietro l'angolo.
Mi diressi nel reparto alcolici con un sogghigno. Non bevevo dalla sera prima e ne avevo una voglia matta. Purtroppo mia sorella si era fatta furba. Conosceva tutti i miei nascondigli e faceva sparire le bottiglie appena varcavano la soglia di casa. Avrei dovuto comprare una fiaschetta da tenere sempre con me se volevo sopravvivere a quella befana.
Gli occhi mi si illuminarono mentre contemplavo le bottiglie sfavillanti. Stavo per prenderne una quando qualcosa attrasse la mia attenzione. La corsia era deserta, fatta eccezione per una ragazza ferma davanti al frigorifero. Mi dava le spalle e non l'avrei neanche notata se non fosse stato per il giaccone maschile che la infagottava e le copriva le gambe nude. Di lei riuscivo solo a vedere il caschetto spettinato di capelli scuri e i tacchi altissimi che le slanciavano le caviglie sottili.
Non avrei saputo dire cosa mi avesse spinto a girarmi nel momento esatto in cui la ragazza stava nascondendo qualcosa sotto il giaccone. La vidi allungare una mano ornata di anelli e bracciali pacchiani verso il frigo. Una mano delicata e dalle dita lunghe, con le unghie smaltate di rosso cupo.
«Ehi!» Una guardia mi oltrepassò rapida e si avvicinò alla ragazza. «Cos'hai lì?»
La ragazza si voltò e in quel momento vidi il suo volto tumefatto, l'occhio gonfio e violaceo, il labbro spaccato, il taglio rosso sulla guancia, il naso deviato con tutta probabilità da un pugno. La guardia rimase spiazzata, combattuta tra il dovere di ordinarle di riporre la refurtiva e la compassione per quel viso martoriato.
Sapevo che alla fine avrebbe vinto il dovere.
Quindi, preso dal mio innato desiderio di combinare guai e di passarla liscia solo a causa del mio handicap, mossi la carrozzina verso lo scaffale degli alcolici, sbattendoci contro. Le bottiglie più in alto ondeggiarono e caddero a terra, frantumandosi e spargendo liquori ovunque.
Il chiasso fece girare immediatamente la guardia.
«Colpa mia» alzai le mani.
Per un attimo incrociai lo sguardo della ragazza e vidi i suoi occhi, nerissimi, profondi, tormentati. Poi si voltò e scappò, mentre la guardia correva verso di me. Era a disagio e imbarazzata. Non sapeva se sgridarmi o lasciar correre. Restò lì, come un ebete, per qualche secondo. Alla fine arrivò mia sorella a salvare la situazione.
«Oddio, Ryan, che diavolo hai fatto!» esclamò, portandosi le mani al volto. «Ti avevo detto di stare lontano da qua!» Si rivolse alla guardia, dispiaciutissima. «Mi dispiace da morire, pagheremo i danni! Ecco, le lascio il mio numero, parli pure col suo superiore e mi comunichi quanto le dobbiamo.»
La guardia accettò il biglietto da visita di Sunny con aria intontita, senza sapere che dire. Lo osservò e sgranò gli occhi. «Ma lei è la scrittrice! Mia moglie adora i suoi libri.»
Sunny ridacchiò, fintamente imbarazzata ma in realtà compiaciutissima. «Oh, beh, ho scritto qualche libro, sì.»
«Santo cielo! Non è che potrebbe farmi un autografo? Ronnie ne andrà matta.»
«Ma certo.» Sunny estrasse la biro che portava sempre con sé per quelle occasioni e tracciò uno svolazzo pieno di cuoricini sul retro del biglietto da visita.
«Wow, grazie!» La guardia era raggiante. «E non si preoccupi per questo, non è niente.»
«Ne è certo?»
«Sicurissimo.»
«Che dire, grazie mille!» Sunny gli rivolse un sorriso smagliante, prima di agguantare la sedia a rotelle e portarmi rapidamente via, oltre la muraglia di spettatori curiosi. «Cosa ci facevi qui?» sibilò sul mio orecchio.
«Guardavo, è un delitto? Perquisiscimi pure, non ho preso niente.»
