Matthew. Segreti

Lunedì 2 luglio, mattina

La luce del sole filtrava dalla tapparella socchiusa, trafiggendomi gli occhi come minuscolissimi spilli e non concedendomi tregua dall'emicrania martellante con cui mi ero svegliato quella mattina. Mugugnando, cercai maldestramente, a tentoni, l'analgesico che sapevo di avere sul comodino e nel farlo urtai la bottiglia di Lagavulin ormai vuota, che si schiantò a terra con un rumore sordo, frantumandosi in una miriade di cocci.

Se il buongiorno si vede dal mattino, non oso immaginare il resto di questa giornata di merda. Non che quella di ieri sia finita meglio.

Sbuffando, mi rassegnai a scendere dal letto, dal lato opposto a quello del disastro a cui avrei rimediato dopo. Mi trascinai fino al bagno, sfilai i boxer e mi guardai nello specchio, in tutto il mio terribile aspetto. I capelli erano più arruffati del solito, profonde e violacee occhiaie mi segnavano gli occhi e un accenno di barba incolta mi ricopriva le guance, donandomi un aspetto trasandato che non mi apparteneva. Alla fine ero riuscito a buttarmi prepotentemente tra le braccia di Morfeo e a prendermi con la forza il sonno che meritavo, concedendomi una pausa dai continui pensieri, ma a quale prezzo? L'uomo che mi guardava, di rimando, dallo specchio, non era che la mia grottesca caricatura e io ho sempre pensato che l'aspetto esteriore riflettesse quello interiore: un guscio pulito e ordinato, sempre impeccabile e sotto controllo, rimanda a un animo pulito e ordinato.

Con i pugni chiusi e le nocche ben salde sul marmo del lavandino, abbassai la testa e cercai di riprendere il controllo della situazione, mentre il petto si sollevava e riabbassava freneticamente e una morsa opprimente mi attanagliava il cuore e cercava di schiacciarmi i polmoni, impedendomi di respirare come dovrei e incamerare tutta l'aria di cui ho bisogno. Ero nel pieno di un attacco di panico.

Mi sedetti sul water, rilassai la schiena e appoggiai la testa al muro, sollevandola e rivolgendo un muto sguardo al soffitto; rivoli di sudore freddo mi scendevano lungo il volto e per tutta la spina dorsale, mentre portavo la mano destra al petto, in un disperato tentativo di tenere il cuore al suo posto, visto che sembrava volesse fuggire via. Contai i battiti impazziti e cercai di concentrarmi solo su di loro, riuscendo, poco a poco, a calmarmi.

I motivi che mi avevano portato a un tale crollo emotivo erano innumerevoli e tutti pesanti come macigni. L'aver rivisto quell'uomo, che mai avrei pensato di vedere qui a San Diego, la fuga in macchina e la folle corsa fino a casa nel cuore della notte... A tutto ciò si aggiungeva che avevo ricevuto una chiamata da Eleanor, quella stessa notte, che nel suo inconfondibile stile lapidario, mi aveva chiesto se fossi riuscito ad avvicinarmi alla figlia. Mi ero limitato a un laconico "Più o meno", non volendo di certo rivelare il piccolo incidente con l'automobile di Kaylee, sicuro che non avrebbe propriamente... approvato, ecco, l'accaduto, nonostante lei non mi avesse identificato come il responsabile.

Quando Eleanor mi aveva detto che mi avrebbe fatto avere al più presto notizie sugli spostamenti della figlia, ne ero stato immensamente felice: ero preso dai sensi di colpa per aver rubato la macchina - ero un gentiluomo, che diamine: puntavo ad amare le donne, non a derubarle - ed ero intenzionato a incontrarla il prima possibile per poterle organizzare qualcosa. Volevo scusarmi implicitamente per l'accaduto.

