Matthew. Mi concede questo ballo?

Martedì 17 luglio

Avrei voluto dire che non mi ero accorto di lei o al più che l’avevo fatto per caso, quando avevo iniziato a scandagliare la sala con fare annoiato. Avrei voluto dire che avevo notato la sua chioma ramata – impossibile da non saltare all’occhio - in un guizzo fulmineo, che avevo sentito la sua voce in un momento in cui era casualmente troppo vicina al mio orecchio, che avevo annusato il suo profumo in un punto imprecisato della sala che qualche minuto prima aveva assistito al suo passaggio; avrei voluto davvero, davvero tanto, ma la verità era che me l’ero sentita fremere sulla pelle non appena avevo varcato l’ingresso del ristorante di lusso. Era iniziato tutto come una specie di pizzicore che poi si era tramutato in vera e propria elettricità statica, come se ogni singola cellula del mio corpo fosse irrimediabilmente messa in allerta da qualcosa di tremendamente pericoloso e allettante allo stesso momento.

Sapevo cos’era.

Era la stessa sensazione che avevo avuto la mattina precedente, fuori dall’ospedale, quella che mi aveva fatto sollevare gli occhi verso di lei nel momento in cui era piombata tra le braccia di Jona.
Era la stessa sensazione che mi aveva annodato lo stomaco quando si era seduta con me al tavolo a pranzo, prima del rapimento di Iris.

Era l’unica cosa in grado di azzittire quella forma di autocontrollo pettinato che portavo sempre con me.

Non capivo come fosse possibile, mi ero semplicemente arreso alla realtà dei fatti: ogni volta che Arleen si trovava nei paraggi io mi tendevo come una corda di violino.

Mi bastò vagare distrattamente con gli occhi per scovarla: era avvolta in un abito di impalpabile seta verde che le metteva in risalto il colore dei capelli, un pezzo firmato lungo fino ai piedi con una profondissima scollatura sulla schiena su cui vagava indisturbata la mano di Gonçalo. Strinsi istintivamente i molari alla vista di quei due insieme, cercai di ripetermi che lei non poteva essere la mia accompagnatrice per ovvi motivi, che tra loro due non c’era niente e anche fosse non erano fatti che mi riguardavano, che dovevo dimenticarla, lasciarla perdere, ma fu tutto inutile. Riuscii a resistere giusto il tempo di spiluccare due tartine con del caviale e poi appena vidi che si dirigeva in bagno, senza nemmeno rendermene conto, fui da lei.

Schiusi dolcemente la porta, meritandomi l’occhiataccia di una signora sulla sessantina che stava ritornando in sala, mi intrufolai e rimasi per qualche secondo ad ammirarla, con il volto rivolto verso il basso interamente ricoperto da una cascata di capelli e le mani appoggiate sul lavabo; dell’acqua le imperlava i polsi, probabilmente aveva deciso di bagnarli per riprendere il controllo su se stessa. Mi stuzzicava l’idea che l’avesse perso vedendomi.

Mi avvicinai silenziosamente e richiamai la sua attenzione con una battuta facile, mentre la stringevo per i fianchi e finalmente potevo godere del contatto della mia pelle con la sua, del loro perfetto combaciare, della sensazione di familiarità che ormai un tocco qualunque era capace di regalarmi. Era la sensazione migliore del mondo, la stessa sensazione che avrei voluto provare per tutta la v-

Ma cosa andavo pensando? Avrei dovuto riprendermi quanto prima, magari con un bicchiere di whiskey in ghiaccio e un paio di cosce sudate pronte ad accogliermi.

«Non potrei mai stalkerarti, Matthew, non gioco più. D’altronde era quello che volevi, no?»

«Non esattamente, ma ne riparleremo. Cosa fai qui allora, ragazzina?»

«Vivo la mia vita per lo più. Nello specifico, però, da quando ti ho visto occupo il tempo libero andando alla ricerca di oggetti di lusso e pietanze prelibate da scagliarti addosso. Ho deciso di variegare le mie abitudini, renderle più raffinate: mele e vassoi non mi bastano più.»

«L’odio è comunque un sentimento migliore dell’indifferenza» esordii, ridacchiando sotto i baffi.

«Cos'hai detto?» Arleen mi rimandò dallo specchio un’occhiata al vetriolo, mentre io non riuscii a trattenermi dal ridere ancora più forte.