Andammo a pagare alla cassa e io notai immediatamente che aveva comprato tanto cibo da sfamare un esercito. «Fammi indovinare: hai invitato qualcuno a cena e come al solito non mi hai avvertito.»
Sunny pescò un volantino dalla bacheca lì accanto, osservandolo meditabonda. Non riuscii a vedere di che si trattava. «Tanto, che differenza fa?» mormorò, sovrappensiero, prima di infilarlo in borsa. «Non sei mai di compagnia. Appena finisci di mangiare ti rintani in camera.»
«Almeno potresti dirmi se posso venire a tavola in mutande?»
«Non puoi. Viene Kat stasera. Te la ricordi? Eravamo sedute vicine in aereo quando siamo arrivati.»
«Per niente.»
Lei sbuffò, iniziando a sistemare gli alimenti nella corsia. «Cosa lo chiedo a fare, avevi gli auricolari e non ti sei staccato un attimo dall'ipad... Comunque ci siamo incontrate per caso l'altra mattina quando sono uscita a correre. Abita nel nostro stesso isolato, ti rendi conto? Mi ricordo che faceva la scrittrice come me e mi ha raccontato che sta lavorando al suo secondo romanzo. È abbastanza famosa nel suo genere. Comunque l'ho invitata a cena e ha esitato molto prima di accettare, quindi ti prego di stare buono e di farla sentire a suo agio, non come hai fatto con Christopher.»
«Christopher? Lo chiami per nome adesso? Vi siete sentiti?»
Lei tergiversò: «Vuole fare un film tratto dal mio romanzo, ti rendi conto? Non vedo l'ora di andare al cinema a vederlo e dire a tutti: "la storia l'ho inventata io"! Chissà che attore prenderanno per il ruolo del gigolò...»
Sunny continuò a farneticare, gli occhi brillanti di entusiasmo, ma io smisi di starla a sentire. Eravamo usciti nel parcheggio e per un istante, dietro ad un auto in movimento, mi parve di vedere la stessa ragazza di prima. Il giaccone la nascondeva completamente e se lo teneva stretto sulla vita, nonostante la calura. Mi fissava con intensità quasi inquietante dietro la nuvoletta di fumo proveniente dalla sigaretta che stringeva tra le dita.
Arrivammo alla macchina e iniziammo a caricare le borse della spesa. Quando tornai a girarmi, ovviamente, lei era scomparsa di nuovo.
...
Mia sorella mi costrinse a vestirmi in modo decente per la serata. Provò anche a indurmi a sbarbarmi, ma le urlai dietro così forte da farla scappare via. Non sapevo perché si desse tanta pena, ma Sunny era fatta così, cercava sempre di fare una buona impressione e di piacere alla gente. Era probabile che, essendo nuova a San Diego, stesse cercando di farsi degli amici in fretta. La iraniana Emily era la sua unica via di fuga dalla noia di un sabato sera chiusa in casa a guardare film col burbero fratellone. Forse sperava di ingraziarsi questa Kat. In fondo era nuova anche lei in California, anche lei si era trasferita da poco e probabilmente anche lei cercava qualche distrazione.
Non poteva capitarle piaga peggiore di mia sorella.
Erano le otto precise quando suonarono al campanello. «Vai tu!» gridò Sunny dal bagno, mentre finiva di prepararsi.
Sbuffai. Le convenzioni sociali non erano il mio forte. Ora mi attendeva una serata fatta di chiacchiere inutili e pettegolezzi femminili su vestiti e libri. Sarebbe stato meglio tagliarsi le vene.
Aprii la porta, trovandomi davanti una ragazza alta e snella, vestita casual – perché diavolo Sunny mi aveva costretto a mettere la camicia?!, gliel'avrei fatta pagare! – con folti capelli castano chiaro che le incorniciavano un viso armonioso. Le labbra erano morbide e ben disegnate, il naso raffinato e leggermente all'insù. Folte sopracciglia incorniciavano occhi dal taglio elegante. E furono proprio quelli a colpirmi. Occhi verdi, acuti. Occhi identici a quelli di mia figlia...
Zoey non aveva ereditato la sfumatura dorata dei miei. Le sue iridi erano come smeraldi che ipnotizzavano e incantavano chiunque la guardasse. Sarebbe diventata la bambina più bella del mondo, i miei agenti avrebbero fatto carte false per far sfilare anche lei, per pubblicare le sue foto, creare calendari col suo viso. Io e Kate già immaginavamo le lotte che avremmo ingaggiato per proteggerla da quegli avvoltoi.