Un tempo infinito dopo, mi sembrò di aver ripreso il controllo della situazione, mi alzai e mossi qualche passo traballante verso la cassettiera in cui conservavo i boxer puliti, così da prenderne un paio prima di fare la doccia. Lo sguardo mi cadde sulla foto incorniciata posata sul mobile, la afferrai tra le mani e la studiai nei minimi particolari.
Due coppie, immerse in un paesaggio verdeggiante e illuminate dal sole, sorridevano felici alla fotocamera, strizzando gli occhi a causa dell'eccessiva luce di quella mattinata estiva. Ai loro piedi c'era una tovaglia a quadrettoni bianchi e rossi, stropicciata e piena di briciole, con accanto un cestino da picnic. Tutto il quadretto trasudava felicità, spensieratezza, voglia di vivere: a guardarli sembrava che nemmeno un problema potesse scalfire la loro gioia.

Accanto alla donna dai lunghi capelli scuri, che le ricadevano sul petto in morbide onde, una versione di me molto più piccola e imbronciata guardava torva l'obiettivo della fotocamera, con la faccia impiastricciata di cioccolata, mentre, tra le braccia dell'altra donna - una vera bellezza dagli occhi azzurri come il ghiaccio e i capelli talmente biondi da apparire quasi argentei - una neonata dagli enormi occhi blu sorrideva, soddisfatta.

L'ennesima fitta mi martellò le tempie, costringendomi a chiudere gli occhi e a posare la foto al suo posto, per buttarmi sotto la doccia e tentare di sciacquare via i residui della sbornia e del pensiero che dalla sera precedente, quando ero rientrato a casa, non mi dava pace.

Iris, la ragazzina nell'auto di Kaylee, era tremendamente simile alla donna nella foto.

E quella donna era la migliore amica di mia madre, la mia madrina di battesimo.

Gina.

Lunedì 2 luglio, sera

Fortuna che ho ripreso il pieno controllo del mio aspetto e del mio umore, pensai, mentre Arleen si prodigava nell'ennesimo tentativo di punzecchiarmi. Che piacevole e stimolante sorpresa trovarla qui, stasera. Il giorno che il suo orgoglio le avrebbe fatto ammettere che lei era la prima a provare un sadico ma irresistibile gusto nel provocarmi, sarebbe stato sempre troppo lontano.

Le sorrisi mellifluo, finsi di bermi l'ennesima provocazione e nel mentre le feci il verso nella mia testa: Tranquillo, so badare a me stessa.

Non lo metto in dubbio, ragazzina. Niente di personale: è solo che io saprei farlo meglio.

L'ingresso nel locale di una ragazza vestita in modo particolare, per usare un eufemismo, mi distrasse dalla conversazione e dai miei pensieri. Indossava una felpa di diverse taglie più grande e arrancava fino al bancone su dei tacchi vertiginosi, zoppicando appena, per poi lasciarsi cadere sullo sgabello di fronte a me. Il suo volto di certo non era messo meglio dell'aspetto generale: i capelli erano arruffati e la faccia segnata dal trucco sbavato, ma era l'espressione, la cosa che mi portò a distogliere lo sguardo, per puntarlo sull'entrata alle sue spalle. Quella ragazza, chiunque ella fosse, sembrava essere stata investita in pieno petto dagli stessi mostri con cui mi ero svegliato quella stessa mattina. Meglio lasciarla perdere.

«Che ti porto?» le chiesi, strofinando distrattamente un bicchiere.

«Vodka liscia.»

Pessima scelta, ragazza sconosciuta: quella riesce a stendere i mostri solo temporaneamente. Dopo, tornano più forti che mai.

Con un minuscolo e cordiale sorriso, iniziai a preparare l'alcolico e glielo servii e dopo poco lei e Arleen iniziarono inaspettatamente a battibeccare come due vecchie dirimpettaie. Come si conoscevano, quelle due? Evidentemente San Diego doveva essere proprio piccola, ma talmente piccola che la ragazza con i mostri chiedeva ad Arleen se fosse interessata a fare dei massaggi a tale Ryan, fratello di Sunny. Per poco la saliva non mi andò di traverso: che quella fosse la ragazzina di cui mi aveva parlato, quella che gli stava incollata al culo?