«Niente, niente, non ho detto niente, non ho mai messo in dubbio il tuo ego cazzutissimo e smisurato e non ho- ehi!» con un gesto fulmineo, Arleen si era voltata verso di me, mi aveva afferrato i testicoli e li aveva stretti così forte da farmi vedere le stelle.

«Occhio a cosa fai, lì sotto» gracchiai, con le lacrime agli occhi. «Potresti trovare qualcosa di tuo gradimento.»

La mia pantera emise uno sbuffo annoiato e mi lasciò andare come se fossi una seccatura; prima di piegarmi a prendere fiato e consolare i gioielli di famiglia feci in tempo a vederla scrutarmi con fare scettico mentre, come al solito, teneva indice e pollice a una distanza infinitesimale, alludendo alle dimensioni ridotte del mio pene. Storsi la bocca in un lieve ghigno: piccola impertinente, era perfettamente consapevole delle dimensioni del mio cazzo. Se avesse voluto continuare a pensarla così come forma di personalissima auto difesa nei confronti dei ricordi lussuriosi poteva accomodarsi: io e lei conoscevamo la verità.

«Sei venuto a darmi il tormento?»

«Ti garantisco che se venissi proveresti tutto tranne tormento, Arleen. In ogni caso no, sono qui in veste di accompagnatore e devo dire che peraltro la mia dama è anche in evidente ritardo.»

«In veste di accompagnatore» mi scimmiottò, sorridendo appena. «In veste di puttana, vorresti dire.»

«La volgarità non ti si addice in certi contesti, soprattutto se cerca di mascherare altro, quindi farò finta di non aver sentito. No, non sono pagato per questo e non è prevista, almeno per il momento, l’idea di infilarla tra le mie lenzuola.»

«Non ti credo, Matt. Ogni donna a cui ti accompagni è una donna che non può definirsi tale, di bassa levatura morale, di.. »

«Smettila di offenderti da sola, sia in veste di persona che mi si è accompagnata frequentemente, sia in veste di chi certo non si nega determinati piaceri, diciamo. È l’orgoglio a parlare, Arleen, lo vedo bene; ma nonostante io me ne renda conto non sono di certo qui per usare questo contro di te, mi taglierei un braccio piuttosto. Ma cerca di non sanguinare di fronte agli squali.»

Mi avvicinai alla porta del bagno, spalancandola e indicandole l’uscita.

«Ora se volessi seguirmi sarei ben lieto di mostrarti la suddetta dama di facili costumi, sempre che si sia degnata di essere qui per un orario decente.»

Non mi degnò di uno sguardo quando si decise a uscire dal bagno: semplicemente continuò a camminare spedita, tutta impettita, talmente tanto che non resistetti al mollarle una pacca sul sedere sodo. Mi rivolse il dito medio senza nemmeno voltarsi, perseverando nel dirigersi nella sala.

Mi passai una mano sul viso stanco, stropicciandolo. Inutile dire che ogni tentativo di tenerla lontana stava andando nella stessa direzione in cui Ryan temeva che Veronika bazzicasse nell’ultimo periodo: a puttane.

Feci appena in tempo a tornare anche io in sala, che la mia dama fece il suo ingresso: avvolta in un vestito in velluto blu scuro con una scollatura diametralmente opposta a quella di Arleen – sul davanti, così profonda da arrivare fino all’ombelico e lasciare intravedere la forma del seno pieno – Kaylee mosse un passo verso l’altro nella mia direzione, arrancando sui dodici centimetri di Louboutin.

«Che fine avevi fatto? L’ultima volta che ho dato un’occhiata al manuale del galateo non mi pare fosse previsto l’arrivo in differita dei due membri della coppia.»

«Lo so, ma non hai idea di quello che mi è successo oggi. E prima che tu me lo chieda: no, preferisco non parlarne e lasciarmi tutto alle spalle.»

«Come desideri. Prima che tu te ne accorga sola, però, volevo solo avvertirti di una questione… incresciosa? Gonçalo a ore dodici.»

Kaylee sbirciò rapidamente oltre la mia spalla e non appena incontrò l’oggetto della mia segnalazione storse impercettibilmente la bocca truccata di rosso, per poi rivestire in pochi istanti la miglior espressione rilassata che avesse in repertorio.