Quegli occhi bellissimi si erano spenti per sempre, ma ora tornavano a tormentarmi nel viso di una ragazza stupenda, quella ragazza che Zoey avrebbe potuto diventare, non fosse stato per me.
La ragazza – avevo già dimenticato il suo nome – iniziò a mostrare segni di disagio. Infine disse: «Sono Kat. Sunny...»
«Sta finendo di impiastricciarsi la faccia. Entra pure» mi feci da parte.
Kat entrò, guardandosi intorno. «Bella casa.»
«È un appartamento.»
Lei indicò l'ascensore. «Quello dove porta?»
«Al piano di sopra.»
«Non sono mai stata in un appartamento a due piani.»
Non sapevo che rispondere per proseguire quella conversazione. Mi ero già stufato. Sunny, muoviti a tornare!
«Ci siamo trasferiti nello stesso periodo, a quanto pare» continuò la ragazza. Era chiaramente una di quelle che preferiva colmare il silenzio con chiacchiere inutili invece che tacere.
«Già.»
Lei mi scrutò con quegli occhi per me impossibili da guardare senza soffrire. «Non sei uno di molte parole.»
«E ora che abbiamo constatato l'ovvio, vuoi toglierti la giacca, così l'appendo?»
Lei parve confusa dal tono con cui le avevo risposto. Non sapeva se prendersela o mostrarsi divertita. Alla fine si tolse la giacchetta leggera. «Ce la fai?»
«Le braccia me le sono salvate per qualche motivo.» Mossi la sedia fino all'attaccapanni elettronico che avevo installato alla parete. Pigiai un pulsante e un appendino scese di qualche centimetro, abbastanza da permettermi di sistemare la giacchetta. Poi lo feci tornare al livello degli altri.
Mi girai verso la ragazza, che chiese: «Sei Ryan Morgan, vero? Il modello che ha avuto quell'incidente.»
«Il bello dell'essere vip: tutti sanno i cazzi tuoi. Tu sai cosa significa, no? Sei del giro.»
Ancora una volta, non riuscii a capire se l'avevo offesa con la mia imprecazione o solo divertita. Aveva un viso totalmente inespressivo. «Non direi proprio. Ho scritto un solo libro...»
«Che in un mese è diventato un best-seller mondiale. Me l'ha detto Sunny.»
«Quali malelingue stai spargendo sul mio conto?» trillò mia sorella, giungendo dal bagno. Doveva essersi immersa nel suo J'adore e sperai che non soffocasse Kat quando la strinse con confidenza tra le braccia. «Ciao, cara, benvenuta. Vi siete già conosciuti? Ti ha mancato di rispetto? È la sua dote migliore.»
«No, è stato molto carino.»
«Ryan carino...» valutò Sunny, occhieggiandomi. «Sì, suona abbastanza inquietante. La cena è pronta, se vuoi accomodarti. Come procede il sequel del tuo romanzo?»
Le lasciai andare avanti. Senza di me Kat sembrava più a suo agio. Mi chiesi se fosse colpa della carrozzina, delle mie maniere o dal semplice fatto che fossi un uomo.
La cena andò bene, per quanto possibile. Le ragazze parlarono e io ascoltai. Guardare Kat negli occhi diventava meno odioso ogni minuto che passava, e spesso mi perdevo nei suoi smeraldi luccicanti mentre chiacchierava con Sunny del suo libro, della sua nuova casa, del suo agente. Dopo qualche bicchiere di vino, la sua lingua si era sciolta e la vidi sorridere più spesso. Si fece loquace perfino con me, chiedendomi come fosse la vita da modello.
Ero io a rispondere a monosillabi, per lo più. Non sapevo a cosa fosse dovuto. Sembrava che, dall'incidente, non fossi più in grado di sostenere una conversazione civile con qualcuno. Finivo sempre per sembrare uno stronzo arrogante, ma, per qualche motivo, non volevo che anche Kat mi vedesse così. Sapevo che per "gli altri" parlare con me era difficile e anche solo guardarmi era una sfida. Non sapevano se fissare l'uomo o il paralitico, se chiedere la ragione di quelle gambe immobili o fingere che fosse tutto normale.