La faccenda diventava interessante. Eleanor mi aveva inviato un sms, in giornata, aggiornandomi sul fatto che la figlia sarebbe stata in un bar quella stessa sera: avevo deciso che sarei andato dopo il turno e magari avrei potuto chiamare Ryan per farmi compagnia, ero curioso di saperne di più.

Per il momento, in ogni caso, l'unico che doveva avere un qualunque contatto con lui ero proprio io, non di certo le mani della principessa saputella di fronte a me, non se ne parlava.
Lo facevo per il bene di Ryan, s'intende: il suo "ritorno alla vita", per così dire, doveva essere necessariamente soft e graduale e una provocante massaggiatrice che gli piomba tra capo e collo - o tra torace e pene - non mi sembrava poi così delicato. Proprio no.

Con un gesto fulmineo, afferrai il tovagliolo, lo appallottolai e lo gettai ai miei piedi, insieme agli altri tovagliolini intrisi di alcool. «Ecco, così abbiamo una conoscenza in meno in comune.»

Se Arleen avesse potuto fulminarmi con lo sguardo, in quel preciso istante, l'avrebbe fatto senza battere ciglio e, posso giurarlo su Dio, non c'era niente di più eccitante sulla faccia della terra. Volevo prenderla dietro il bancone, tenendola piegata con una mano sulla schiena, con la faccia a un palmo dal mogano su cui almeno un miliardo di avventori si erano succeduti negli anni; lo stesso bancone su cui, dopo una maliziosa uscita di scena, sbatté una banconota per pagare il drink, allontanandosi verso la porta.

Sorridendo, soffiai un bacio dalle dita in direzione della sua schiena rigida e impettita.

Ha vinto la battaglia, ma non la guerra.

Stai attenta, ragazzina: per quanto tu voglia nasconderlo, al tuo passaggio ti lasci dietro una fragranza impossibile da non riconoscere, un profumo dolce-amaro, novità sul mercato. Insoddisfazione.

Martedì 3 luglio, pomeriggio

«Matt?»

I pomeriggi, in un bar di lusso, sono sempre pigri. Le ore si tirano avanti sonnolente e annoiate, una dopo l'altra, dal momento che tutti i clienti sono chiusi nei loro noiosi uffici a cercare di guadagnare valanghe di soldi o nel locale di qualche estetista, parrucchiere o chirurgo plastico di turno, a spendere fior di dollari per regalarsi la gioia di un'effimera bellezza esteriore.

Per questo, se in un pigro pomeriggio in un bar di lusso suona il telefono e una ragazza dall'altra parte della cornetta chiede esattamente di me, vuol dire solo una cosa: guai.

«Sì?» risposi, titubante, pronto a dire che all'interlocutrice di essere il suo superiore, in caso di necessità.

«Sono Arleen.»

«Ah, Arleen.» Mi aprii spontaneamente in un sorriso malizioso e, incastrando la cornetta tra l'orecchio e la spalla, mi rilassai, appoggiando la schiena al muro e osservandomi le unghie con fare compiaciuto. La ragazzina era finalmente pronta a dirmi che mi desiderava? Oh, che dolce: l'avrei accontentata, solo non così presto.

«Ho bisogno di te, non sapevo chi chiamare, sono a casa di Ryan, devi accompagnarmi all'ospedale.»

Mi paralizzai seduta stante, mentre il sangue mi si ghiacciò letteralmente nelle vene e il pensiero corse immediatamente a quel paraplegico cocciuto e testardo. Cos'aveva combinato? Stava male?