«Dovresti sapere che quando lavoro sono una persona estremamente scrupolosa, Matt. Non lascerò che questo inconveniente mini in alcun modo il mio piano.»

Quando domenica ero andato a casa di Kaylee per cercare Veronika, mi ero fermato a parlare con lei per chiederle notizie di Eleonor: era ancora in ospedale, ma si stava riprendendo velocemente, così che in pochi giorni sarebbe potuta uscire dal coma farmacologico e avrebbe potuto dirci quello che sapeva su Kevin e sul modo in cui l’aveva aggredita. Con l’occasione, ne avevo approfittato per chiarire la natura del nostro rapporto: Gonçalo sapeva tutto ormai e in più ero stanco di mentire e mandare avanti quella specie di gioco e quell’interesse che in realtà non nutrivo nei suoi confronti – era evidente che ormai tutta la mia attenzione era calamitata dalla rossa – seppure riconoscessi che fosse una splendida donna e non fossi di certo del tutto immune al suo fascino. Solo un eunuco avrebbe potuto.

Nonostante Kaylee non fosse del tutto convinta, aveva accettato di buon grado le mie scuse – d’altronde conosceva sua madre - e mi aveva proposto un accordo: lei avrebbe deposto l’ascia di guerra se io mi fossi dimostrato disponibile ad accompagnarla a una cena di beneficenza martedì. Ne aveva bisogno perché aveva da poco ripreso a lavorare: il suo obiettivo era un magnate che si accompagnava spesso e volentieri alla fidanzata di turno, più interessata ai suoi soldi che a lui, e il mio compito sarebbe stato quello di sedurre la suddetta in modo tale da allontanarla e permettere a Kaylee di approcciare con la sua… vittima. Non nego che non mi andasse del tutto giù l’idea di essere complice nell’omicidio di un uomo, ma ormai non mi stupivo più della piega che aveva preso la mia vita e per questo avevo accettato di buon grado.

Certo, né io né lei avevamo messo in conto la presenza di Arleen e Gonçalo, s’intende. Persino uno stupido sarebbe stato in grado di comprendere che in un modo o nell’altro sarebbero stati guai con quelle due micce pronte ad accendersi e scatenare l’inferno.

Nonostante le premesse non fossero delle migliori, la cena proseguì tranquilla, salvo il momento in cui Kaylee si strozzò con un’ostrica quando vide Gonçalo sussurrare all’orecchio di Arleen e a me non andò di traverso lo champagne quando Arleen si piegò sotto il tavolo per raccogliere il tovagliolo cadutole e Llanos spalancò impercettibilmente gli occhi prima che la ragazzina riemergesse tutta soddisfatta.

Subito dopo aver assaggiato il dolce, cedetti al seducente richiamo di una sigaretta: mi alzai e mi diressi verso il terrazzino che si affacciava sulla distesa urbana di San Diego. Era innegabile, la notte era l’elemento che più mi vestiva, mi avvolgeva, mi seduceva – oserei dire mi scorresse nelle vene. Niente mi faceva sentire più a mio agio di un buio panorama: che fosse accompagnato dal pigro incedere delle onde del mare o illuminato dalle luci dei grattacieli poco importava. Ero affascinato dal nero e dalle sue sfumature e da tutte le creature oscure che lo popolavano e io ero una di quelle.

«E dire che avevo appena iniziato a trovarti simpatico.»

Sorrisi appena, illuminato dalla pallida luce della luna.

«Anch’io, Llanos. Arleen? Davvero?»

«Da quando è vietato farmi accompagnare da una donna a cena?»

«Da quando è vietato accompagnare una donna a cena?»

«Touché.» Llanos si avvicinò a me a grandi falcate, appoggiandosi con i gomiti alla balaustra, e continuò a scrutare in silenzio i profili della città. «Ciò non toglie che ti spaccherei volentieri la faccia.»

«Anch’io. Ma hai iniziato tu.»

«Sono costretto ad ammettere anche questo.» Dopo qualche minuto, si voltò improvvisamente verso di me, mentre le note di un tango iniziavano a diffondersi nell’aria: evidentemente qualcuno aveva dato il via alle danze. «Cosa stiamo lasciando che ci facciano queste donne?»

«Tutto quello che vogliono, Llanos. Hai davvero mai pensato di avere la situazione in pugno, quando si tratta di Kaylee?»