Finito di mangiare, Sunny si alzò per andare a prendere il dessert. Kat mi sorrise. Aveva gli occhi luminosi e liquidi; doveva aver alzato un po' il gomito, anche se le avevo visto bere solo un paio di bicchieri di vino. Io ne avevo bevuti sei ed ero perfettamente in me.
«Tua sorella è fantastica.»
«È la simpatica di famiglia.»
Kat poggiò il gomito sul tavolo e il mento sulla mano. «Non ti va giù il fatto che potresti piacere a qualcuno, vero? È per questo che ti comporti così.»
«Così come?»
«Fai l'asociale, il superiore, come se tutto questo non ti riguardasse.»
«Non c'è niente che mi riguardi, tranne questa sedia.»
«Non funziona con me, sai.»
«Cosa?»
«Fare la vittima.»
Era la prima volta che qualcuno mi parlava in quel modo e non mi piaceva affatto. «Non lo sto facendo.»
«Invece sì, e ti ripeto che con me non funziona. Pensi di essere l'unico ad avere un problema? C'è gente messa peggio di te che non smette di sorridere e non si lamenta neanche una volta.»
«Mi hai sentito lamentarmi?»
«Tu non accetti la possibilità che qualcuno voglia conoscerti più a fondo» ripeté lei, ignorandomi. «Tieni tutti alla larga con le tue frasi acide e i tuoi commenti sarcastici. Non rendi le cose facili a nessuno.»
«Oh, scusa, la mia presenza ti dà tanta noia?»
«Vedi, lo stai rifacendo! Appena qualcuno cerca di parlarti seriamente, tu svicoli e fai... beh, non vorrei dire lo stronzo, ma quasi.»
Io serrai la mascella. «Dillo pure. Lo sono.»
Kat mi guardò irritata e dispiaciuta insieme, ma arrivò Sunny ad interromperci. Io sgusciai fuori dal tavolo con una mossa rapida.
«Dove vai? C'è il flambé!» mi gridò dietro mia sorella.
«Mangiatelo voi. Io vado in camera.»
Ero irritato al massimo, ma non con Kat, realizzai mentre passavo davanti all'ingresso. Ero arrabbiato con me stesso. Lei aveva ragione, mi lamentavo, non con le parole ma con ogni respiro, con ogni sguardo, con ogni smorfia. E non mi lamentavo per essere finito su quella dannata sedia, ma perché non ero morto anch'io insieme alla mia famiglia.
Era quella la mia dannazione. Essere vivo dopo aver portato loro alla morte.
Qualcuno bussò alla porta. Due colpi deboli, seguiti da un lungo silenzio. Strano, pensai, nessuno bussa più alla porta. C'è il campanello apposta.
Andai ad aprire, tirando la porta verso di me. Persino quel semplice gesto era un'impresa. E smettila!, mi rimproverai. Kat ha fatto bene a prenderti per le orecchie!
Per un attimo pensai che non ci fosse nessuno oltre la soglia, che fosse solo uno scherzo. Poi un'ombra si scostò traballando dalla parete, comparendomi dinanzi.
«Aiutami...» sussurrò la ragazza infagottata nel cappotto.
Fu l'ultima cosa che disse prima di accartocciarsi per terra.
«Sunny!» gridai.
Lei accorse subito. Sapeva riconoscere l'allarme nella mia voce. «Oh Gesù!» esclamò, correndo ad aiutare la poveretta.
«Portala dentro.»
Sunny iniziò a trascinare la ragazza e io chiusi la porta. «Che succede?» chiese Kat.
«Una ragazza ci è svenuta davanti alla porta, tutto normale» risposi, avvicinandomi al divano dove Sunny l'aveva sistemata.
Restammo al capezzale della malcapitata per tutti i dieci minuti che le ci vollero per svegliarsi.
Vidi le palpebre vibrare e d'istinto mi feci indietro, rifugiandomi dietro le alte gambe delle ragazze.
«Ehi, ci sei? Stai tranquilla, non ti agitare» disse mia sorella con voce da mamma premurosa.
