Matthew. Favori
Giovedì 28 giugno
I minuti dopo il sesso sono quelli che temo di più, di tutto il tempo trascorso con le mie donne.
C’è chi vuole parlare della sua vita, chi brama tenere coccole - che pratica orribile, il solo suono di questa parola mi fa rabbrividire sin nel profondo -, chi inizia a chiedermi se mi è piaciuto, perdendosi il nocciolo della questione: sei tu che devi aver gradito la prestazione, non io.
Andresti mai al ristorante a chiedere al cuoco se gli è piaciuto cucinare quel tenerissimo Foie Gras che hai accompagnato con un vino bianco, non troppo invecchiato? Non credo.
Con lei, però, tutto è diverso. Anche questo.
Marchiata da intensi segni rossi laddove le mie dita, rivestite di passione, hanno stretto seni, capezzoli, cosce e ventre, nuda così come Dio l’ha creata, lei rimane in silenzio, ferma; a volte scrive delle mail sul cellulare, altre semplicemente fissa il muro giocherellando con una ciocca bionda. È una donna pratica, che non ama perdersi in futili convenzioni sociali, ma tende ad arrivare dritta al punto. Sa quello che vuole e come vuole che venga eseguito, nella vita e sotto le lenzuola.
«Oggi sei distratto, Matthew. È da quando ho messo piede nella tua stanza che ti osservo e sembri avere perennemente la testa da un’altra parte.»
«Colpa della sorpresa che mi hai fatto. Non ti aspettavo.»
Mi accarezza con una mano inanellata e mi concede uno sguardo che a una prima occhiata potrebbe confondere chi non la conosce bene, apparendo quasi comprensivo. «Non hai mai saputo mentire. A che pensi?»
Ha ragione, in realtà.
Qualche ora prima che mi chiamasse è entrata nel bar una ragazza: si muoveva sinuosa e sicura di sé, nonostante con quel suo vestitino a fiori fosse adatta all’ambiente quanto un quadro di Andy Warhol in una dimora del ‘700. Una pantera fulva travestita da Barbie.
Ha trangugiato del vino, un rosso, inchiodando i suoi occhi chiari nei miei. Osservandola, non sono riuscito a fare a meno di pensare alle sue labbra che, aderendo sul mio pene, mi bevevano con la stessa voracità; ma è stato solo un attimo: quello dopo ero già concentrato sui clienti successivi, mentre lei guadagnava l’uscita.
Quella ragazza sconosciuta mi è tornata prepotentemente in mente mentre affondavo nella mia amante, stasera, una stoccata dopo l’altra, e il ricordo di quelle labbra e della loro immaginaria stretta mi hanno preso a tal punto da farmi quasi raggiungere l’orgasmo prima del tempo, perdendo ogni briciolo della mia credibilità e professionalità.
Non è una cosa che può accadere, non a me.
Ed è per questo che appena uscirò dalla camera cestinerò il volantino che le ho sottratto, anche se questo non mi impedirà di chiedere a Jona se l’ha chiamata e com’è andato il loro incontro. Almeno la soddisfazione della curiosità mi verrà concessa.
«Ho avuto una giornata pesante a lavoro, stasera, tutto qui» minimizzo. «Spero che questo non abbia fatto calare a picco il livello della mia prestazione.»
«Se è del pagamento che ti preoccupi, non credo tu debba temere qualcosa. Posso anche essere una persona fredda e calcolatrice, come mi descrivono in molti, ma non si dica che non sia una persona di parola.»
Abbassa gli occhi e si perde di nuovo nei suoi pensieri, quindi ne approfitto per alzarmi e uscire in balcone. Infilo i pantaloni della tuta, che ho sempre con me nelle notti in cui decido di dormire in albergo, senza i boxer e la carezza della stoffa, unita al pensiero di quella stramaledetta ragazza, mi regala un nuovo accenno di erezione; scuoto la testa e appoggiandomi alla balaustra mi accendo una sigaretta, cercando di lasciare andare i pensieri come il fumo che sprigiona questa cicca.
La serata è calda e l’aria mi sfiora e gioca con la mia pelle come una bollente carezza.
«Ti devo chiedere un favore.»
Eleanor mi fissa dallo stipite della porta, avvolta in una vestaglia di raso rosa. Ogni volta che le poso gli occhi addosso non riesco a fare a meno di pensare a quanto sembri quasi… innocente, in queste vesti.
«Cosa vuoi?»
«Mia figlia. L’ho accompagnata a San Diego perché si trasferisce qui, dal padre, ed è per questo che sono in città.»
«Hai bisogno che me la scopi?» chiedo, sarcastico.
«Se necessario» dice, stringendosi nelle spalle. «Ho bisogno che la avvicini, che la controlli. Non sarà più sotto la mia supervisione e questo mi fa impazzire: non sapere dov’è, con chi è e che fa. Dio solo sa cosa potrebbe combinare, anche per il semplice scopo di sconvolgermi i piani. Devi conoscerla e starle addosso.»