«La mia fama mi precede, sai ben...»

«La verità, Llanos. Da uomo a uomo.»

Non rispose subito. Si prese qualche minuto, ma alla fine grugnì controvoglia un «No.»

Era da tutta la cena che un’idea mi frullava in testa: oscura come la notte a cui tanto anelavo e altrettanto proibita, mi aveva stuzzicato sin dal primo istante e non mi aveva lasciato respiro, mai. Ci pensai ancora un altro po’ su, inutilmente, mentre gettavo a terra il mozzicone e lo spegnevo con la punta del mocassino, infine parlai.

«Ci diamo il cambio?»

«Che?»

«Il cambio. Hanno iniziato a ballare, di là: rientriamo, tu prendi Kaylee e io Arleen. Un solo ballo e poi tutto come prima. Ci stai?»

Gonçalo mi guardò come se fossi matto – forse lo ero davvero – fatto sta che pochi secondi dopo nei suoi occhi si accese la scintilla che ero certo illuminasse anche i miei, lo stesso guizzo di istintività che gli si spinse nelle vene, facendo sì che senza nemmeno degnarmi di una risposta scomparisse oltre le pesanti tende di broccato rosso che contornavano la porta finestra della sala.

Non persi altro tempo e corsi a mia volta dentro, intercettando Arleen in pochi secondi e stringendola tra le mie braccia prima ancora che sia io che lei avessimo realmente modo di renderci conto di ciò che stava accadendo e del milione di motivi per cui non avremmo mai dovuto farlo. Come ogni volta in cui avevo a che fare con lei, ogni briciolo di razionalità era andato a farsi benedire: stavo facendo tutto quello che non avrei dovuto fare, ma non me ne fregava assolutamente nulla. C’eravamo io e lei e ci muovevamo su quella musica come se stessimo scopando da vestiti.

La stringevo a me così forte da percepire il suo cuore impazzito, poi la lasciavo andare per pochi secondi, la facevo piegare verso terra con un movimento sinuoso e poi repentinamente la tiravo verso il mio corpo con un movimento brusco che me la faceva arrivare quasi sulle labbra. Ci stavamo corteggiando e seducendo a vicenda e forse non mi sarei concesso un solo giro, se all’improvviso non avessi scorto quello che mi pareva uno scagnozzo di Kevin in un angolo defilato della sala.

Mi si gelò il sangue: mi sentivo in trappola, soffocato, ma cercai di non darlo a vedere. Semplicemente strinsi Arleen di nuovo a me, cercando nella familiarità del suo odore l’antidoto per la mia agitazione, infilai il naso nella sua chioma e con la punta accarezzai lentamente il collo, fino ad arrivare al suo orecchio e lambirne il lobo con la lingua.

«Arleen» iniziai a sussurrare piano, con la voce arrochita dall’eccitazione e dal terrore «se solo io potessi averti… se solo fosse possibile, sicuro, se solo potessi dare sfogo a quello che sento davvero. Ai tuoi occhi potrò apparire tremendamente irrazionale e sconclusionato, un folle che il momento prima ti manda via e quello dopo ti desidera, ma quando ti ho intorno non posso che essere questo: un folle. Non ti posso garantire o promettere nulla, continuerò a cambiare idea o atteggiamento, ho i miei buoni motivi per farlo. Ma ora siamo qui, siamo io e te e… dannazione, carpe diem.»

Presi un altro breve respiro, prima di riprendere a parlare. «Se tu stasera fossi la mia accompagnatrice, so che ti condurrei nello stesso bagno in cui ci siamo scontrati poco fa, chiuderei la porta a chiave, ti farei sedere sul lavandino, sollevandoti il vestito senza preoccuparmi di strapparlo o rovinarlo e mi inginocchierei di fronte a te. Ammirerei il tuo sesso come meriterebbe, in ogni sua minima parte, con devozione, prendendomi tutto il tempo necessario e poi mi ci avvicinerei senza fretta, divorando tutta la pelle al mio passaggio. Solo alla fine afferrerei il tuo clitoride tra le mie labbra e succhierei fino a vederlo inturgidirsi per me. Ti farei arrivare a tanto così da un orgasmo per poi lasciarti insoddisfatta; ti trascinerei via e ti terrei tutta la sera al mio fianco, per non perderti d’occhio e correre il rischio di farti soddisfare la tua fame con quelle stesse manine delicate. Ti sorriderei spesso, con le labbra piene della tua voglia, me le leccherei senza sosta per sentire ancora e ancora il tuo sapore sulla mia lingua, ma solo a fine serata, dopo essere rientrati a casa, ti concederei la soddisfazione meritata, cedendo a te in ogni modo, lasciandomi fare ogni cosa che desideri. Perché è così che ci immagino, Arleen: due personalità dominanti che si scontrano in continuazione e trovano nello stuzzicarsi e provocarsi continuamente e nel saper cedere quando serve il loro equilibrio perfetto. Sei fuoco di benzina per me: divampi indisturbato e se provano a fermarti tu aumenti il tuo potere. Ma non è tempo per noi, Ari, e io non so se… potrà mai esserlo.»