La ragazza non la ascoltò e si mise subito seduta. Riuscii a intravederla e anche lei vide me. Riconobbi quegli occhi tormentati, accesi, quasi folli o febbrili, e quel volto sgualcito, ma non spiccicai parola.
«Scusate» balbettò, coprendosi le gambe nude col lembo del giaccone.
Non riuscì a dire altro che suonarono di nuovo al campanello.
«Questa casa sta diventando un ostello» borbottai, mentre Sunny andava ad aprire.
Stavolta l'ospite era un uomo; indossava una canottiera bianca che mostrava i peli del petto e, affondato in essi, una medaglietta d'oro. Non notai altro; solo quel particolare bastava a renderlo ripugnante ai miei occhi.
«Salve, sto cercando mia figlia, Veronika» disse con voce apparentemente gentile, ma che aveva qualcosa di viscido ed infido. Quello stesso qualcosa che scorsi nei suoi occhi quando si puntarono nella mia direzione.
La sconosciuta si alzò dal divano come se avesse preso la scossa. «Vai via, Mike» sibilò.
L'uomo si fece suadente. «Tesoro, torniamo a casa, dai. Mi dispiace per quello che è successo, ma ci manchi, manchi alle tue... sorelle. Torna, forza.»
«No.»
«Veronika...»
«Ho detto NO!» gridò lei, con uno scatto d'ira che sorprese tutti i presenti. «Non ci torno indietro! Vattene via!»
Mike strinse le labbra e azzardò un passo dentro casa. A quel punto mi mossi, tagliandogli la strada. «Mi pare di aver sentito la signorina dirle di andarsene» dissi, calmo.
Lui neanche mi considerò. «Io posso anche andarmene, ma tu che farai? Dove passerai la notte? Dove l'hai passata in questi cinque giorni? Sotto un ponte?»
A quella raffica di domande la ragazza non seppe rispondere. La vidi passarsi una mano tra i corti capelli neri, scoprendo così un altro taglio sull'attaccatura. Bastò quello a farmi decidere.
«Starà qui» risposi.
Solo allora l'uomo abbassò lo sguardo su di me. «E lei chi è?»
«Il padrone di casa. E se non porta immediatamente il culo fuori di qui chiamerò la polizia. Così la signorina potrà anche dirci cos'è successo tra di voi.»
Speravo di minacciarlo, ma lui scoppiò a ridere. Una risata maligna, piena di sfida. «Sì, chiama la polizia, Veronika! Ma ricordati: io sono l'unica famiglia che hai.»
Lei sorresse il suo sguardo. «Vaffanculo.»
Lui emise un verso di derisione e se ne andò. Sunny chiuse la porta. Dopo qualche secondo di totale silenzio, si guardò intorno. «Dov'è Kat?»
«Sono qui» rispose la ragazza, emergendo dalla cucina. Non l'avevo neanche vista allontanarsi, ma ora vidi bene quanto era pallida. Sembrava che anche lei dovesse svenire da un momento all'altro. Continuava a guardare la porta come se temesse si dovesse aprire da un momento all'altro.
«Tutto okay, tesoro?» chiese Sunny, preoccupata.
Lei annuì, senza parlare. Io girai la sedia verso la ragazza di nome Veronika. «Ci spieghi?»
«Grazie» disse lei. «Per averlo mandato via. Ma appena sarà lontano me ne andrò.» Andò a controllare alla finestra che dava sulla strada.
«Ma chi era quel buzzurro?» chiese Sunny. «È stato lui a...?» Si indicò la faccia in un moto circolare.
Veronika non la guardò neanche. «Non se ne va» mormorò.
Kat avanzò a passo rapido verso di lei, guardando giù. «Cosa diavolo vuole?»
«Me» rispose Veronika, indietreggiando e lasciando ricadere le tende. «Ma non ho intenzione di tornare da lui.»
«È tuo padre?» chiesi.
«Il mio patrigno.»
«Saresti una stupida se tornassi indietro dopo quello che ti ha fatto.»
Veronika mi rivolse un'occhiata da sotto l'occhio gonfio. Non discusse la mia affermazione. Non che potesse negarne la veridicità.
«Hai fame?» intervenne Sunny. «Stavamo cenando e c'è una fantastica torta flambé che ci aspetta.»