Senza perdere nemmeno un secondo, corsi a prendere la giacca e le chiavi della Porsche e, una volta nell'auto, avvisai il proprietario del bar, sfrecciando verso casa di Ryan. Ad aspettarmi, fuori, trovai Arleen, Veronika e il paraplegico in questione, che più che ammaccato mi sembrava incazzato; in compenso, la sua assistente non sembrava avere una gran bella cera. Se, una volta saliti tutti in macchina, Arleen non avesse confermato il mio sospetto raccontandomi dell'incidente in bagno, ci avrebbe comunque pensato Veronika, vomitando copiosamente nell'abitacolo. Utilizzai tutta la compostezza che avevo in corpo per sorvolare sull'accaduto e non montare su una scena epica, doveva ritenersi fortunata se non aveva un soldo e Ryan era un mio amico, altrimenti mi sarei fatto ridare ogni centesimo che avrei utilizzato per togliere quello schifo dalla mia bambina.

Arrivati in ospedale, mi allontanai con Arleen, trascinandola lungo i candidi corridoi finché non ne trovai uno sufficientemente vuoto da poter scambiare quattro chiacchiere in tranquillità con la ragazza. C'era un pensiero che mi tormentava dal momento in cui avevo smesso di preoccuparmi per Ryan e non vedevo l'ora di sapere che cos'aveva da dire in merito la mia piccola stronza. Mi avvicinai a lei sempre di più, un centimetro dopo l'altro e lei si trovò costretta ad arretrare fino a rimanere bloccata con le spalle al muro.

Il fatto che ricambiasse il mio sguardo con uno carico di sfida, non faceva che farmi venire voglia di stuzzicarla ancora di più, fino a vederla cedere davanti ai miei occhi, supplicandomi di prenderla come sapevo meritasse.

«Arleen» sussurrai sulla sua bocca.

«Matthew» rispose questa, melliflua, senza scomporsi nemmeno di un millimetro.

«Mi spieghi cosa ci facevi a casa dei Morgan? Mi pare che avessimo letteralmente accartocciato la questione, ieri sera.»

«Mi spieghi da quando questi sono affari tuoi? Mi pare che non sia diventata una tua proprietà, ieri sera. O forse c'è qualche dettaglio, di ieri, che dovrei ricordare e si è perso nei vuoti della mia mente a causa della sua infinitesimale misura?» Arleen interpose una mano tra i nostri volti, facendo sì che tra indice e pollice ci fosse uno spazio di pochi millimetri, guardandomi con la stessa espressione che si riserva a qualcuno che si compatisce.

Mi avvicinai ancora di più, appiattendola totalmente al muro e premendo su di lei il mio accenno di erezione.
«Fidati» le sussurrai nell'orecchio e le mordicchiai il lobo prima di continuare a parlare. «Se fosse successo qualcosa, ti avrei inflitto una lezione talmente dura che ne porteresti ancora i segni addosso.»
«Dopo aver chiarito questo - com'era? - infinitesimale dettaglio» proseguii, allontanandomi di nuovo da lei «mi permetto di rinnovarti la mia domanda, Arleen. Avanti, soddisfa la curiosità di questo povero barman, cherì: cosa ci facevi a casa dei Morgan?»

«La vendemmia.» Arleen mi guardò scettica, come se stesse parlando a un bambino un po' duro di comprendonio. «Tendi a dimenticare le mie decantate doti di massaggiatrice, Matthew, ma pare sia il mio lavoro. Se hai bisogno di rinfrescarti la memoria in merito, è sufficiente che chiami Jona.»

Bastardo fortunato. Il solo pensiero di Jona con le sue mani addosso aveva il potere di annebbiare tutto il resto: in un movimento fulmineo, la presi per un polso, la trascinai nella prima stanza vuota che riuscii a trovare e la appoggiai sulla porta, che chiusi a chiave alle nostre spalle. Mi concessi un'occhiata intorno: sembrava una stanza adibita a magazzino, una di quelle in cui in appositi scaffali a vista in metallo si conservano tutti gli strumenti che usano i camici bianchi. L'occhio mi cadde su una delle cianfrusaglie di cui era piena una busta in plastica trasparente e un'idea improvvisa mi balenò in mente.