«Perché proprio io?»
«Perché Kaylee non ti conosce e non ti ha mai sentito nominare, quindi non potrebbe sospettare nulla. Penserà solo che sei un bellissimo ragazzo che le fa una corte spregiudicata. Anche se dovesse indagare, e lo farà, non troverebbe mai qualcosa che possa collegarti a me: sai bene quanto io riesca ad essere cauta.»
«E questo lo chiami favore? È una grana a tempo pieno, 24/7, non un favore. Non sono una dannata baby-sitter. Sbrogliati i tuoi casini da sola.»
Sorridendo mi volto nuovamente a guardare lo skyline che si staglia sul blu cobalto di questa notte quasi senza stelle. La vista mozzafiato che l’hotel Parco dei Principi regala, unita alla brezza notturna e al silenzio, visto che, complice la tarda ora, il traffico è ridotto all’osso, creano un mix perfetto per distendere i miei nervi.
Un meraviglioso modo di concludere la nottata.
«Ti darò delle informazioni su di loro» aggiunge. «Su Gina e Daniel.»
Mi irrigidisco istantaneamente e con uno spasmo involontario stringo il filtro della sigaretta fino a renderlo una sottilissima lamina. La lancio oltre la balaustra e con lunghe, impazienti, falcate mi avvicino a Eleanor, afferrandola per il collo e facendola aderire al muro. Amo le mie donne e le tratto tutte con i guanti, ma ci sono limiti che non vanno oltrepassati, pena il diventare poco responsabile delle mie azioni. Come adesso.
«Tu che ne sai, di Gina e Daniel?»
Sorride, per come può, in questa posizione. «Io so tutto e posso tutto. È il mio lavoro.»
La guardo ancora negli occhi, mentre la rabbia deforma i miei lineamenti; stringo la presa sul collo ed emette un piccolo verso strozzato, ma non mi lascio commuovere. Ha toccato questo nervo scoperto appositamente per ferirmi.
La suoneria del mio telefono rompe questa impasse. Lascio andare il suo collo ritraendo la mano velocemente, come se scottasse, e mi chiudo in bagno. Sgrano appena gli occhi nel leggere il nome - chi non muore si rivede! - e rispondo brusco, ancora sconvolto, alla chiamata.
«Dimmi.»
«E dire che di solito vanno dicendo che sia io, quello stronzo e asettico. È così che si tratta un vecchio amico?»
«Ryan, spunti dal nulla in un momento per nulla buono. Posso richiamarti?»
«Ti devo parlare con una certa urgenza, ma posso aspettare. C’entra mia sorella e un cazzo di regista che le vuole entrare nelle mutande… insomma, ti spiegherò. Rispondendomi adesso, però, mi avresti anche aiutato a distrarmi, visto che si dà il caso che abbia una diciottenne con problemi di stalking e Dio solo sa cos’altro incollata al culo da stasera. E adesso è nel mio letto.»
Non riesco a fare a meno di sorridere.
«Amico, dovresti preoccuparti della sua presenza nel letto e vicinanza al tuo culo solo se avesse qualcosa da nascondere. E non escludo che potrebbe farti piacere anche in quel caso.»
«Vai a farti fottere, Matthew.»
«Già fatto, appena mezz’ora fa.» L’accenno a Eleanor mi riporta bruscamente alla realtà. «Devo chiudere. Ci sentiamo domani.»
Fino a prima dell’incidente, nonostante non vedessi o sentissi quotidianamente Ryan, lo consideravo quanto di più simile a un amico potessi avere ai tempi ed ero certo di poter contare su di lui in ogni momento in cui ne avessi avuto bisogno.
Da quel maledetto giorno non ho più avuto sue notizie, lui ha bloccato ogni chiamata che ho tentato di fargli e non ha mai risposto ai miei sms. Per lui ero come morto.
Fino ad oggi, a quanto pare.
Ne approfitto per sciacquare la faccia con abbondante acqua fredda e guardarmi allo specchio. Gli occhi scintillano ancora di una malcelata furia cieca.
Quando rientro in camera, la serpe è andata via, lasciando dietro di sé una scia di un qualche costosissimo profumo e un biglietto vergato con una scrittura svolazzante.
“Considero il tuo silenzio come un assenso. Mi metterò presto in contatto.”
Con un rabbioso grugnito accartoccio il biglietto e lo butto nel cestino. Mi lascio cadere sul letto a peso morto, prendendomi la testa tra le mani, in preda ai miei demoni.
Come si è permessa di infilare le sue dita nella parte più riservata della mia vita? C’è un motivo se non lascio mai avvicinare nessuno al mio privato.
Mai.
Mi sento in trappola e vengo assalito dagli echi del passato, quando le crisi di panico mi attanagliavano il collo, facendomi mancare l’aria e aumentando la frequenza dei battiti del mio cuore. Riesco con uno sforzo immenso ad allontanare l’ormai non più familiare sensazione che cerca di prendere possesso del mio corpo e mi ripeto, come un mantra, che è tutta colpa di Eleonor.