«In effetti sto morendo di fame.»
Sunny la condusse in cucina, chiacchierando allegramente per smorzare la tensione. Io fissai Kat, ancora alla finestra. Aveva il volto turbato, pieghe amare ai lati della bocca. «Lo conosci?»
Lei richiuse subito le tende. Doveva essere talmente assorta da non essersi resa conto che ero ancora lì. «No, ma mi ha spaventata. Pensavo non andasse più via.»
In un gesto automatico prese a sfregarsi un polso, giocherellando con un grosso bracciale in cuoio. Per un attimo mi parve di intravedere delle escoriazioni sulla pelle lattea non toccata dal sole estivo. Poi lei disse: «Mi dispiace per le cose che ti ho detto prima.»
«Perché dovresti dispiacerti? Avevi ragione.»
Sentii il suo sguardo puntato sulla mia nuca mentre guidavo verso la cucina. Veronika non aveva perso tempo e si stava abbuffando di tutto ciò che avevamo avanzato. Non era certo una ragazza schizzinosa. Mangiava come se non si cibasse da mesi, e sembrava impossibile che tutta quella roba potesse entrare in un corpo tanto sottile.
Si riempì un bicchiere di vino e lo scolò fino in fondo, ma dopo chiese solo acqua. Intanto si aggiustò il giaccone, tirandosi su le maniche. Doveva avere caldo, ma non si azzardava a toglierlo.
Anche Kat ci raggiunse e mangiammo quel benedetto flambé. Sunny si crogiolò nei complimenti di tutti – a dire il vero, a me la crosta pareva un po' bruciacchiata – e propose un giro di brindisi.
Kat ci diede dentro. Dopo tre bicchieri di Champagne si tirò indietro sulla sedia e ridacchiò: «Cristo, mi sa che sono un po' brilla! Non so se ce la faccio a tornare a casa.»
Io mi ritrovai a chiedermi se non avesse bevuto di proposito per avere la scusa buona per restare e non incontrare quel Mike che aspettava Veronika di sotto...
«Abbiamo due camere degli ospiti apposta!» abboccò subito mia sorella. «Facciamo una bella spleepover tra ragazze.»
«Meno male che hai specificato i membri. Io vado a letto» dichiarai.
Le ragazze mi augurarono la buona notte e io mi ritirai, con la sensazione che le due ospiti non avessero raccontato tutta la verità quella sera.
...
Mi ero appisolato da forse un paio d'ore quando sentii una vocina sussurrare: «Ryan?»
«Che vuoi?» borbottai, individuando sotto la luce lunare che entrava dalla finestra una figura femminile con indosso il pigiama di mia sorella e il suo tipico odore di shampoo agli agrumi e nicotina.
Ma guardando meglio mi accorsi che non era Sunny. Era più bassa e leggermente sproporzionata, con un vitino da vespa incorniciato da fianchi troppo larghi. Le gambe erano lunghe e magre, ma il seno era fin troppo generoso e libero sotto la magliettina di cotone.
Accesi subito la luce sul comò. «Che diavolo... Cosa fai qui? È la mia stanza. Nessuno entra nella mia stanza.»
«Scusami» fece Veronika, «è che non riesco a prendere sonno. Non ho mai dormito da sola.»
«E cosa posso farci?»
«Posso stare qui con te?»
«Che cosa?!»
«Non ti darò fastidio, non ti accorgerai neanche di me. Voglio solo sentire il respiro di qualcun altro. Ha un effetto calmante, non so...»
Ero senza parole. Non dormivo con una donna da un anno e non avevo intenzione di ricominciare con una ragazza piena di problemi e forse anche cleptomane. Avevo un Rolex da non so quante migliaia di dollari nel comodino. Perché diavolo non avevo chiuso la porta della camera a chiave?
Beh, ma chi poteva immaginarlo...
«Russo» cercai di dissuaderla.
Ma lei sorrise, per la prima volta quel giorno. «Meglio.»
Borbottai qualcosa di indefinito e infine sbuffai: «Ma stai dalla tua parte.»
«Grazie» sussurrò lei, riconoscente. Venne subito a sdraiarsi dalla parte destra del letto, rifugiandosi sotto le lenzuola.