Con nonchalance mi appoggiai di schiena allo scaffale incriminato, squadrandola nella penombra della stanza. Persi il maggior tempo possibile nell'analizzare il colore dei suoi capelli, la forma del viso, lo sguardo magnetico, le sue meravigliose forme e quelle gambe, lunghe e affusolate, che non vedevo l'ora di sentire attorno a me, mentre, con le mani nascoste dietro la schiena, afferrai quello che mi serviva.

«Te l'ha mai detto nessuno che sei più bella quando stai zitta? Come mai senza parole, cheri?»

Arleen sbuffò e mi lanciò un'occhiata velenosa. «Trattengo la mia frustrazione solo perché ho trovato un pensiero decisamente migliore, con cui giocare: tu mi hai chiusa qui perché sei divorato dalla smania di avermi. Constatazioni di questo tipo nutrono l'orgoglio di qualunque donna, come puoi immaginare.»

«Devo ammetterlo: mi hai scoperto.» Alzai le mani in segno di resa, avvicinandomi a lei con un sorriso malizioso. «E tu, Arleen, che mi dici? Non muori dalla voglia di sentirmi dentro di te? Di avere le mie mani ovunque, sul tuo corpo? Ma soprattutto...» la feci aderire a uno degli armadietti e le sollevai le mani sopra la testa, tenendole vicine, chiuse con la mia mano e sfiorandola per tutta la lunghezza delle braccia «...non desideri avere il potere? Vedermi piegato di fronte a te, prostrato ai tuoi piedi, adorante e supplicante, a chiedere molto più di quanto tu hai intenzione di concedermi?»

«N-no» emise in un suono strozzato, ma ci mise pochi secondi per riprendere la solita, adorabile, verve polemica. «Ammetto che, però, proverei un certo gusto nel vedere la tua sconfinata arroganza, la tua inspiegabile presunzione, piegate come meritano di essere.»

«Mi spiace deluderti, dolcezza.» Con un movimento fulmineo della mano libera, sfilai dalla tasca posteriore dei pantaloni il laccio emostatico che avevo rubato dalla busta e le legai entrambi i polsi a una delle componenti in ferro dello scaffale. Arleen mi rimandò un'occhiata terribile, infuriata come non mai, eppure talmente sconvolta dal mio gesto e incredula da non riuscire a proferire parola. «Ma questo non accadrà mai. Ma - i» le alitai sulle labbra, prima di prendere quello inferiore tra i denti e succhiarglielo, guardandola fisso negli occhi e premendole il pollice all'altezza del clitoride, cercando di raggiungere il centro del suo piacere attraverso tutti quegli inutili strati di vestiti.

Mi separai da lei dopo pochi istanti e non feci nulla per nascondere la vistosa erezione che oramai aveva preso forma nei miei pantaloni decisamente troppo stretti, in quel momento.

«Approfittare di te in questa situazione sarebbe decisamente un'ipotesi allettante» dissi, schivando con una risata il calcio che cerò di assestarmi nei gioielli di famiglia. «Ma credo che sarà ancora più soddisfacente vederti piangere e implorare il mio nome.»

Con uno scatto sbloccai la serratura dello stanzino e mossi la maniglia, scostando appena la porta.

«Non oserai lasciarmi qui!»

«Dici?» La guardai con sfida, sorridendo come un predatore che si diverte a osservare la sua preda, irretita senza via di scampo. «Io scommetto di sì. Vado a prendermi un caffè, Arleen, tu raggiungimi quando vuoi.»

«Maledetto bastardo, testa di cazzo, figlio di...»

Non riuscii a sentire la fine del complimento rivoltomi, né il resto delle parole che quella meravigliosa boccuccia stava pronunciando, troppo impegnato ad allontanarmi fischiettando verso la macchinetta situata all'ingresso dell'ospedale.