Con la coda dell’occhio, vidi Kevin avvicinarsi a quello che doveva essere decisamente il suo scagnozzo. Scandagliai velocemente la sala con gli occhi per cercare Kaylee e la vidi uscire sulla terrazza con Gonçalo; immaginai avesse abbandonato la missione per quella sera e vista la situazione decisi di defilarmi. Senza dire altro, mi separai da Arleen ed evitai di guardarla in faccia, mentre mi confondevo tra la folla e guadagnavo l’uscita.

Per quanto tempo ancora sarei riuscito a evitare il destino a tenerne lontano tutte le persone a cui tenevo?

Speravo che Gonçalo avrebbe avuto notizie positive il prima possibile.

Mercoledì 18 luglio

Iris mi guardava con sfida da sopra il caffè fumante. Mi aveva aperto la porta in vestaglia, non preoccupandosi del fatto che si vedessero perfettamente i capezzoli inturgiditi e che ad ogni passo potessi avere una visuale discretamente buona del suo stacco di coscia – ma quella ragazza dormiva nuda? – ma soprattutto non curandosi minimamente del fatto che doveva essere in balia di un pericoloso rapitore e invece era lì a casa sua a fare colazione come se niente fosse.

«Quindi non hai nessuna intenzione di dirmi cosa ti è accaduto.»

«No.»

«Chi è coinvolto?»

«Nemmeno.»

«Dove sei stata?»

Mi scoccò un’occhiata in tralice, guardandomi con sdegno come se le avessi chiesto la cosa più stupida del mondo. «Ovviamente no, no e poi ancora no. Smettila di trattarmi come se fossi una bambina o ancora peggio tua sorella.»

Era una mia impressione o aveva volutamente appesantito il tono sulla parola sorella, caricandola di un significato aggiuntivo?

«Cosa vorresti dire? Sai benissimo che mi preoccupo per te.»

«Da oggi puoi farne anche a meno, notizia flash: sono maggiorenne e so badare a me stessa.»

Mi avvicinai a lei stringendola per le spalle e scuotendola appena. «Ma ti ascolti quando parli? Chi ti ha messo in testa queste idiozie? Ti hanno fatto il lavaggio del cervello!»

«Tu mi hai fatto il lavaggio del cervello» sputò, velenosa. Incredibile, sembrava quasi un’altra persona. Che avesse saputo…? «Cosa mi nascondi, Evans? Saresti capace di ammettere guardandomi negli occhi che sin da quando ci conosciamo mi hai sempre raccontato la verità e mi hai realmente aiutato a trovare i miei genitori, dandomi ogni informazione in tuo possesso? Avresti il coraggio di farlo?»

Non risposi. Semplicemente continuai a guardarla fisso negli occhi, prima di abbassarli verso terra.

«Come immaginavo. Esci subito da qui, Matthew Evans, non perdere un altro minuto in mia compagnia: mi fai solo schifo.»

«Devo sapere dove sei stata, Iris, cosa ti hanno fatto e tutto, tu… me lo devi.»

«Io non ti devo proprio un bel nulla!» mi urlò in faccia. «Fuori. Da. Qui.»

Ero ormai quasi sulla porta, rassegnato al suo silenzio e al suo improvviso cambio d’umore, quando mi bloccò con una frase: «Dì a Veronika che con lei, forse, parlerò.»

«Cosa diamine c’entra Veronika? La odi!»

«Prendere o lasciare» disse, sorridendo sorniona. «La aspetto: la mia casa, per lei, è sempre aperta.»

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