Mi predisposi a riaddormentarmi, ma lei chiese: «Dormi sempre a pancia in su?»
«Sei qui per parlare o dormire?»
«Scusa. Buona notte.»
Grugnii e chiusi gli occhi, cercando di rilassarmi. Ma non era facile sapendo di avere accanto una ragazza seminuda che, per di più, non mi toglieva gli occhi di dosso. Probabilmente era sovrappensiero, ma di fatto non staccava lo sguardo da me.
Stavo per rimbrottarla quando mormorò: «Grazie per avermi fatta restare. Mi avrebbe presa non appena fossi uscita.»
Mi rassegnai. Era chiaro che aveva bisogno di parlare con qualcuno. «È la prima volta che ti tratta così?»
«No.»
«Perché non sei scappata prima?»
«Non sapevo dove andare. Ho diciotto anni e neanche un dollaro. Ho solo i vestiti che indosso.»
Diciott'anni. Porca miseria. Gliene avevo dati almeno venti. Aveva uno sguardo adulto e modi di fare molto sorvegliati, per essere appena maggiorenne.
«Il primo passo l'hai fatto: hai capito che così non poteva continuare.» Sapevo cosa avrebbe detto Sunny se fosse stata lì. Quindi roteai gli occhi, sospirando: «Puoi stare qui. L'appartamento è grande.»
Pensavo che avrebbe accettato la mia proposta con gioia, invece rispose: «Grazie, ma vorrei farcela da sola.»
Mi venne da sorridere. Mi sembrava di parlare con me stesso.
Nessuno disse più una parola e finalmente riuscii ad addormentarmi.
...
Era notte inoltrata quando mi svegliai con l'urgente bisogno di andare in bagno. Troppo vino, maledizione.
Iniziai a darmi da fare per sollevarmi, ma mi ero dimenticato della ragazza stesa al mio fianco – che, tra parentesi, aveva sconfinato nella mia parte – e le mollai una gomitata sulla spalla, destandola di soprassalto.
«Scusa.»
«Che succede?»
«Niente, dormi.»
«Dove vai?»
«In bagno a pisciare.»
«Ti do una mano.»
«Mi arrangio.» Ci misi una vita, ma riuscii a scivolare sulla sedia e ad uscire dalla stanza.
Anche solo la semplice operazione di sedermi sul water richiese mille sforzi e tornai in camera sudato e sfinito.
La luce era accesa e Veronika mi aspettava seduta a gambe incrociate. Appena mi vide si adoperò per aiutarmi.
«Ti ho detto che ce la faccio» la fermai.
«E ci metti mezz'ora. Prima ti infili a letto, prima torniamo a dormire entrambi.»
La guardai malissimo, ma lei mi rivolse un sorriso storto sulla bocca spaccata. Non ebbi cuore di sgridarla ancora, ne aveva passate troppe. Lasciai che mi trascinasse per le braccia e mi sistemasse le gambe inerti sotto il lenzuolo.
«Grazie...» bofonchiai, leggermente rosso in faccia. Ma per la fatica, non per altro.
Lei si limitò a spegnere la luce. Dopo qualche minuto la riaccese, accecandomi.
«Allora?!»
«Ho appena avuto un'ideona! Potrei diventare la tua assistente?»
«Eh?»
Strizzai gli occhi. Veronika era raggiante, coi capelli scompigliati e gli occhi brillanti. «Posso aiutarti in casa, portarti a sbrigare le tue faccende. In cambio potresti darmi vitto e alloggio, mi basta quello.»
Per la seconda volta quella ragazza mi lasciava senza parole. «Non sono discorsi da fare alle quattro di mattina. Spegni la luce e fammi dormire. Dio, sei uno strazio.»
Veronika obbedì solerte, per niente punta dalle mie parole. E quando il buio tornò ad avvolgermi, mio malgrado mi ritrovai a sorridere. Quella ragazzina era assurda. Prima si infilava a letto con me e poi mi faceva quella proposta indecente. Era chiaramente disperata per voler avere a che fare con uno come me. L'indomani mattina non si sarebbe neanche ricordata della sua assurda idea.
Rinfrancato da quel pensiero, riuscii finalmente ad addormentarmi.
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