Mercoledì 4 luglio, sera

Kaylee, quella sera, era tremendamente sexy. Indossava un vestito rosso fuoco con un'ampia scollatura che le fasciava il seno lateralmente, creando un gioco di vedo-non vedo terribilmente provocante, stretto in vita e con un vertiginoso spacco laterale, da cui spuntavano le sue cosce tornite, accavallate sotto il tavolo elegantemente apparecchiato.

«Vuoi una foto, Matthew? Posso anche rilasciarti un autografo, se lo desideri.» Kay sorrise maliziosamente e interruppe il mio attento esame, sorseggiando il costosissimo vino frizzantino con cui avevo deciso di accompagnare la cena.

«Non metto in dubbio la tua fotogenicità, dolcezza, ma preferisco averti davanti a me in carne e ossa ogni volta che desidero ammirarti.»

«Cosa ci facciamo di preciso qui, Matthew?»

Cosa ci facevamo? Quel pomeriggio, dopo il buco nell'acqua derivato dal pedinamento di lunedì, andato in fumo a causa del mio lavoro, avevo deciso di chiamare Kaylee e invitarla a cena: aveva inaspettatamente accettato la mia proposta, alla sola condizione che fosse lei a decidere luogo e orario. Ed ecco come mi ritrovavo seduto con lei a sorseggiare vino bianco e mangiare piatti stellati, accomodato nel ristorante dell'hotel di Llanos.
La cena, fino a quel momento, era stata un successo. Kaylee era un'abile oratrice e una ragazza dalla risposta particolarmente pronta, cosa che faceva sì che non ci fosse nemmeno un minuto di silenzio o imbarazzo, tra noi.

«Ti corteggio» risposi, aprendomi in un sorriso.

«Ed è per questo che due giorni fa eri casualmente nello stesso bar in cui mi trovavo io?»

Iniziai a sudare freddo e, cercando di prendere tempo, feci un lungo sorso di vino.

«Sono maledettamente fortunato» esordii, poi, stringendomi nelle spalle e mostrandole l'espressione più naturale e sfrontata che riuscissi a fare.

«La stessa fortuna sfacciata che ti ha portato fuori dal locale mentre anche io ero lì, immagino.»

«Oh no, quella non era fortuna, era un tentativo di approccio. Sai, quella... cosa che hai fatto con il ladruncolo, però, mi ha fatto desistere: forse non era un buon momento. Avevo paura per le mie palle. Ehi, ci tengo molto alle mie palle» aggiunsi, in risposta al suo sguardo scettico.

Kaylee sorrise languidamente, poi si avvicinò piano al mio orecchio. Doveva sembrare un amorevole sussurro, agli occhi degli altri avventori del ristorante, ma in realtà il tono che utilizzò era più pungente di un filo spinato. «Tu non me la racconti giusta, Evans: io non credo a una sola parola di quello che dici. Ma su una cosa puoi stare tranquillo: scoprirò il tuo segreto. Ho i miei assi nella manica, lo vedrai presto.»

Quindi si allontanò, risistemandosi sulla sedia e lasciandomi addosso una nota dolce del suo squisito profumo. Attimo dopo attimo, ero sempre più incuriosito da quella ragazza.
Quasi valeva quella sottospecie di ricatto di Eleanor. Quasi.

«Non vedo l'ora, dolcezza: io adoro giocare a poker. Si dà anche il caso che sia molto bravo, ma non amo vantarmi dei miei talenti, preferisco mostrarli. Che ne diresti di una partita da me, dopo cena?»

Kaylee aprì la bocca per rispondere alla mia proposta, ma fu interrotta dal suono del cellulare, cui rispose senza dire una parola. In pochi istanti la vidi quasi impallidire e assumere un'espressione costernata, poi richiuse subito la telefonata con mani tremanti. In pochi secondi, però, riprese tutto il suo autocontrollo e mi dedicò un sorriso cordiale, mentre spingeva indietro la sedia e si alzava, spiegando le grinze del tessuto.