Colpa sua, solo sua.
Maledetta puttana.
Venerdì 29 giugno
Seduto su una poltroncina in vimini, al di sotto del gazebo in legno chiaro che ospita i tavolini situati all’esterno dell’hotel, sorseggio il mio caffè scrutando la spiaggia privata dell’hotel, ora desolata. In lontananza, piccole onde gorgoglianti di spuma biancastra si avvicendano, increspando appena l’oceano, e i gabbiani si rincorrono riempiendo l’aria dei loro stridii.
Un senso di pace mi avvolge, riuscendo finalmente a lenire l’inquietudine che mi sono trascinato dietro per tutta la notte e quella sensazione amara residuata dal breve sonno disturbato dagli incubi.
«Signor Evans?» Una ragazza con una lunga treccia bionda e dei luminosi occhi nocciola mi osserva poco distante. Indossa la divisa dell’albergo e tiene le mani intrecciate in grembo, in attesa.
«Così dicono.»
«Il signor Llanos desidera incontrarla. Posso accompagnarla nel suo ufficio?»
Mi concedo un’occhiata al Rolex al polso, le cui lancette segnano le 8:05, orario insolito per disturbare un avventore. Mi ravvivo con una mano i capelli e mi sollevo con lentezza studiata, scostando appena la sedia dal tavolino adiacente.
«Faccia pure.»
«Ha bisogno di darsi una sistemata, prima?»
Mi scruto con attenzione: come ogni mattina, fresco di doccia, sono impeccabilmente avvolto in una camicia bianca, immacolata e fresca di bucato, e i pantaloni di cotone chiaro mi ricadono con una studiata lunghezza sui mocassini in pelle. Dopo aver finito l’ispezione mi rivolgo a lei osservandola con un’espressione scettica, la bocca appena incurvata in un sorriso e un sopracciglio alzato. «Le pare ne abbia bisogno?»
«Oh no, no signor Evans, nella maniera più assoluta.» Con le guance imporporate per l’imbarazzo, china la testa e abbassa gli occhi osservandosi la punta delle scarpe.
«Andiamo, avanti.»
Dopo avermi fatto strada lungo intricati corridoi rivestiti da una tappezzeria damascata, accompagnati dal rumore che i nostri passi producono sul parquet scuro, giungiamo finalmente di fronte a una porta assolutamente anonima, escludendo la sottile targa d’ottone su cui si staglia il nome del proprietario dell’hotel: “Goncalo Llanos”.
La ragazza bussa alla porta con due sottili colpi e a un burbero cenno affermativo dell’uomo presente nella stanza, spalanca la porta e mi lascia entrare.
La prima cosa che mi colpisce dell’uomo che mi osserva da dietro una pesante scrivania in mogano sono i modi: dalla sua postura, rilassata, dalla camicia appena sbottonata, dal luccichio nello sguardo, da quel mezzo sorriso sfrontato, capisco che è un uomo abituato a comandare e a non essere contraddetto, mai; un uomo sicuro di sé, abituato a prendere tutto quello che reputi spettargli.
«Signor Evans» la sua voce profonda, grave, mi distoglie dai miei pensieri.
«Signor Llanos, è un piacere.»
«Ne sono certo.» L’uomo di fronte a me intima alla ragazza con un secco cenno della mano di sparire e chiudersi la porta alle spalle e così rimaniamo soli.
«Non amo perdermi in chiacchere, soprattutto quando si tratta di affari o di situazioni con cui non voglio avere nulla a che fare e questa faccenda è entrambe queste cose» continua poi, brusco e sbrigativo. «Uno dei miei clienti si è raccomandato che le consegnassi personalmente questo biglietto, in modo da non farlo finire in mani sbagliate.»
Afferro la piccola busta bianca sigillata che Llanos mi porge ed estraggo un biglietto vergato con una familiare scrittura.
“La invito a prendere parte alla mostra del noto fotografo Jona Heart, allestita per questa domenica. Vi saranno molti personaggi degni d’interesse, uno fra tutti. E.”
Eleanor.
«Ebbene, io le ho dato il biglietto, lei l’ha letto: vedo che qui abbiamo finito.» Llanos si alza e mi offre la mano, stringendomela con una presa ferrea. «Arrivederci, signor Evans.»
Ancora stordito esco dall’ufficio e mi appoggio con le spalle al muro, provando a riflettere. Quello che più mi infastidisce, di questa situazione, è che conosco già la decisione che prenderò, sin dal momento in cui Eleanor ha nominato Gina e Daniel.
Con un pesante sospiro afferro il telefono e compongo un numero, premo il tasto di chiamata e rimango in attesa di sentire la voce profonda del mio interlocutore.
«Ryan? Ti va di incontrarci a una mostra, per parlare, domenica?»
A mia discolpa, sarei comunque andato, a prescindere alla mostra di Jona.
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