«È stato quasi un piacere, Evans, ma a causa di un imprevisto mi trovo costretta ad abbandonare la partita. Chissà, magari un giorno potremo riprendere questo discorso e io potrei accettare la tua proposta» disse, porgendomi la mano.

«Magari» risposi, alzandomi dalla sedia e ignorando la sua mano tesa. Aggirai il tavolo, le presi delicatamente il mento tra la mano destra e le posai un bacio leggero come una piuma sulla guancia, sfiorandole quasi casualmente la coscia sinistra, lasciata scoperta dallo spacco del vestito, con l'altra mano. «Sono un abile giocatore, vedrai.»

Kaylee mi rivolse un altro sorriso mellifluo, girò i tacchi e si allontanò verso l'uscita del ristorante, sparendo dalla mia vista. Io saldai il conto, uscii dall'albergo e iniziai a gironzolare nei dintorni, pensando che sarebbe stato stupido allontanarmene: se qualche cliente avesse chiamato mi sarei trovato al posto giusto nel momento giusto. Avevo una voglia matta di scopare: la tensione sessuale accumulata in questi giorni era arrivata al limite, complice soprattutto lo scherzetto fatto ad Arleen.

Già, Arleen... pensai, non riuscendo a nascondere un sorriso spontaneo. Era riuscita a liberarsi in qualche modo, alla fine, e mi aveva raggiunto alla macchinetta del caffè poco prima che Veronika uscisse dalla stanza in cui l'avevano visitata. Quella stessa sera mi aveva inviato un sms, ringraziandomi del passaggio e aggiungendo di ricordarmi di guardarmi le spalle, ché la vendetta era dietro l'angolo. Oh, che paura. Non lo vedi, come tremo, al solo pensiero di finire tra le tue grinfie, ragazza?

Un rumore di passi affrettati mi distrasse dai miei pensieri, mi voltai e vidi Iris che si precipitava fuori dall'hotel, con una faccia sconvolta. Un immenso istinto di protezione si attivò ancora prima del mio cervello e di ogni pensiero razionale, quasi un meccanismo insito in me sin dalla nascita, cui non sapevo dare un nome o un motivo: l'unica cosa che contava era tenerla al sicuro lontana, da ogni male. Prendermi cura di lei, teneramente, dolcemente. In un istante le fui accanto.

«Dolcezza che succede?»

Mercoledì 4 luglio, notte

Iris dormiva pesantemente nel mio letto. Sulla via del ritorno si era chiusa in un silenzio tombale, dopo avermi pregato di portarla ovunque tranne che in albergo, ed era crollata, stremata dal pianto e dal dolore, non appena l'avevo adagiata sul mio letto. Ora la osservavo dalla poltrona, posta di fronte ad esso, agitando nel bicchiere, con un movimento rotatorio, le due dita di Lagavulin che mi ero versato appena Iris si era addormentata.

Finalmente avevo trovato un perché alla mia voglia di proteggere la piccola Iris, ma le risposte che mi ero date non mi erano piaciute. Per nulla.

Mi alzai in piedi e afferrai il cellulare, presi la foto dal cassettone e uscii in terrazza, premurandomi di chiudere la porta-finestra per non svegliarla. Portai il telefono all'orecchio e mi appoggiai con la schiena alla ringhiera, accavallando le gambe e tenendo stretta la foto nell'altra mano. Osservando attentamente l'allegro quadretto che si stagliava davanti ai miei occhi attendevo che la mia interlocutrice rispondesse al telefono.

«Ivanna? Scusa l'orario, hai un minuto? Ho un serio problema.»

Serio problema, per usare un eufemismo.

Iris altro non era che quel frugoletto sorridente in quella maledetta foto, la dolcissima bambina a cui avevo sempre voluto bene sin dal momento in cui le avevo posato gli occhi addosso e i suoi genitori erano la coppia felice che la teneva tra le braccia accanto a mia madre e mio padre. Gina e David.

Gli unici, a sapere che fine avesse fatto mio fratello.

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